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La messinscena di Fidelio, spettacolo inaugurale della stagione operistica 2014-15 del Teatro alla Scala di Milano, ha generato, come accade immancabilmente, polemiche e valutazioni discordi. In vero, se il giudizio sulla direzione di Daniel Barenboim (all’ultima prova da direttore artistico) è stato quasi unanimemente positivo, maggiori perplessità hanno suscitato le anacronistiche deviazioni della regista Deborah Warner. Va detto che complessivamente i dissensi sono stati piuttosto contenuti, forse per la limitata familiarità di pubblico e critica con un testo che non appartiene al grande repertorio operistico italiano né ha alle spalle una solidissima tradizione sui nostri palcoscenici. Nondimeno, alcuni allestimenti recenti di Fidelio (quasi tutti piazzati in apertura di stagione, forse proprio per la nobiltà eroica, ispiratrice e – perché no? – benaugurale dell’opera beethoveniana) consentono di riflettere sulle peculiari componenti scenografiche insite nell’opera e sulle loro possibili varianti, se è vero che, come segnalava a suo tempo Sergio Sablich, «Fidelio non è un’opera di regia, ma semmai di scenografia: di una scenografia nella quale sia già contenuta un’idea registica». 

The staging of Fidelio, 2014/15 season-opening performance at Teatro alla Scala in Milan, didn't fail to arouse arguments and conflicting assessments. The judgment on the conducting of Daniel Barenboim (on his final experience as artistic director of the theatre) was almost unanimously positive, whereas the most of the criticism concerned the setting by Deborah Warner. Actually the disagreements were quite restrained, maybe owing to the lack of familiarity with an operatic text that does not belong to the major Italian repertoire neither has a solid tradition on Italian stages. Nevertheless, some recent productions of Fidelio (almost all placed in the opening of the season, perhaps because of the heroic, inspiring, and auspicious nobility of this opera) allow us to consider the peculiar scenic components inherent in the work and their possible variations, remembering what the musicologist Sergio Sablich reported a few years ago: «Fidelio is an opera that concerns scenic design rather than direction: but a scenic design in which is anyway enclosed an idea of direction».

 

The opera was Fidelio. «What gloom!» cried the baritone,

rising out from the dungeon under a groaning stone.

I cried for it. That’s how I see life too.

Jack Kerouac, On the road

 

 

1. Nascita di Fidelio

È noto che la scrittura di Fidelio, unica opera beethoveniana,[1] ebbe un percorso tortuoso, attraversando gli altrettanto tormentati anni che dividono la Rivoluzione francese dalla Restaurazione dopo la turbolenta fase napoleonica. Il soggetto giunse a Beethoven dall’amico Joseph Ferdinand von Sonnleithner, che aveva tradotto in tedesco, con rilevanti innesti drammaturgici, un precedente libretto di Jean-Nicolas Bouilly, Léonore, ou l’amour conjugal.[2]

Tra la prima versione, rappresentata senza successo a Vienna nel 1805, di fronte a un pubblico di soli soldati francesi, e l’ultima, più volte replicata a partire dal 1814, si ha una parallela e consequenziale condensazione drammatica e musicale: dopo numerosi tagli e rifacimenti la componente borghese e ‘familiare’ finì con l’essere cospicuamente ridotta, mentre emerse con forza il nucleo tematico principale: l’ardimentoso tentativo di Leonora, travestita da uomo, di liberare il marito Florestano, giovane patriota imprigionato illegalmente dal dispotico governatore Don Pizarro. In particolare nel primo atto due arie si trovano significativamente ravvicinate: quella in cui Don Pizarro annuncia con spietatezza la sua intenzione di uccidere Florestano prima dell’arrivo del ministro Don Fernando (che avrebbe potuto scoprire la detenzione forzata del giovane); e quella in cui Leonora, che ha udito di nascosto i propositi del governatore, dichiara con slancio rinnovato il proponimento di trovare il marito e salvarlo.

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