L’idea che Gomorra potesse mutare dimensione e divenire forma teatrale sembrava essere parte del suo destino. Ancora non era uscito che mi si avvicinarono in due, un regista e un giovane attore, a chiedermi di poter trasformare qualsiasi cosa avessi scritto in forma teatrale. Come se avessero in mente cosa fare sin dal primo momento in cui ci eravamo incontrati. Come una sorta di necessità. Qualcosa che puoi affrontare solo assecondandolo (Saviano, 2009).

Così Saviano ricorda l’incontro con il regista Mario Gelardi e l’attore Ivan Castiglione, che di lì a qualche tempo avrebbero curato l’adattamento teatrale di Gomorra. Rimasto un po’ in ombra, rispetto al clamore suscitato dal film di Garrone e dalla serie televisiva, lo spettacolo risponde in realtà a una precisa strategia retorica, legata al potere della parola e alla pregnanza del gesto. Per cogliere fino in fondo la ‘necessità’ di tale riduzione occorre ricordare l’importanza che lo stesso autore attribuisce al teatro, considerandolo il luogo che «permette una diffusione di verità fatta di timpani e sudore, di sguardi e luci fioche» (ibidem). Lungi dall’essere un fatto meramente occasionale, il rapporto con la scena si configura subito come importante momento di verifica e di espressione di sé, come dimostreranno più avanti le incursioni in prima persona ai bordi del palco con il monologo La bellezza e l’inferno (2009) prodotto addirittura dal Piccolo Teatro per la regia di Serena Sinigallia [fig. 1].

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