Per un attimo la felicità sono proprio queste immagini
di bellezza solare, acquatica e subacquea,
la gioia di penetrare nei punti profondi e caldi con gli occhi aperti
sapendo nuotare poco e faticosamente;
la vita è molto breve se appaiono nelle sere d’inverno
senza più luce e senza più acqua riscaldata dal sole.
Goffredo Parise, Il ragazzo morto e le comete
La vita a narrarla è come voler dipingere la luce nel suo continuo fuggire.
Giovanni Comisso, Le mie stagioni
La particolare attenzione alla visività, in svariate forme e declinazioni, si configura come uno dei centri di tutta l’opera di Goffredo Parise. Si tratta innanzitutto di un dispositivo di scrittura che prevede un’attenta e curiosa osservazione del mondo circostante e di conseguenza una specifica modalità di riportare sulla pagina la realtà. Muovendo dunque da quella che è stata con successo definita da Mengaldo una «fenomenologia del vedere»,[1] si partirà dal ruolo privilegiato della funzione della visività nella pratica della scrittura (su cui larga parte della critica si è già soffermata), ben riassunta da un’osservazione di Ricorda:
Da tale propensione alla visività, si tenteranno di indagare i rapporti più stretti con l’arte e con gli artisti, approfondendo in particolare la relazione con Filippo de Pisis. Va subito rilevato che Parise mostra fin da giovanissimo una forte curiosità per la pittura (inserita all’interno di un più ampio interesse ‘visivo’ fatto anche di altre componenti – basti il riferimento al romanzo d’esordio Il ragazzo morto e le comete del 1951, che mostra una naturale disposizione dell’autore a un approccio visivo basato su dispositivi cinematografici e teatrali): egli stesso tenta di dipingere negli anni tra il 1943 e il 1948[3] («una pittura lirico-narrativa alla Chagall, vicentina»), per poi smettere immediatamente alla vista del «vero Chagall» alla Biennale di Venezia.