There’s rosemary, that’s for remembrance: pray you, love,

remember.

W. Shakespeare, The Tragedy of Hamlet, Prince of Denmark, IV, v.

Due note ribattute su uno xilofono, una pianta di rosmarino. Basta poco, a Leoš Janáček, per trasmettere allo spettatore le inquietudini della vita dei campi nel suo primo, tardivo capolavoro. Jenůfa (1904) è frutto di esigenze estetiche diverse: la ricerca sul campo, indispensabile per inscrivere la lingua cèca tra quelle del melodramma; le suggestioni naturaliste dell’omonima pièce di Gabriela Preissová, firma di spicco delle avanguardie praghesi di fine Ottocento; e il desiderio di trasfigurare una tranche de vie paesana, facendone un racconto esemplare sulla necessità di confidare nella natura e nelle sue imperscrutabili capacità di rinnovamento. Jenůfa si svolge infatti in un tempo immoto, quello della campagna morava, ai confini orientali della Boemia, nei dintorni di «un mulino solitario di montagna», le cui pale ruotano incessantemente, come suggerisce l’ostinato dello xilofono. Memoria del passato, speranza del futuro, gli esili rami e il profumo dolceamaro del rosmarino accompagnano le intricate vicende della protagonista, contesa da due fratellastri, proprietari del mulino: uno affascinante ma ubriaco e superficiale, da cui aspetta un figlio, l’altro irruento e violento, tanto che per ripicca la ferisce al viso. Come in un gioco di specchi, i rapporti si rovesciano alla nascita del bambino: che verrà sacrificato dalla madre adottiva di Jenůfa, seppellito tra i ghiacci dell’inverno pur di far scomparire il ‘frutto della colpa’, unico ostacolo ad un matrimonio riparatore con l’autore dello sfregio.

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Alvis Hermanis, tra i più apprezzati e titolati registi nel panorama internazionale degli ultimi anni, è lettone (da qualche tempo è tra i direttori stabili del New Riga Theatre) ma ha cultura e formazione mitteleuropea: non ha problemi a lavorare con compagnie di altre nazionalità (ricordo un’altra produzione vista qualche tempo fa, Le signorine di Wilko, con cast interamente italiano) e sceglie i testi su cui lavorare pescando in una varietà di generi e repertori. Gli spettatori del Vie Festival di Modena hanno potuto assistere a fine maggio al mastodontico lavoro su Puškin dal titolo Onegin Commentaries, e sappiamo che l’ultima produzione del regista è una versione di Un nemico del popolo di Ibsen. Sonja, che ritorna in Italia dopo essere stato presentato al Teatro Era di Pontedera nel 2010, è invece tratto da un racconto della scrittrice pietroburghese Tatjana Tolstaja, ed è qui recitato in russo con sopratitoli in italiano.

Arredi e suppellettili di ogni genere ingombrano la scena, affaticano piacevolmente lo sguardo costringendolo a rovistare in ogni angolo (è uno di quei tipici monolocali ammobiliati che la grande letteratura russa ci ha abituato a immaginare con la fantasia) in cerca di segni, di minuscoli e sorprendenti dettagli. Non appena si spengono le luci da una porta si introducono due corpulenti omaccioni, con il volto coperto da una calza di nylon, che prendono a rovistare sul serio la stanza. Potrebbero sembrare due ladri impacciati ma non arraffano a casaccio, cercano qualcosa di preciso. Una volta trovato un vecchio album di fotografie, uno dei due dà inizio a una inaspettata messinscena: convince con la forza l’altro a vestirsi da donna – abitino a pois, calze pesanti e parrucca con bigodini – e a far rivivere Sonja, una stupida, grassa e sgraziata governante, abilissima in cucina e bambinaia insuperabile, di cui comincia a raccontare la storia come se stesse leggendo da un libro stampato, ma prendendovi parte come un testimone. Così, mentre uno la riporta in vita con le parole, descrivendo un angolo della Leningrado degli anni Trenta, l’altro lo fa con le azioni, completamente immedesimandosi nella donna, che si incanta languidamente ascoltando ballate romantiche da un vecchio grammofono, che rammenda seduta alla macchina per cucire, che prepara una torta e poi un pollo farcito, lavorando con ingenua alacrità.

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