1. Il cerchio magico
Sull’orlo del buio, un buio che inghiotte e risputa le creature d’una famiglia dantiana, stavolta confusa fra vivi e morti, s’anima la «liturgia» performativa di Le sorelle Macaluso;[1] prevale, infatti, in questa mPalermu rievocata e riscritta alla luce della stessa ribalta/soglia invalicabile dagli astanti, la penombra, perché il ‘personaggio in più’ è appunto la Morte, che fin dall’inizio (nascostamente) genera personaggi/persone intesi a lottare fra di loro e soprattutto con essa per sopravvivere nella sfera d’una memoria individuale e collettiva, che ha il senso d’una rivalsa più che tradizionale, antropologica dell’Opera dei Pupi. Quella simulata da quattro personaggi nerovestiti: dopo l’a solo d’una quinta ballerina, attratta e respinta da un crocifisso (come la Madre di Vita mia), le marionette umane duellano con spade e scudi d’argento di fattura artigianale, che deposti a terra, sul filo del boccascena, assomiglieranno a lapidi luccicanti.
La struttura dell’opera è circolare, con la danza della quinta morta – ma ancora non lo sappiamo, e neppure lei lo sa – s’apre, con la sua danza si chiude, cambiando di segno: fluida e piena di grazia all’inizio, sebbene la ballerina indossi pantaloni, camicia e scarpe nere che potrebbero impacciarne i movimenti; segmentata da una basica rigidità, da marionetta o pupo, alla fine, sebbene Maria (è il nome della sorella defunta) si spogli via via della divisa a lutto, raggiuga una nudità lunare per infilarsi, a fatica, in un candido tutù di tulle. Ma è proprio quel costume che le rivela, nell’epilogo, che «allora ’stu funerale» è il suo («Sugno io?», p. 83); perché, recita la didascalia, «Tutti i morti indossano il vestito dell’ultimo istante della loro vita che corrisponde al loro desiderio, al loro sogno» (ibid.).