L’opera di Ketty La Rocca sta ricevendo in questi ultimi anni una crescente attenzione da parte della critica, nazionale e internazionale. Al centro è spesso la rappresentazione della donna e del suo corpo,[1] uno dei temi più cari all’artista fiorentina, che alla figura femminile nella società moderna ha dedicato moltissimi dei suoi lavori. Ci proponiamo di aggiungere la nostra voce a questo dibattito accendendo una luce su di un’opera fino ad oggi toccata solo marginalmente dalla critica: La storia che ha commosso il mondo. Si tratta dell’unico testo teatrale stampato per la prima volta sui ‘Quaderni di Tèchne’, nel numero intitolato Teatro 1 del 1970, allegato della rivista ‘Tèchne’ curata da Eugenio Miccini. Ad oggi l’opera è stata messa in scena solo una volta: il 4 novembre 2003, dunque postuma e senza le indicazioni dell’autrice, presso il Saloncino del Teatro della Pergola.[2] Un’analisi di questo testo è rilevante per almeno due motivi: intanto perché Ketty La Rocca ha sempre posto al centro della propria ricerca il linguaggio («Il grande inquisito è sempre il linguaggio, quel linguaggio distorto e svuotato di senso che deve ritrovare la via della propria verità»),[3] prima analizzando quello alfabetico, dalla poesia visiva alle Segnaletiche, dalle lettere tridimensionali in pvc alla tela Dal momento in cui, e poi, spinta ad approfondire il vasto e variegato ambito della comunicazione, concentrandosi su quello gestuale, con opere come Appendice per una supplica e In principio erat, per il quale sono sempre valide le parole di Gillo Dorfles: