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Anche quando sembra materialmente assente il silenzio a teatro è evocato come parte della sostanza dei suoni stessi, rintracciabile tra gli interstizi della parola, nel mezzo dei suoi flussi continui. Il saggio si propone di rompere la rigida dicotomia tra suono e silenzio, poiché, come sostiene il sociologo David Le Breton: «la parola è una modulazione del silenzio e il silenzio una modulazione della parola». Accade negli ultimi tempi che la questione del silenzio a teatro venga suggerita da alcune opere che si concentrano prettamente sul suono. A questo proposito si propongono come casi studio due recenti lavori di Chiara Guidi: Monsieur Teste. Una prosa filosofica per contrabbasso, percussione e voce (2016) e Edipo re di Sofocle. Esercizio di memoria per quattro voci femminili (2019). Già in ambito filosofico Jean-Luc Nancy si chiede se la filosofia abbia forzatamente sostituito all’ascolto qualcosa che invece è più vicino all’ordine dell’intendersi (entente); così in queste pagine ci domandiamo quale parola a teatro possa essere intesa come declinazione di vuoti e di pieni, puro attraversamento del silenzio.

Even when it seems materially absent, silence in the theatre is evoked as part of the substance of the sounds themselves, traceable between the interstices of the word, during its continuous flows. The essay aims to break the rigid dichotomy between sound and silence, since as sociologist David Le Breton maintains: «the word is a modulation of silence and the silence a modulation of the word». In recent times the question of silence in the theatre has been suggested by some works that focus strictly on sound. We propose as case studies two recent works of Chiara Guidi: Monsieur Teste. Una prosa filosofica per contrabbasso, percussione e voce and Edipo re di Sofocle. Esercizio di memoria per quattro voci femminili. Already in the philosophical field, Jean-Luc Nancy wonders if philosophy has replaced listening with something closer to understanding; so in these pages we ask ourselves which word in theatre can be understood as a declination of empty and full, a pure crossing of silence.

In un recente volume curato da Jean-Marc Larrue e Marie-Madeleine Mervant-Roux, Le son du théâtre. (XIXe-XXIe siècle),[1] i due autori si chiedono se il perimetro entro il quale si muovono i Sound Studies possa essere considerato come uno studio sul suono (études du son) o una ricerca sul suono e sull’ascolto (recherches sur le son et l’écoute). Quando estendiamo la domanda allo specifico campo degli studi teatrali gli interrogativi finiscono per moltiplicarsi: la ricerca sul suono e sull’ascolto a teatro può attivare nuove riflessioni che rimettono al centro del dibattito molte questioni che sembrano date per certe.[2]

La natura della percezione uditiva – che è ampiamente discussa, ad esempio, dalla filosofia analitica –[3] ha incrinato la centralità della visione e attivato domande sull’interazione tra soggetto e ambiente. Attraverso l’ascolto dei suoni la nostra percezione dello spazio e del tempo cambia, ma se questo accade nella vita quotidiana – dove molti comportamenti sono guidati da indizi sonori così familiari che la coscienza non percepisce più – a teatro la questione finisce con l’amplificarsi.

Chiaramente il processo d’ascolto, ovvero il modo in cui il nostro apparato uditivo recepisce i suoni, funziona sempre nello stesso modo, ma è lecito chiedersi come e quanto possa influenzare la scena teatrale, i suoi processi di creazione e quelli di ricezione.

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La quinta edizione del laboratorio di Drammaturgia sonora, promosso da Valentina Valentini, si è articolata (dal 30 aprile al 16 maggio 2014) in alcune lezioni-spettacolo condotte da Hubert Westekemper – Creare spazi sonori, Alvin Curran – The World is My Mother Tongue, e Luigi Ceccarelli – Appunti per un teatro musicale.

I musicisti-compositori e sound-designer hanno attraversato le drammaturgie sonore di spettacoli, performance, installazioni realizzate all’interno della propria produzione grazie alle sollecitazioni e alle domande di Mauro Petruzziello, Ida Vinella, Romina Marciante, Cristina Reggio del gruppo acusma (www.gruppoacusma.com). La paziente e feconda rielaborazione degli interventi live degli ospiti trova qui una forma mista, da leggere e ascoltare nello stesso tempo.

in collaborazione con RAI RADIO3 e con Laura Palmieri

 

#1 Creare spazi sonori

Conversazione tra Hubert Westkemper e Mauro Petruzziello

 

Quando il 20 maggio 2014 Hubert Westkemper dialogò con l’architetto, collezionista, curatore Corrado Levi, nel corso dell’incontro La ricerca improbabile – Si può ascoltare l’architettura?, organizzato per i centocinquant’anni del Politecnico di Milano, definì il proprio lavoro di sound designer in questi termini: «Tu progetti spazi, io progetto spazi sonori». La figura del sound designer, una sorta di scultore di suoni o un ponte fra il musicista e il tecnico del suono, riveste un importante ruolo nell’affermazione, tutta secondo-novecentesca, di una nuova sensibilità rispetto al suono, non più considerato esclusivamente come arte del tempo, ma anche come arte dello spazio. Un cambiamento di prospettiva sancito dall’introduzione del concetto di corpo sonoro: come ogni corpo, anche il suono necessita di spazio, il suo movimento è definito da traiettorie, e così i parametri di timbro, altezza e tempo diventano empirici e dominabili. Sebbene sempre più richiesta nel campo delle arti (ma anche in quello della comunicazione), la figura del sound designer è relativamente giovane e legata all’evoluzione della tecnologia. Dispositivi quali mixer sempre più sofisticati – che dagli anni Sessanta hanno reso gli ingegneri del suono essenziali nel processo creativo al pari dei musicisti –, campionatori, tecniche di postproduzione hanno evidenziato quanto sia profondo il legame fra gli scultori di suono e la tecnologia, che diventa vero e proprio strumento di lavoro. Se si volesse tentare un’embrionale storicizzazione della figura del sound designer, si potrebbe riscontrare come il suo definitivo atto di nascita si situi all’altezza degli anni Settanta, quando si afferma il cinema americano della New Hollywood che libera l’acustica cinematografica dalla sua tendenza a privilegiare la voce, affermatasi dagli anni Trenta, per conferire pari dignità a tutti i suoni che concorrono alla costruzione dei soundscape in film quali la saga di Star Wars di George Lucas e Apocalypse Now (1979) di Francis Ford Coppola. Non solo il cinema, ma anche il teatro, in particolare quello che ha evidenziato una vocazione alla ricerca e alla sperimentazione, dall’epoca delle seconde avanguardie in poi, ha mostrato una profonda attenzione nei confronti del suono. La riflessione sul suono, sulla voce, gli esperimenti di microfonazione (forse il più emblematico è ancora quello legato alla figura di Carmelo Bene), le tecniche innovative dell’aurofonia, le possibilità di spazializzazione del suono, hanno conferito ad esso la possibilità di sganciarsi dal semplice status di commento, spesso didascalico, e di acquisire un ruolo sempre più significativo nella costruzione di drammaturgie. In questa direzione il lavoro di Hubert Westkemper è particolarmente significativo. Nato a Francoforte, si è laureato nel 1981 in ingegneria del suono presso l’Università delle Arti di Berlino e si è subito trasferito in Italia, dove ha dato il via a una serie di ricerche e sperimentazioni nel campo del suono applicato soprattutto al teatro. Il suo primo lavoro italiano, nel 1982, è Sogno di una notte d’estate, per la compagnia del Teatro dell'Elfo, con la regia di Gabriele Salvatores. Tra le collaborazioni più importanti occorre segnalare quella con Robert Wilson (Come In Under The Shadow Of This Red Rock, 1994; Persephone, 1995); con Mario Martone (Operette morali, 2011; La serata a Colono, 2013, ma anche Noi credevamo, 2010); con Irene Papas (Antigone, 2005); con Valerio Binasco (E la notte canta, 2008) e con Elio De Capitani (Visi noti, sentimenti confusi, 1984; I Turcs Tal Friul, 1995). Va anche sottolineato l’apporto di Westkemper nei territori del teatro d’opera in Blimunda (1990) e Divaria (1993), entrambi a partire da testi di José Saramago e su musiche di Azio Corghi, musicista col quale il sound designer tedesco collabora anche su Tat’jana (2000), con la regia di Peter Stein. Fra gli altri, vorrei menzionare anche il lavoro per Cronaca del luogo (1999), che il suo compositore, Luciano Berio, definisce più azione musicale che opera, e Il letto della storia (2003) di Fabio Vacchi che, insieme a Gesualdo (2004) di Luca Francesconi, nascono con la regia di Giorgio Barberio Corsetti. Per orientarsi all’interno di una carriera così ricca di esperienze fra loro eterogenee, che comprendono anche il lavoro per l’associazione Agon e l’attività pedagogica presso l’Accademia di Brera di Milano, abbiamo scelto come campione quattro spettacoli esemplificativi della suddetta ricerca di un suono che si fa dispositivo drammaturgico.

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