Lingua morta e corpo vivo. Anagoor e L'italiano è ladro di Pier Paolo Pasolini - Conversazione con Simone Derai

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L'italiano è ladro | una transizione imperfetta ha debuttato lunedì 2 maggio 2016 nell'ambito della rassegna Stanze. Teatro in appartamento, alla Casa della memoria a Milano. Sarà ospite all’Operaestate Festival Veneto il 3 settembre a Bassano del Grappa e a Short Theatre il 16 settembre 2016 a Roma.

La compagnia Anagoor, sempre attenta nelle sue creazioni all'indagine sulla lingua e alle molteplici rifrazioni del passato nel presente (si pensi a Lingua Imperii ma anche al più recente Virgilio Brucia), solca le impervie vie della poesia pasoliniana con una nuova produzione. La scelta ricade non a caso sull'Italiano è ladro di Pier Paolo Pasolini: un poemetto plurilingue, dalla marcata connotazione politica, a cui Pasolini lavora durante la fervida e per certi aspetti controversa stagione degli anni Cinquanta.

Lisa Gasparotto: Un po' per caso, qualche tempo fa, mi hai chiesto di consigliarti una lettura pasoliniana: ti ho subito suggerito L'italiano è ladro, un testo poco noto ma cruciale, secondo me, nell'ambito dell'esperienza letteraria ma anche politica e umana di Pasolini. Tu hai così scelto senza esitazione di accogliere quella proposta, realizzando il 2 novembre 2015 una prima mise en espace, con pochi amici ad assistere: «per ricordare», hai detto. In quella prima occasione la scelta fu quella di portare sulla scena la lettura integrale della cosiddetta Redazione Falqui, la redazione più lunga del testo (accessibile al lettore perché pubblicata postuma nel Meridiano Mondadori), e un mio intervento critico, per accompagnare e mediare quindi l’ascolto di questi versi. A te e a tutti noi (ma anche al pubblico amico presente) è parso subito evidente si potesse iniziare a lavorare a una lettura scenica. E così è stato. D'altro canto la struttura teatrale e drammaturgica dell'Italiano è ladro, sebbene nel non-finito, è piuttosto marcata. Cosa dunque ti ha colpito inizialmente di questo testo? Forse la matrice tragica dei cori o quel pianto, corale e quindi ancestrale, delle madri? O invece, la riflessione pasoliniana sulla lingua, quella lingua del potere e del dolore su cui anche voi vi soffermate nelle vostre creazioni?

Simone Derai: Sebbene la questione del pianto presente nel testo abbia rappresentato un magnete empatico, in realtà il primo aggancio è stata proprio la questione linguistica, a cui peraltro pare radicarsi il motore stesso del dolore. Nell’Italiano è ladro si traduce nell’incapacità di dire insieme il dolore e la causa del dolore, perché l’impossibilità di esprimersi e rivendicare la propria posizione e il proprio sentire genera una inaudita sofferenza. Il dolore entra in una sorta di moto vorticoso che non riesce a trovare arresto e che lo amplifica. Non è un caso che il coro delle madri proceda per spirali concentriche in discesa: una catàbasi, che è anche discesa nella storia, personale e collettiva. Siamo di fronte a una situazione tragica: è come se le madri generassero figli incapaci di produrre per sé la rivolta. Fino ad arrivare a una impossibilità di dire totale, a una effettiva paralisi delle lingue. La lingua è morta, e viene rappresentata nel testo da una regressione intrauterina: è da questa prigione viscerale che nasce la rabbia furiosa delle cagne, moltitudine in cui si trasforma la singola madre del poema. C'è stato un aggancio immediato circa la questione linguistica, dicevo, anche per un interesse nei confronti di questa nostra lingua, del Nord-Est. Tutto questo ha senz'altro anche una radice personale, legata alla mia esperienza linguistica familiare ma che coinvolge forse l'intera nostra generazione e le successive: l'incompatibilità tra l'utilizzo della lingua e del dialetto che (com)porta una sorta di balbettio e di mutismo. Non so se questa cosa sia una condizione tipica e specifica del Nord-Est, una regione dove il discorso su lingua e identità, nel recente passato, ha comportato non poche deformazioni politiche. Ad ogni modo mi pare che nei versi dell'Italiano è ladro la questione identitaria sia molto presente: è un luogo della riflessione pasoliniana molto scivoloso e pericoloso, su cui tuttavia vale la pena soffermarsi. In ogni caso, mi pare che i nuclei concettuali che questo testo mette in gioco siano molti e che riguardino i molteplici piani della sperimentazione e della riflessione pasoliniana. Anzitutto, è piuttosto immediato chiedersi come e se si possa definire, nell'ambito dei generi letterari, un testo come L'italiano è ladro. Quindi, per partire dal titolo, ci si chiede (e ti chiedo) chi è l'italiano, e che cosa ruba.

L. G.: La questione linguistica e quindi identitaria, di appartenenza, come dicevi, è centrale e, non a caso, è il perno attorno cui ruota la riflessione pasoliniana nei versi dell'Italiano è ladro e quindi anche nel diario in prosa che accompagna il testo. Si può affermare, semplificando, che Pasolini, qui, tenta di fare propria la condizione di povertà e disperazione dell'altro, di Dino, protagonista e dedicatario dell'Italiano è ladro, figura di tutti i giovani di una generazione «quella del '25 e '26-'27 con qualche imprecisione cronologica, di ragazzi poveri e sfortunati» (ItL, 865),[1] come Pasolini scrive, e che attraverso Dino vengono portati a un massimo di rappresentanza allegorica. Questa regressione nella condizione dell'altro vorrebbe diventare una sorta di redenzione collettiva dall'esclusione sociale: l'impossibilità di sentirsi parte di una comunità, e più estesamente di una patria, disorienta nel riconoscimento di sé e della propria identità, compromettendo anzitutto la tensione verso la propria crescita sociale e prima ancora individuale. Il che era vero soprattutto in quel contesto, contadino, del Friuli delle lotte dei braccianti. Non a caso sono tutti temi che erano stati già trattati nella raccolta plurilingue Dov'è la mia patria, del 1949, strettamente connessa alla genesi dei testi che compongono L'Italiano è ladro (e lo dice Pasolini stesso, sempre nel diario: «ora tutti i motivi di Dov'è la mia patria sto rifondendoli in lingua nell'Italiano è ladro», ItL, 872). Va detto che il tema dell'identità, in quanto presa di coscienza del proprio io, e quindi affermazione e coscienza della propria individualità, è anche al centro della produzione diaristica pasoliniana degli immediati dintorni dell'Italiano è ladro ma anche delle poesie dell'Usignolo della Chiesa cattolica, specie del Diario 1950, dove figura non a caso una sezione dal titolo L'identità. In queste poesie il forte dissidio interiore del «piccolo poeta civile degli anni Cinquanta» (DM, 16), come Pasolini, amaramente, si autodefinisce poi, nel 1975, nella Divina Mimesis, e la strenua ricerca di una dialettica tra destino individuale e collettivo, mettono in evidenza in maniera piuttosto marcata il passaggio (autoriale) dall'infanzia all'età adulta e la progressiva e conseguente presa di coscienza delle proprie contraddizioni. La connessione tra tutti questi testi è un imprescindibile passaggio per l'esegesi dell'opera pasoliniana, mi pare pacifico. Sfogliando le carte del suo laboratorio, ma anche solo le pagine del Meridiano dedicato alle poesie, si ha netta conferma di questo.

Che cos'è L'italiano è ladro, mi chiedevi. Una definizione di genere andrebbe discussa nel dettaglio (come ho tentato di fare altrove). Siamo di fronte a un testo che potrebbe essere un romanzo in versi ma non è solo questo, è anche una drammaturgia teatrale, per la presenza del coro, ma non è solo questo. Insomma, la questione relativa al genere rimane aperta. Lo definirei piuttosto, e per usare le parole di Pasolini stesso, «un documento del passaggio del pensiero», «un processo formale vivente» che unisce «la forma magmatica e la forma progressiva della realtà» (DM, 57), quasi come La Divina Mimesis, continuazione ideale della riflessione che prende forma nei versi dell'Italiano è ladro.

E qui vengo alla domanda successiva. L'italiano del titolo fa riferimento all'italiano nazionale, in quanto lingua nazionale. Quella lingua che nella Divina Mimesis, non a caso, viene definita come Lingua dell'Odio, proprio quando, nel VII canto, la guida (un Virgilio, che è il se stesso degli anni Cinquanta) conduce il poeta nella zona infernale del conformismo, dove la Lingua dell'Odio «si sbriciola in gola», dove non si vedono pene, «in senso figurativo, spettacolare e simbolico», dove «i conformisti piccolo-borghesi hanno compiuto peccati ben più atroci che quello di essere conformisti» e dove «coloro che qui sono condannati, non sono dei piccolo borghesi se non per nascita, per definizione sociale ecc. In realtà, essi avevano, come si dice, gli strumenti necessari per conoscere il loro peccato: seppero come non essere conformisti e lo furono» (DM, 49-50). Dove Pasolini, in sostanza, colloca se stesso.

Questa lingua, l'italiano come lingua nazionale parlata, una lingua «fondata non più sull'italiano letterario né sull'italiano strumentale dialettalizzato, come lingua franca degli scambi commerciali e della prima industrializzazione, ma sull'italiano parlato nel Nord. Come lingua franca della seconda industrializzazione» (DM, 59), ruba, per dirla un po' alla grossa, la stratificazione culturale. Non a caso proprio nella nota n. 2 della Divina Mimesis Pasolini affronta, per l'ultima volta e in maniera definitiva, questo concetto, sebbene con le solite imprecisioni, sottolineando come La Divina Mimesis si presenti come «l'ultima opera scritta nell'italiano non-nazionale, l'italiano che serba viventi e allineate in una reale contemporaneità tutte le stratificazioni diacroniche della sua storia» (DM, 59). Non a caso nell'inferno pasoliniano si parla proprio questa lingua, un italiano caratterizzato da tutte le combinazioni storiche: «osmosi col latino (quello classico e quello medievale), incroci dialetto-latino, koiné-latino, lingua letteraria-latino, tecnolingua-koiné; poi ecc. ecc. – tutti gli incroci possibili, secondo le esigenze dei discorsi liberi indiretti dei vari personaggi, socialmente diversi» (DM, p. 59). A ben guardare si tratta della lingua che Pasolini utilizza (o tenta di restituire) proprio a partire dai versi dell'Italiano è ladro. Anzi oserei dire che L'italiano è ladro è l'unico luogo della sua opera dove si trova una concreta dimostrazione di quanto egli afferma nella Divina Mimesis. Il che dimostra con una certa evidenza come la riflessione pasoliniana sulla lingua attraversi di fatto tutta la sua opera a partire proprio da questi versi, in cui è forte e esplicito, direi, il senso politico della riflessione linguistica.

S. D.: Quando hai incontrato L'italiano è ladro? E cosa ti interessava del testo?

L. G.: Ho incontrato questo testo all'inizio del percorso formativo del dottorato, mentre cercavo di dare una direzione al mio progetto di ricerca, che riguardava appunto la stagione poetica pasoliniana a cavallo tra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta, vale a dire, semplificando ancora, il torno di tempo in cui si realizza nella biografia di Pasolini il passaggio dal Friuli a Roma. A ben guardare quel periodo, nel contesto della biografia (umana e letteraria) di Pasolini presenta i tratti di un vero e proprio rito di passaggio, nell'accezione proposta da Van Gennep. Pasolini sembra infatti trovarsi, tra il 1949 e il 1950, in uno spazio che Van Gennep chiama «soglia», e che la Woolf, in quel delizioso libretto che è la Lettera a un giovane poeta, fa corrispondere al periodo in cui «il giovane poeta apre le imposte». In sostanza, mi interessava indagare, allora, modi e forme con cui si realizza nella poesia pasoliniana il passaggio (anzitutto estetico e letterario) dai primi esiti poetici di matrice più strettamente lirica (dalle poesie della Meglio gioventù per intenderci), alla poesia di impianto più specificamente narrativo dell'inizio degli anni Cinquanta. Desideravo insomma entrare nel laboratorio pasoliniano e cercare di comprenderne le dinamiche. Il non-finito dell'Italiano è ladro – l'ultima volontà dell'autore è uno stralcio uscito nel 1955 su «Nuova corrente» –, mi è sembrato da subito rappresentare un elemento imprescindibile, di svolta, sia per lo sperimentalismo linguistico e formale, sia per il contesto in cui si inserisce (interno e esterno all'opera pasoliniana), sia per le implicazioni politiche che porta con sé. Inizialmente pensavo di poterne ricostruire la genesi, privilegiando quindi un lavoro filologico, ma mi sono accorta ben presto che lo stato delle carte non lo consentiva. Trattandosi inoltre di un non-finito ci sarebbe stata anzitutto da compiere la scelta di pubblicare o meno un testo mai considerato pubblicabile dal proprio autore e quindi quale tra le molteplici redazioni di cui si compone il poema e altre questioni troppo delicate e che da sola non avrei potuto valutare (per una serie di ragioni legate al diritto d’autore). Così ho deciso di studiarlo da un punto di vista interpretativo, tenendo conto dei vari fenomeni linguistici, stilistici e formali e delle modalità con cui dialoga con l'opera pasoliniana e con la temperie, culturale e letteraria, con cui si trova a fare i conti.

A dirla tutta, ho sempre accarezzato, in tutto questo percorso di ricerca, il desiderio che prima poi qualcuno decidesse di metterlo in scena: per sentire quei versi, scritti nei diversi dialetti regionali del Nord Italia, ma anche in italiano antico, nel greco di Euripide, pronunciati da una voce capace di restituirne l’anima più riposta, ma anche per leggerne l’effetto sul pubblico, che forse per la prima volta viene a contatto con un testo poco noto, ma abbastanza familiare, di Pasolini.

E siete arrivati voi. Quindi, ti chiedo, come si interseca questo Pasolini con il lavoro creativo di Anagoor? O meglio, quali sono i punti di tangenza di questa nuova creazione con il vostro stile, la vostra semantica e il vostro metodo di lavoro?

S. D.: L'italiano è ladro si configura per certi aspetti come la versione italiana di Lingua Imperii, dove la questione linguistica era un pretesto per indagare i metodi d'azione del potere, tenuto a giustificare la propria realtà, le proprie azioni. La lingua non è altro che la via prima per il dominio sul popolo. La lingua è la primissima espressione di questo esercizio, nella misura in cui assume una funzione di strumento attraverso il quale manipolare l'immaginario di una classe. In altre parole, Pasolini compie la stessa azione di Virgilio: consegnare a un destinatario ideale l’elaborazione di un orizzonte immaginifico attraverso l’elaborazione della lingua e per il tramite della poesia. Il poeta compie questo passaggio con tutte le buone intenzioni, ma è lacerato, bruciato nella creazione perché se nelle sue intenzioni intravediamo la volontà di (ri)vendicare, in modo temerario, per mezzo della lingua del potere, una voce per gli sfortunati, al tempo stesso, egli, consegnando a questa voce il potere pietrificante della lingua nazionale, rischia di imbavagliarla. Un laboratorio rimane non-finito anche per la difficoltà estrema di giungere alla corrispondenza armonica tra scelte stilistiche, quindi estetiche, e l’impianto ideologico. Nell’Italiano è ladro si consuma in un tempo rapidissimo, in quel volo iniziale dalle Alpi all'Adriatico, la stessa discesa che Virgilio compie dal lirismo delle Bucoliche alla visione di un’Italia infernale e di un senso sociale della poesia, che caratterizza l’altra parte della sua opera. Allo stesso modo Pasolini, in quel suo proclamarsi, aprés coup, «piccolo poeta civile degli anni Cinquanta», nelle fasi di questo laboratorio approda all’assunzione di una responsabilità civile del fare poesia, attraverso l’emersione della propria coscienza politica.

L. G.: L’idea di lavorare su questo testo da un punto di vista drammaturgico e teatrale, di portarlo insomma sulla scena, nasce, appunto, da un confronto di punti di vista, sul piano letterario e quindi teatrale. E infatti la tua intenzione nelle scelte di regia che hai compiuto, mi pare sia stata quella di riprodurre una sorta di laboratorio, anzi due laboratori, intersecati e in dialogo tra loro: quello letterario di Pasolini (trattandosi di un testo non-finito) e insieme quello teatrale di Anagoor.

S. D.: In realtà è l’intreccio di tre laboratori. Non solo quello teatrale di Anagoor e quello di Pasolini ma anche quello relativo all’indagine critica, che è aperto e continua a interagire con le esigenze sceniche della mise en espace.

L. G.: Sì, certo. Possiamo dire allora che siamo di fronte a un esperimento in cui critica letteraria, letteratura, teatro e musica cercano un luogo di incontro non necessariamente armonico e non necessariamente concluso.

E per realizzare questo dialogo tra i due, anzi tre, laboratori hai scelto la forma della lettura scenica o mise en espace, in quanto precisa forma di espressione teatrale. La mise en espace, va specificato, è una ben definita forma teatrale, un genere insomma. Non è affatto uno spettacolo depotenziato e d'altro canto non si configura nemmeno come una messa in scena tradizionale, ma è una particolare forma espressiva. Non a caso la forma della lettura scenica permette di dare un particolare valore al testo, non essendo presenti molti degli elementi tipici di un vero e proprio spettacolo, quali la scenografia, i costumi, le azioni sceniche. Al centro c'è (quasi) solo il testo, la parola. A ben guardare la mise en espace è una forma di spettacolo direi democratica: di fatto il singolo spettatore è chiamato a partecipare con la propria immaginazione, grazie alla quale può figurarsi, da un personale punto di vista, l’ambientazione e l’azione scenica davanti a sé. Viene meno dunque qualsiasi tipo di imposizione dall'alto. Va poi rimarcata la forza della parola poetica, capace da sola di realizzare immagini mentali: il potere ecfrastico non è vincolato ai territori della retorica ma è nella natura stessa della lingua poetica. Ciascuno potrà in questo modo recepire, interpretare e infine crearsi un’idea, estetica e insieme politica, autonoma. La lettura scenica svolge così l’importante funzione di responsabilizzare lo spettatore, messo nelle condizioni di poter giudicare la validità dell’opera senza essere influenzato da scelte registiche che predeterminano lo sguardo. Anche se, a ben guardare, le scelte di regia qui ci sono e sono anche piuttosto nette, come appunto quella di optare per questa forma di rappresentazione e di inserire un intervento di critica letteraria, scelta quest'ultima assai rischiosa. Ecco, appunto, perché hai voluto a tutti i costi che ci fosse anche una presentazione critica del testo? E come dialoga in questa tua mise en éspace con la performance d'attore?

S. D.: La questione performativa è sempre presente: essere antenne riceventi e trasmittenti che veicolano insieme pensiero e emozioni. La difficoltà è quella di non lasciare mai divise le due cose, il tentativo è quello di illuminare il razionale. In operazioni come questa in cui l'ascolto del testo diventa ascolto del suono, con un flusso di natura musicale, di impatto emotivo, di lavoro sull'irrazionale, non può mancare la visione chiara della sua impalcatura e del suo senso politico più riposto, più radicato. Il contributo critico non è lì per fare del momento teatrale un momento didattico, nell’accezione più immediata e semplicistica del termine, anzi rimane come tempo offerto per una riflessione intellettuale. Non è lì solo per fornire chiavi ma è la possibilità di far fare all'opera un altro salto. Non va dimenticato che quest'opera viaggia con un contributo critico a lato: L’italiano è ladro giunge infatti a noi con un diario in prosa che non solo ci racconta le fasi cruciali dell’elaborazione di questo testo non-finito, ma si configura anche nel suo portato metaletterario, in quanto riflessione sul lavoro in fieri per il proprio autore. Quindi nell’affrontare L’italiano è ladro non si può prescindere dal tenere conto del diario in prosa che lo accompagna, perché ci troviamo di fronte a un laboratorio di riflessione, in primis per il suo autore e quindi anche per chi lo avvicina, in questo caso per lo spettatore. Spostare l'attenzione sull'Italiano è ladro è un po' come spostare l'attenzione sul principio del motore creativo. Pasolini, non letto attraverso il solito filtro dell'attaccamento a una fine straziante e dolorosissima, ma visto nella fase aurorale della sua formazione poetica, mette qui in atto una riflessione sulla poesia, sulla lingua, sull'arte, senza paura che questi aspetti diventino linguaggio di un’élite, ma tentando di superare questo pregiudizio. Allo stesso modo noi vorremmo tentare di percorrere questa stessa direzione, con la voglia di sperimentare, fiduciosi che il teatro possa ancora essere davvero un luogo libero, in cui la riflessione su ogni piano – stilistico, estetico, ideologico –, possa trovare spazio in modalità frontali. Non è un caso che tracce di questa modalità siano state teorizzate proprio da Pasolini nel suo Manifesto per un nuovo teatro.

 

L'italiano è ladro | una transizione imperfetta

Voci: Luca Altavilla, Marco Menegoni

Intervento critico: Lisa Gasparotto

Suono: Mauro Martinuz

Regia: Simone Derai

 


1 Le citazioni tra caporali provengono da P.P. Pasolini, L’italiano è ladro, in Id., Tutte le poesie, a cura e con uno scritto di W. Siti, Milano, Mondadori, 2003 e da Id., La Divina Mimesis, Torino, Einaudi, 1975, di volta in volta indicate rispettivamente con le sigle ItL e DM e il numero di pagina.