Nel dibattito critico che si sviluppa attorno all’arte povera due questioni risultano centrali e strettamente connesse: il rapporto arte-vita e la relazione arte-teatro, con il ricorso sovente alla ‘metafora teatrale’ per tematizzare una processualità dell’opera e nuove modalità comportamentali che implicano un differente coinvolgimento dello spettatore al fatto plastico. Già nella prima formulazione dell’arte povera, Germano Celant faceva a vario modo riferimento alle esperienze del Teatro Laboratorio di Grotowski, al Nuovo Teatro di Mario Ricci, ai «gesti mutati dalla vita» del Living Theatre, per identificare l’«antifinzione» di un’arte basata sulla «realtà» e il «presente».[1]
Erodendo i miti della modernità e i meccanismi di omologazione della società di massa, le poetiche poveriste portano infatti al centro del discorso l’uomo, la vita, il vissuto, la dimensione biologica e fenomenologica dell’esistenza. «Pensare, fissare, percepire e presentare, sentire ed esaurire la sensazione in un’immagine, in un’azione, in un oggetto, arte e vita, un procedere per binari paralleli che aspira al suo punto all’infinito», scriveva ancora Germano Celant nel 1968.[2] Fare un’arte che «non è un’arte sulla vita, né un’arte sull’arte, ma certo riguarda la ‘condizione umana’»,[3] specificava di lì a poco Tommaso Trini, in un testo che sarebbe stato pubblicato anche nel catalogo della mostra When Attitudes Become Form – la mitica esposizione che con la coeva Op Losse Schroeven[4] sancì il riconoscimento delle ricerche processuali emerse al di qua e al di là dell’Atlantico nella seconda metà degli anni Sessanta. Il campo operativo dell’arte italiana è dunque scandito, a detta di Tommaso Trini, da un’arte che si definisce come «agire diretto» e che si spinge oltre l’oggetto e la mercificazione per porsi in un rapporto osmotico con «lo spettacolo, in unione col teatro».[5] Toccando appunto un tema centrale già presente nella riflessione di Celant, sin dalla derivazione dell’etichetta stessa di arte povera dal «teatro povero» di Grotowski,[6] Trini porta l’attenzione alla teatralità intesa come «irreversibile intensificazione» da parte dell’artista «del suo operare e essere nel mondo».[7] Quella teatralità che parallelamente Filiberto Menna definisce centrale nel passaggio dall’oggetto allo «spazio vitale» e che trasforma la scultura «in una sorta di attrezzo per la scena della nostra esistenza quotidiana».[8]