La prosa di Carlo Dossi è formicolante di immagini di varia natura.[1] Nella stragrande maggioranza dei suoi testi,[2] sia letterari che saggistici, e non solo nei passi descrittivi, l’espressione figurativa ha nettamente il sopravvento sull’espressione concettuale. Ecco, a mo’ d’esempio, una frase di Dossi tratta da una lettera al suo amico Luigi Perelli: «avverti che i bozzettini che t’inviai e quelli che t’invierò, siccome fan parte di un racconto grosso, il quale sta cucinando, così màncano ancor di due o tre puliture e dell’ultima lima».[3] L’asserzione concettuale (nella fattispecie, l’incompiutezza dei bozzetti inviati a Perelli) viene corredata da una o più immagini in grado di conferirle incisività: qui, le metafore della cottura e della lima.
Tuttavia, scopo della scrittura non è la rappresentazione, la narrazione nel senso dell’ut pictura poesis oraziano, bensí la trasmissione di messaggi al lettore. Dossi vuole soprattutto esprimere le proprie idee, opinioni, i propri sentimenti, umori, con un gusto evidente per il modo di farlo, ossia per lo stile personalissimo e figurativissimo, appunto. Paradossalmente, il discorso viene sviluppato tramite delle immagini anziché tramite degli enunciati astratti. «Le immagini che costituiscono delle forze psichiche primarie sono più forti delle idee e delle esperienze reali»[4] sostiene Gaston Bachelard. Difatti, per via dell’immediatezza della rappresentazione iconica nel cervello, l’immagine è dotata di una evidenza di cui è privo il mero concetto. Dossi impiega allora la forza eidetica dell’immagine in modo conativo. Le sue immagini intendono convincere, come evidenziano i frequenti richiami al lettore, dall’incompiuto romanzo giovanile Letterata e beghina (1866) all’ultimo libro Amori (1887).[5] Le immagini dossiane sono dunque più discorsive che narrative, sono più vicine all’εἶδος (immagine mentale) che non all’εἰκών (immagine riflessa).