Il tempo sono io che lo creo, - disse la linea, - io separo le stratificazioni dell’inconscio, unisco i lembi della memoria…
Italo Calvino
Pensieri della mano (Milano, Adelphi 2014) è una conversazione tra colleghi, è un piccolo viaggio alla scoperta di quello che c’è dietro e dentro l’universo immaginativo di Tullio Pericoli, «il pittore dei giornali» per sua stessa felice definizione, all’interno del quale il lettore è invitato a farsi strada con la guida di Domenico Rosa, redattore del «Sole 24 ore».
Sin dalla prima pagina emerge la volontà di parlare della pittura e del disegno innanzitutto come esperienze vissute fisicamente, di ricongiungere il momento ideativo ed esecutivo, che confluiscono nel gesto unico della mano che traccia la linea sul foglio, gesto duplice, in quanto consapevole e istintivo allo stesso tempo. Secondo Pericoli, infatti, «nella mano c’è una sapienza, e insieme, a volte, il peso della sapienza»: è per questo che essa va anche lasciata libera di seguire i propri percorsi, spesso imprevedibili e inattesi, di fare le proprie scelte, come quella della carta da utilizzare, spesso determinata da un semplice contatto fisico.
La tentazione di Rosa in un primo momento è, forse, quella di lasciarsi andare al dettaglio tecnico, di approfondire il discorso sui supporti, sugli strumenti, sul modo di tracciare una linea, la cui invenzione – così crede Pericoli – non è stata meno importante e rivoluzionaria rispetto a quella della ruota o del fuoco. Tali preliminari servono ai fini di un moderno ‘elogio della mano’ che intende ricordarci l’importanza del più prezioso tra gli strumenti d’artista, il cui ruolo nell’arte contemporanea sembra essere progressivamente dimenticato e misconosciuto, a causa di un’epoca che ha allontanato lo spettatore dall’opera, o almeno dalla sua dimensione fattiva, al punto che quest’ultima «spesso non richiede più di essere vista, è sufficiente descriverla al telefono».
Il libro è anche molto altro. Grazie all’agilità della forma dialogica riesce a toccare temi molto vari, e così ne vien fuori una sorta di piccolo compendio di filosofia dell’immagine, o perlomeno di quella che sorregge e alimenta l’universo pericoliano, fatto di segni volatili e leggeri (in senso calviniano), spesso ironici, che ci invitano ad andare oltre, a scoprire cosa c’è sotto: un pensiero o una storia. I ritratti in fondo, come i paesaggi, non sono altro che le narrazioni di Pericoli, il suo modo di raccontare persone e luoghi tramite un ‘alfabeto’ personale, in «una continua traduzione di tutti i linguaggi che si manifestano nella vita reale in un’altra lingua», cioè quella delle immagini (e già Tabucchi aveva riconosciuto questa sua attitudine narrativa). Nel solco di una ruga, come nel profilo di una collina, si nascondono storie individuali e collettive, stratificazioni geologiche e psicologiche, memorie sedimentate, che determinano l’aspetto della superficie che si presenta ai nostri occhi. Pensiamo ai ritratti: negli abiti che infagottano malamente Gadda o nei capelli di Beckett si cela, o meglio si rivela (a chi sa guardare), qualcosa del loro essere e della loro opera. Essi agiscono come specchi capaci di riflettere l’immagine in profondità e sembrano dire ai personaggi ritratti: «Ecco chi sei, sappilo anche tu».
Pericoli assegna al disegno una funzione generativa, ovvero la capacità di indurre lo spettatore ad immaginare ciò che sta fuori dalla cornice, quel che il pittore ha omesso, stimolando in tal modo la nascita di un racconto. Eppure la stessa funzione egli la attribuisce alla letteratura, definendola come la «riserva aurea» della sua immaginazione. Un tale debito è, ad esempio, reso esplicito in alcuni disegni intitolati Filò, che prendono il nome dalla celebre raccolta poetica di Andrea Zanzotto. Paradossalmente, spiega Pericoli, i libri che più lo stimolano sono quelli che lo distraggono maggiormente, che gli fanno perdere il «filo narrativo o teorico», offrendogli in cambio materiale inventivo per i suoi disegni. Il discorso, dunque, non può non cadere sulla differenza ontologica tra parole e immagini. Le prime le conosciamo bene, esse si rivolgono, nella maggioranza dei casi, alla nostra parte razionale, mentre la pittura tocca una zona più segreta e profonda del nostro essere, del resto è lo stesso Pericoli a dichiarare: «Se immagino una mente riempita di un liquido, le parole galleggiano. Mentre le immagini le vedo sul fondo».
Altra costante presente nel volume è il tema delle citazioni. I riferimenti a Calvino, Kafka, Rilke, alle lettere di Van Gogh, fino alle dichiarazioni di Francis Bacon, sembrano riconnettersi al gusto parallelo per la citazione pittorica e a quell’esigenza di ‘rubare’ dai propri maestri già oggetto di una conversazione del 1980 proprio con Calvino, dal titolo Furti ad arte, pubblicata poi come introduzione al catalogo della mostra Rubare a Klee.
Con linguaggio limpido, scevro da quelle «incrostazioni di cattivo romanticismo» che hanno falsato e distorto il modo di guardare alla figura dell’artista, Pericoli tenta di spiegare a se stesso e ai lettori come prenda forma la sua opera, ma l’atto creativo rimane pur sempre un’affascinante mistero, un meraviglioso incantesimo.