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Il saggio intende riflettere sul rapporto tra la scrittura di Goffredo Parise e la pittura di Filippo de Pisis, partendo dal ruolo centrale della visività. Emerge infatti, all’interno dell’opera di entrambi gli autori, una sorta di percorso che vede da una parte il primato dei sensi (un approccio sinestetico alla realtà) e dall’altra un sentimento di profonda malinconia dovuto alla percezione della caducità delle cose. Questi fondamentali motivi sono veicolati da uno stile intermittente, frammentario, rivelatore di un’opera (narrativa o pittorica) come successione di istanti. L’indagine mostra che in Parise come in de Pisis lo studio di una realtà in continua trasformazione porta al tentativo di rincorrere e ri-proporre sulla pagina o sulla tela una rapidità (fattori atmosferici, di luce, di temperatura, di percezione) per statuto inafferrabile.

Focusing on the role of the visual aspect, this essay aims to compare Goffredo Parise’s writing and Filippo de Pisis’s painting. In both artists’ poetics an itinerary that puts the senses in the first place (a synesthetic approach to the reality) and shows a feeling of deep melancholy due to the perception of the things’ transience could be traced. These essential subjects are developed by an intermittent and fragmentary style, that shows that writing and painting could be considered as a sequence of instants. The research shows that in Parise as in de Pisis the study of a reality that changes continuously leads to the attempt to chase and to reproduce on the page or on the painting an elusive rapidity related to the atmospheric agents, the light, the temperature, the perception of the reality.

 

Per un attimo la felicità sono proprio queste immagini

di bellezza solare, acquatica e subacquea,

la gioia di penetrare nei punti profondi e caldi con gli occhi aperti

sapendo nuotare poco e faticosamente;

la vita è molto breve se appaiono nelle sere d’inverno

senza più luce e senza più acqua riscaldata dal sole.

Goffredo Parise, Il ragazzo morto e le comete

 

La vita a narrarla è come voler dipingere la luce nel suo continuo fuggire.

Giovanni Comisso, Le mie stagioni

 

La particolare attenzione alla visività, in svariate forme e declinazioni, si configura come uno dei centri di tutta l’opera di Goffredo Parise. Si tratta innanzitutto di un dispositivo di scrittura che prevede un’attenta e curiosa osservazione del mondo circostante e di conseguenza una specifica modalità di riportare sulla pagina la realtà. Muovendo dunque da quella che è stata con successo definita da Mengaldo una «fenomenologia del vedere»,[1] si partirà dal ruolo privilegiato della funzione della visività nella pratica della scrittura (su cui larga parte della critica si è già soffermata), ben riassunta da un’osservazione di Ricorda:

Da tale propensione alla visività, si tenteranno di indagare i rapporti più stretti con l’arte e con gli artisti, approfondendo in particolare la relazione con Filippo de Pisis. Va subito rilevato che Parise mostra fin da giovanissimo una forte curiosità per la pittura (inserita all’interno di un più ampio interesse ‘visivo’ fatto anche di altre componenti – basti il riferimento al romanzo d’esordio Il ragazzo morto e le comete del 1951, che mostra una naturale disposizione dell’autore a un approccio visivo basato su dispositivi cinematografici e teatrali): egli stesso tenta di dipingere negli anni tra il 1943 e il 1948[3] («una pittura lirico-narrativa alla Chagall, vicentina»), per poi smettere immediatamente alla vista del «vero Chagall» alla Biennale di Venezia.

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