There’s rosemary, that’s for remembrance: pray you, love,

remember.

W. Shakespeare, The Tragedy of Hamlet, Prince of Denmark, IV, v.

Due note ribattute su uno xilofono, una pianta di rosmarino. Basta poco, a Leoš Janáček, per trasmettere allo spettatore le inquietudini della vita dei campi nel suo primo, tardivo capolavoro. Jenůfa (1904) è frutto di esigenze estetiche diverse: la ricerca sul campo, indispensabile per inscrivere la lingua cèca tra quelle del melodramma; le suggestioni naturaliste dell’omonima pièce di Gabriela Preissová, firma di spicco delle avanguardie praghesi di fine Ottocento; e il desiderio di trasfigurare una tranche de vie paesana, facendone un racconto esemplare sulla necessità di confidare nella natura e nelle sue imperscrutabili capacità di rinnovamento. Jenůfa si svolge infatti in un tempo immoto, quello della campagna morava, ai confini orientali della Boemia, nei dintorni di «un mulino solitario di montagna», le cui pale ruotano incessantemente, come suggerisce l’ostinato dello xilofono. Memoria del passato, speranza del futuro, gli esili rami e il profumo dolceamaro del rosmarino accompagnano le intricate vicende della protagonista, contesa da due fratellastri, proprietari del mulino: uno affascinante ma ubriaco e superficiale, da cui aspetta un figlio, l’altro irruento e violento, tanto che per ripicca la ferisce al viso. Come in un gioco di specchi, i rapporti si rovesciano alla nascita del bambino: che verrà sacrificato dalla madre adottiva di Jenůfa, seppellito tra i ghiacci dell’inverno pur di far scomparire il ‘frutto della colpa’, unico ostacolo ad un matrimonio riparatore con l’autore dello sfregio.

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