Russkij kovčeg.* Rappresentare la ‘totalità’ sovietica 
nell’arte contemporanea russa

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What are the modalities of retrieval, conservation and survival of cultural legacies that have been - or are designed to be - lost due to radical historical or political shifts? This question guides the present research, based on a comparative analysis focused on a specific artistic form, installation. Ilya and Emilia Kabakov’s most famous ‘total’ installation, Monument to a Lost Civilization, is the first text examined in order to demonstrate its function as a modern ‘Russian ark’, saving the relics of Soviet material culture. In a similar vein, Sergei Volkov’s artistic reflection on Russian and Soviet societies, poignantly expressed in his 1990 installation Art Warehouse, is taken into account. The comparative approach is integrated with a privileged line of research that, availing itself of the instruments provided by the field of visual studies, explores the relationship between the visual component of a work of art, nostalgia, memory and material culture.

1. I Russian cultural studies e l’eredità sovietica

Già a fine anni Novanta Catriona Kelly, Hilary Pilkington, David Shepherd e Vadim Volkov registravano una certa attenzione in ambito culturologico riservata alla Russia, testimoniata da un considerevole aumento di studi.[1] Negli ultimissimi tempi, questo interesse sembra essersi intensificato sia all’interno della Federazione Russa, sia al di fuori dei suoi confini. In campo accademico, sul rapporto tra la Russia sovietica e post-sovietica sono intervenuti, tra gli altri, Gian Piero Piretto,[2] Boris Kachka, Vitaly Komar, Gary Shteyngart, Lara Vapnyar e Michael Idov.[3] Pur partendo da premesse diverse, anche Evgenij Dobrenko e Andrej Ščerbenok hanno messo in evidenza il peso che l’eredità culturale sovietica ha sull’attuale contesto russo: «Russian society and culture are still dependent on their Soviet heritage, which is upheld and rejected, often simultaneously, in practically all fields of symbolic production, from state ideology to architecture, from elite literature to mass culture».[4] Questo particolare legame di dipendenza costituisce il tratto fondamentale della cultura post-sovietica, secondo Dobrenko e Ščerbenok: «Russian culture remains suspended [...]. This suspension between the traumatic experiences of the past, both remote and quite recent, and an underdeveloped and unstable narrative about it, are at the core of contemporary Russian culture, marking it as an inherently post-Soviet culture».[5] In questo spirito nascono diverse iniziative culturali in Russia: a fine 2011, ad esempio, ha aperto a Kazan’ il Museo della quotidianità socialista (Muzej socialističeskogo byta), mentre nel novembre 2012 c’è stata l’inaugurazione a Mosca del primo museo di design, che ad oggi ha proposto tre mostre dedicate agli oggetti sovietici.[6] Il confronto tra il concetto di utopia e la realtà sovietica è invece al centro della mostra Utopia e Realtà (Utopija i Real’nost’), giunta a Mosca il 17 settembre 2013. A poco più di vent’anni dal crollo dell’Urss (1991), la questione della quotidianità sovietica, indissolubilmente legata agli oggetti che la componevano, è dunque diventata uno dei temi di maggior rilievo nel più ampio contesto dei Russian cultural studies.

Tuttavia, a livello artistico, una riflessione sull’argomento era già viva durante il confuso periodo di transizione causato dall’imminente caduta del regime sovietico, specialmente attorno al biennio 1989-1991. In questo delicato frangente, la ricerca di un linguaggio adatto per rappresentare un sistema di vita nella sua complessità giunge, nel caso della coppia Il’ja e Emilia Kabakov, all’installazione, una forma artistica che grazie al loro intervento evolve, diventando ‘totale’, e quindi in grado di descrivere un intero retaggio culturale. Una simile predilezione verso gli aspetti inerenti alla quotidianità e i suoi oggetti si ritrova anche nei ‘barattoli’ presenti nelle installazioni di Sergej Volkov, vere e proprie ‘arche russe’ della cultura materiale sovietica.

Gli stimoli forniti dall’ambiente accademico e museale da un lato, e artistico dall’altro, sembrano convergere nella medesima direzione, che impone una seria meditazione sull’Unione Sovietica da un punto di vista non tanto politico o economico, ma privilegiando l’aspetto della vita vissuta. In questo senso, diventa pregnante la questione concernente le modalità di recupero, conservazione e sopravvivenza di un retaggio culturale scomparso (o destinato a scomparire) in seguito ad un radicale cambiamento storico-politico, paragonabile ad una sorta di ‘apocalisse’.[7] A tal proposito, pare particolarmente suggestivo l’uso estensivo della nozione di ‘arca’, che sia Kabakov sia Volkov declinano differentemente nelle loro creazioni artistiche, pur accomunate da uno stesso esito formale, l’installazione. Nel racconto biblico, su indicazione divina Noè costruisce una grande imbarcazione per sfuggire al Diluvio Universale, mettendo in salvo la specie umana e animale.[8] Questo evento, un mitologema che peraltro attraversa in maniera trasversale una serie di culture anche molto lontane tra loro, si riferisce alla tremenda inondazione mandata da Dio per punire, distruggendolo, un intero popolo, ad eccezione dei giusti.[9] Un simile avvenimento, che avrebbe avuto come conseguenza l’estinzione di una cultura, e dunque anche la fine del suo tempo, si potrebbe accostare all’apocalisse, narrazione contenuta invece nel Nuovo Testamento.[10] Nelle riletture contemporanee russe di Kabakov e Volkov la componente ‘umana’, o meglio ‘animata’,[11] è al contempo assente (non c’è fisicamente nell’opera d’arte), ma riesce ad essere presente attraverso gli oggetti, autentici protagonisti scampati alla distruzione fisica, e metamorficamente cristallizzati in forma artistica. La dicotomia presenza-assenza associata al sovok, il cittadino sovietico, brillantemente realizzata attraverso la ridondante presenza di oggetti, porta a interrogarsi sul tipo di rapporto che s’instaura tra la componente ‘visiva’ di un’opera d’arte, la nostalgia, la memoria e la cultura materiale. Come influiscono sul discorso culturale generato dall’installazione la compresenza e l’interazione di vari media? Quali le ricadute sull’esperienza del visitatore? Può, infine, un’installazione assurgere alla funzione di moderna ‘arca’ traghettatrice delle cose del passato?

2. Sul concetto di ‘installazione totale’ nella pratica artistica di Il’ja e Emilia Kabakov

Il’ja Kabakov (Dnepropetrovsk, 1933), unanimemente considerato il padre del concettualismo moscovita, si definisce ‘testimone di una civiltà sepolta’ di cui ha cercato di far rivivere le atmosfere attraverso le sue oltre 160 installazioni ‘totali’, in parte realizzate assieme alla moglie Emilia, con la quale collabora dal 1988.[12] La loro poetica, che da sempre riflette sulla possibilità di rappresentare una realtà così complessa, si concentra sulla condizione di vita sovietica del periodo post-staliniano, descrivendone quotidianità e paradigmi istituzionali. Partendo dal semplice quesito (assimilabile a una dichiarazione d’intenti) «[i]n che modo queste installazioni così raggruppate possono dare l’idea totale di Unione Sovietica?», l’artista spiega che «[l]e installazioni sono state scelte per essere inserite in determinate sezioni e rappresentare il più possibile questa idea di “vita” in Unione Sovietica» (sic.).[13] In questo senso, il lavoro forse più rappresentativo della coppia è Monumento alla civiltà perduta (Pamjatnik isčeznuvšej civilizacii), un’imponente installazione, simile ad una piccola cittadella comprendente a sua volta trentotto installazioni ‘totali’ suddivise in sette rioni.

Il’ja e Emilia Kabakov. Dettaglio del modellino per l’installazione Pamjatnik isčeznuvšej civilizacii, Palermo, 1999

Nel suo primo allestimento[14] l’opera misurava sessanta per ottanta metri, oscillando in altezza da un valore minimo di tre metri e mezzo fino ad arrivare ad un massimo di sette metri. Vengono qui ricostruiti i classici ambienti di oltrecortina: luoghi spogli, minimali, che paiono esser stati appena abbandonati. Fedeli a una loro ormai consolidata grammatica compositiva, gli artisti impiegano materiali poveri, e ricorrono per l’illuminazione a luci fioche, perseguendo l’intento di dar forma a un racconto autobiografico, estremamente soggettivo, che diventi punto d’incontro e di fusione tra arte, vita privata e Storia della civiltà in cui entrambi sono nati. Mosso dal «desiderio di dare a questo luogo un’immagine»[15] Il’ja Kabakov precisa le motivazioni che l’hanno portato a concepire un’installazione ‘totale’, idea alla quale l’artista è approdato in maniera progressiva, attraverso l’evoluzione formale del suo lavoro: «[i]l principio è l’installazione totale. Quando la gente è all’interno dell’installazione non dimentica il sistema che c’è fuori, la cultura, la civiltà. Ma quando è dentro ha comunque una forte reazione all’atmosfera in cui si trova. Non guarda se è un museo etnografico o un museo russo».[16] Eppure, per sua stessa ammissione, in un’altra occasione Kabakov scrive «le mie opere comprendono testi specificamente russi, che possono essere capiti solo da chi conosce la realtà e la vita quotidiana russe. Il confine fra etnografia e arte è molto sottile».[17] Invero, il valore di Monumento si può rintracciare anche in una sua funzione documentale, suggerita peraltro dalla grande cura e attenzione con le quali l’artista sceglie e posiziona gli oggetti:

[l]’atmosfera dell’installazione è come una combinazione. Io cerco di dare una giusta posizione ad ogni oggetto: le luci, i colori, la musica ecc. Per lo spettatore è come entrare in un mondo nuovo: ha la stessa sensazione che avrebbe entrando nella casa di uno sconosciuto, dove gli oggetti sembrano assolutamente differenti perché diverso è il loro contesto. Qui sembra di sentire l’atmosfera dell’Unione Sovietica, ma che tipo di atmosfera è? Difficile da esprimere.[18]

La presenza concreta di oggetti,[19] e non riproduzioni di oggetti, sembra svelare un intento di conservazione e trasmissione della memoria di una Storia bruscamente interrotta. Ad esempio, l’installazione La scuola n° 6 (Škola n° 6), collocata nella sezione ‘I monumenti dell’infanzia’ (settima sezione, ‘G’), ricrea l’ambiente di una scuola sovietica abbandonata, utilizzando mobili, libri e memorabilia di vario genere. Simili scelte compositive, come la decisione di utilizzare oggetti d’epoca, senza dubbio avvicinano lo spettatore meno esperto a una cultura a lui parzialmente, se non del tutto, estranea. Lungo il percorso tracciato all’interno dell’installazione ‘totale’, egli ha modo di osservare da vicino quelle ‘cose’ che per lungo tempo hanno costituito la cultura materiale sovietica. Al contempo, però, l’ambiente riprodotto rivela una dimensione familiare a chi, invece, ha vissuto anche solo una parte della sua vita in simili circostanze. Un’impressione analoga si può ricavare anche dall’installazione n° 13, La cucina comune (Kommunal’naja kuchnja, seconda sezione ‘C’), dove vari utensili da cucina sono appesi e offerti senza filtri allo sguardo dello spettatore.[20]

Il’ja e Emilia Kabakov. La cucina comune (Kommunal’naja kuchnja), Palermo, 1999

In realtà, la ricreazione di certi ambienti con connotati tipicamente sovietici non è una novità nella pratica dei Kabakov: basti pensare, ad esempio, all’installazione Il bagno[21] (Tualet, 1992).

Il’ja e Emilia Kabakov. Tualet (1992). Pietra, cemento, legno, pittura, bagni maschili, bagni femminili, oggetti casalinghi, mobili. Misure approssimative: 4,50x4,17x1,1 m. Installazione per la prima volta presentata a ‘Documenta IX’, Kassel, Germania

L’eterogenea costellazione di oggetti e opere d’arte, come disegni e quadri, che vanno a comporre le installazioni crea una dimensione sospesa legata al byt sovietico, comunicando quell’idea di totalitarismo che i Kabakov avevano in mente. Se La scuola n° 6 intende rievocare gli ambienti in cui l’educazione sovietica veniva impartita, e La cucina comune riflette su una delle più tipiche esperienze legate all’appartamento in coabitazione, l’installazione ‘totale’ numero 5, Il collezionista (Kollekcioner, 2° rione ‘C’, Kommunal’naja kvartira, La vita in comune),[22] propone una commistione ancor più complessa di materiali compositi, artistici e non. Si legge dal testo di accompagnamento dell’installazione, scritto dai Kabakov:

Sei immerso nella tua occupazione: incolli delle cartoline in uno speciale ordine da te meditato su piccoli fogli di carta da imballaggio accuratamente ritagliati. Nelle cartoline sono raffigurate viste del mare, paesaggi, persone con strani cappelli bianchi, quadri della galleria Tret’jakov. Il tempo si è fermato e poi ha ricominciato a scorrere al ritmo del tuo incollare, del tuo disporre i fogli già pronti in una pila sulla sinistra. Il lontano, eccitante mondo, inconsapevole di te e animato da vita propria, si avvicina, si fa piccolo, tuo.[23]

L’intento primario del collezionista sembra dunque esser quello di fermare il tempo, fissare il passato così come si possono incollare delle cartoline a un album. Il tempo scorre solamente nella misura in cui l’individuo compie la ripetitiva azione, ed è proprio attraverso il potere taumaturgico degli strumenti di questo lavoro manuale di recupero, colla e pennello, che la grigia, grama esistenza dell’individuo miracolosamente si dissolve, sfumando nel sogno.[24] La ricerca della felicità per il collezionista consiste non soltanto nella sistematizzazione degli oggetti da lui raccolti, dalla quale scaturisce un senso di Solennità e Ordine,[25] ma soprattutto nella costruzione di un ponte, di un collegamento tra la realtà in cui vive (alla quale viene indirettamente conferito un valore negativo) e quella desiderata, moltiplicata dalla variopinta euforia delle cartoline, degli slogan, delle note, degli appunti burocratici. Oggetti, questi, che sono simulacri di una passata dimensione pubblica, la quale cessa di essere tale, sfociando nella sfera privata, proprio grazie all’attività di organizzazione svolta dal protagonista.

Il’ja e Emilia Kabakov. Dettaglio dell’installazione ‘totale’ Kollekcioner

In assenza di questo passaggio verso «l’altra, luminosa, inaccessibile sponda»,[26] l’homo sovieticus si ritrova ineluttabilmente ancorato al senso di scoramento generato da quella quotidianità dalla quale cerca in tutti i modi di fuggire.[27] Un dato importante per la comprensione dell’opera proviene proprio dall’amalgama tra pubblico e privato, caratteristica che secondo Il’ja Kabakov riassume la peculiare ambiguità del modus vivendi sovietico:

la vita in Urss ha avuto diversi ‘livelli’. Il primo, un livello esteriore, istituzionale e ufficiale, rappresenta la vita in Unione Sovietica come un sogno, un bellissimo paradiso dove tutto funziona: la rappresentazione della bellezza. Un secondo livello è totalmente interiore. Ed è assolutamente l’opposto: è depressivo e pessimista sul futuro, è una combinazione pazzesca tra la miserabile vita quotidiana e il paradiso costruito dalla propaganda.[28]

Nell’installazione i confini tra sfera pubblica e privata appaiono labili se si considera, ad esempio, che i supporti sui quali vengono incollati gli oggetti della collezione sono dei classici pannelli che si potevano trovare in qualsiasi luogo istituzionale.[29] Quando i fogli da apporre ai pannelli sono esauriti, il collezionista dimostra ancora una volta una vivace creatività, proponendo una soluzione in cui mondi ontologici ben distinti si mescolano senza soluzione di continuità: usa infatti al loro posto i fogli di vecchi quotidiani, oggetti che possono essere considerati come canale di divulgazione preferenziale dell’ideologia: «i mondi vanno nelle profondità come galassie nel cosmo, emergendo e nascondendosi, coprendosi l’un l’altro, spuntando uno dietro l’altro».[30] Grazie alla tecnica del collage, inserita all’interno di un’installazione, quel mondo distante e (quasi) perduto viene interiorizzato dal collezionista, e, in seguito, dallo spettatore: «tu sei responsabile e governi questo mondo di carta, e lui dolcemente, impercettibilmente diventa tuo nel momento in cui incolli».[31] La sedia vuota posta accanto al tavolo invita tacitamente il visitatore a sedersi e a (ri)vivere le emozioni provate dal collezionista sovietico. Il conseguente gesto di appropriazione spaziale si traduce anche in un’appropriazione culturale: in questo preciso momento l’opera dei Kabakov cessa di essere individuale (o rappresentativa solo per una frazione dell’umanità), diventando universale, arrivando infine a raccontare una storia comune.

Come giustamente osserva Bertola, in quest’installazione l’artista ci presenta «soluzioni di sparizione, di fuga, di straniamento, di salvezza... [il protagonista] ha escogitato un proprio possibile modo di evasione, di sopravvivenza».[32] Eppure, la miscela prodotta dall’interazione tra diversi media artistici, unitamente ad oggetti appartenenti alla quotidianità, sintetizza quel desiderio non solo di fuga, ma anche di conciliazione esperito dall’homo sovieticus nei confronti di quel «radioso avvenire»[33] falsamente promesso dall’ideologia. Nella descrizione del gesto del collezionista, che è sostanzialmente artistico, è racchiuso en abyme anche il gesto dell’autore-Kabakov, il quale riduce nella sua installazione la complessa totalità della cultura sovietica, rendendola ‘microscopica’. In questo senso l’opera d’arte, così come i pannelli nei quali sono state inserite le cartoline, costituisce un vero e proprio ponte visibile e potenzialmente tangibile verso un ‘luogo’ lontano nella realtà.

3. L’Unione Sovietica ‘in scatola’. La serie dei ‘barattoli’ di Sergej Volkov

Il principio di conservazione sembra guidare anche la poetica di Sergej Volkov (Kazan, 1956), come risulta in modo evidente nella sua installazione Magazzino d’arte[34] (1990).

Sergej Volkov, Magazzino d’arte (1990). Scaffali di ferro, barattoli di vetro, oggetti in glicerina, installazione ambiente

In occasione della prima esposizione dell’opera, l’artista fornisce una descrizione esatta della sua struttura e dei suoi effetti:

[v]engono disposti dei barattoli di misura diversa contenenti oggetti diversi su mensole abitualmente adoperate in magazzini, depositi o semplicemente nei ripostigli di casa. In ogni barattolo vengono messi uno o più oggetti assolutamente banali. Ogni barattolo racconta una determinata ‘storia’, composta da citazioni trivializzate tratte dalla storia dell’arte, della politica, della religione, della società. Ogni ‘storia’ è collocata nello spazio triviale dei barattoli conservati che a loro volta sono situati nello spazio espositivo del museo interessato. La superficie in vetro permette allo spettatore di percepire più liberamente queste citazioni banali, allo stesso modo in cui egli osserva il mondo da una finestra d’appartamento, da una macchina, stando fermo davanti a una vetrina di un negozio o semplicemente guardando lo schermo di vetro di un apparecchio televisivo e non è certo una disgrazia se il contenuto di alcuni barattoli ‘è andato a male’ da molto tempo; essi restano perfettamente pronti per l’uso e anzi non è facile verificare la deperibilità nei ‘prodotti’, in quanto sui barattoli non vi sono etichette indicanti il luogo e l’anno di produzione (i barattoli contenenti prodotti naturali o bottiglie di vino, per i quali l’anno determina la qualità, non fungono da esempio).[35]

Sembrano rilevanti, nelle parole di Volkov, almeno due riflessioni. Un primo punto riguarda l’idea secondo cui ogni barattolo racconta la storia di una società. Ogni singola storia, però, pur catalizzando l’attenzione dello spettatore sulla memoria delle ‘rovine della modernità’, viene privata di un suo elemento costitutivo. L’arma della trivializzazione è l’unica difesa che, a posteriori, può esser utilizzata per azzerare il potere di monopolizzazione esercitato dall’ideologia sovietica in tutti i campi dell’esistenza. Inoltre, il barattolo rappresenta fisicamente la barriera interposta tra il nostro sguardo contemporaneo e la cultura materiale narrata dagli oggetti inseriti al suo interno; si pensi, ad esempio, al contenitore con le sigarette Belomorkanal, che prendono il nome dal Belomorsko-Baltijskij Kanal, il canale che unisce Mar Bianco e Mar Baltico, grandiosa opera voluta da Stalin e inaugurata il 2 agosto 1933.

Sergej Volkov, Magazzino d’arte (1990). Particolare. Sigarette sovietiche Belomorkanal

In questo senso, la lettura fornita da Barzel, secondo cui i barattoli non sono altro che «embrioni senza futuro»,[36] appare particolarmente calzante: il futuro di quegli embrioni è stato cancellato da uno sconvolgimento epocale, e in questo caso specifico dalla dissoluzione del regime sovietico.[37] L’unica speranza di sopravvivenza per questi oggetti, destituiti di quella ‘carica negativa’ ereditata dal contesto storico-culturale che li ha prodotti, arriva proprio dall’installazione. Questa assume la funzione di una sorta di deposito, di magazzino (o arca) ideato per la custodia di una civiltà, preservando dal deterioramento una pesante memoria.[38] Sulla stessa linea di pensiero inaugurata da Barzel si situa l’opinione di Jolles, che legge in quest’opera la fine dell’energia vitale di una cultura rappresentata dagli oggetti messi sotto glicerina. Quel tipo di patrimonio non possiede quasi più alcuna capacità comunicativa, ma (soprav)vive in forma di microcosmo:

Per [Volkov] le opere d’arte sono una sorta di conserva energetica. Solo che esse non conservano energia vitale, bensì determinate formule artistiche; sono simili a recipienti svuotati che da lungo tempo hanno cessato di fungere da veicoli di cultura. Ciascuno dei suoi vasi di vetro è un piccolo microcosmo, nel quale vengono conservate forme suprematiste, la torre Eiffel, matrioshke di legno, ali bianche etc.[39]

Rimane da considerare un secondo elemento accennato da Volkov nella sua descrizione. L’artista si sofferma sulla questione della data di scadenza e sulla deperibilità dei contenuti. Come noto, in Russia si è soliti indicare sulla confezione non la data di scadenza, come avviene in Occidente, ma, in via preferenziale, la data di produzione. Rimane così a discrezione dell’acquirente la valutazione sulla freschezza del prodotto e sulle modalità di consumo. Il fattore della discrezionalità ritorna anche in un’altra nota tecnica a cura dell’artista, in cui si apprende che gli oggetti sovietici, reali e non riprodotti, sono immersi in glicerina e conservati secondo le indicazioni riportate in un manuale di ricette.[40] L’insistenza di Volkov sulla dimensione ‘casalinga’, e dunque privata, è da ritenersi qui un dato importante, anzitutto perché ripropone quella commistione di pubblico e privato, già perno della riflessione kabakoviana. Inoltre, la scelta stessa di adoperare dei barattoli per conserve informa il visitatore di una pratica ampiamente diffusa in Unione Sovietica, e ancora oggi utilizzata in Russia. Come ricorda Piretto, che inserisce la ‘banka’ (il barattolo, solitamente usato per conserve dolci o salate) tra i venticinque prodotti sovietici più significativi, questo oggetto arriva a ricoprire il ruolo di mediatore tra la sfera pubblica e privata per via della sua abituale collocazione:

[un] recesso climaticamente ideale per la conservazione dei barattoli era lo spazio tra le due finestre che isolavano l’appartamento dall’esterno. [...] [L]a classica doppia finestra era una realtà storica che aveva visto nascere uno spazio-soglia alternativo tra l’interno e l’esterno, il pubblico e il privato, in cui la temperatura risentiva di quella particolarità e il microclima che vi si creava contribuiva a far sfruttare quei centimetri cubi, in realtà abitative ridotte al minimo, con originalità e intelligenza.[41]

I barattoli di Volkov sono dunque muti testimoni di una realtà storica e culturale che ha cessato di esistere; tuttavia, la presenza di barattoli vuoti sembra voler suggerire che il drammatico cambiamento di potere avvenuto in Russia nei primi anni Novanta sia illusorio, provvisorio: c’è ancora spazio sugli scaffali e nei contenitori per i nostri oggetti.

4. Conclusioni

All’alba del crollo dell’Urss un pressante interrogativo riguardante il futuro e l’identità della ‘nuova’ nazione preoccupava, e ancora preoccupa, gli artisti russi (e non solo):[42] in che relazione porsi con l’esperienza sovietica? I percorsi artistici qui proposti confermano una simile apprensione attraverso la problematizzazione della graduale scomparsa di una civiltà in seguito a drammatici rivolgimenti storico-politici. Per fronteggiare tale eventualità, si fa urgente l’esigenza di tracciare la memoria di una cultura in via di sparizione, parallelamente alla volontà di disegnare un perimetro attorno ad essa. Le opere d’arte discusse paiono voler ‘fissare’, rendendolo eterno, un tempo destinato a non tornar più, se non sotto una mutata forma. In questo senso, sembra ragionevole considerarle alla stregua di vere e proprie ‘arche’, o ‘archivi’, custodi di una ‘totalità’ cancellata da un evento epocale. Perché di totalità si tratta: in senso lato, tutto ciò che ci circonda e che costituisce il nostro mondo potrebbe esser considerato come manifestazione concreta della nozione. Per raccontare alcune totalità, gli artisti russi hanno fatto ricorso a un’interessante strategia: cercare di rendere microscopica un’entità di per sé macroscopica. Si tratta di spazi costituiti da un fitto compenetrarsi di media, e caratterizzati da un’immancabile trasversalità dei codici.

Dietro alla rappresentazione della quotidianità si scorge quella retorica utopica del realismo socialista, e del pensiero sovietico in generale; come giustamente osserva Michail Piotrovskij, direttore del museo statale Hermitage, «[i] Kabakov hanno permesso al mondo di ascoltare [...] le strane melodie della vita quotidiana sovietica, che a un certo punto ha iniziato in Russia (e non solo) sentimenti nostalgici».[43] La ‘matericità’ dell’installazione, costituita da oggetti reali e concreti, ed esperita dal visitatore non tanto attraverso il senso del tatto, quanto quello della vista, è un elemento di vitale importanza, soprattutto se si pensa alle considerazioni di Boris Groys[44] in merito al ‘progetto sovietico’. Nel suo recente saggio Installirovanie kommunizma Groys sottolinea il carattere di ‘impalpabilità’ del comunismo, spesso associato all’idea di utopia, che è qualcosa di irreale ma realizzabile, è «un non luogo che ha la potenzialità di diventare luogo».[45] Se, dunque, «il comunismo è utopia, allora non è descrivibile, poiché l’utopia, essendo un non luogo, non può possedere alcuna forma definita».[46] Tuttavia, la portata empatica del dato visivo è significativamente rafforzata dalla latente possibilità tattile, assente in altre forme artistiche, come pittura o video. Di qui probabilmente la grande fortuna dell’installazione, secondo Groys ‘arte marxista’ per eccellenza,[47] nel contemporaneo panorama artistico, non esclusivamente russo,[48] ma mondiale. Nell’installazione è inoltre presente un forte legame con il proprio contesto storico-sociale, che sposta di conseguenza il fuoco dell’interesse dall’individualità dell’artista alla collettività della cultura – o meglio, in questo caso – della civiltà che l’ha prodotta. Così, l’installazione parla non soltanto di un particolare processo d’interiorizzazione dell’artista, ma soprattutto delle circostanze; come già scriveva Barzel pochi mesi dopo l’abbattimento del muro di Berlino, forse presagendo la futura direzione che l’arte russa avrebbe preso, «[n]essuna attività culturale è separata dai processi sociali e politici del suo tempo. L’arte prodotta oggi in Russia rappresenta una tappa, un’identità, ed è una dimostrazione del fatto che non vi è scissione tra arte e società».[49] La necessità di un’arte che si fa strumento di ricerca identitaria diventa più pressante in condizioni d’instabilità politica, sociale, economica. Non a caso, Emilia Kabakov mette in relazione i profondi rivolgimenti generati dalla Rivoluzione con quelli seguiti al crollo dell’Urss:

[q]uando il comunismo prese il potere, distrusse tutto per creare un nuovo ordine. Oggi, dopo quell’esperienza, nel costruire una nuova civiltà ci si trova di fronte ad un dilemma. Quali cose si rendono necessarie per la costruzione di una nuova cultura? La rivoluzione russa fu un esperimento basato su forti convinzioni, su grandi speranze. Ma fu un fallimento. E oggi siamo tutti divisi.[50]

Per quanto caratterizzato, l’impatto visivo con l’installazione influenza lo spettatore indirizzando il suo pensiero oltre il caso sovietico: il linguaggio dei Kabakov, come quello di Volkov, è, infatti, universale. Osservando queste opere si percepisce il divario tra l’essere umano, la sua interiorità, e una condizione politica del tutto scollata dalla realtà e dal cittadino. Esse sono in grado di comunicare la traumaticità che ha caratterizzato non soltanto la vita sotto il regime, ma anche il periodo di drastico cambiamento innescato dal crollo dell’Unione Sovietica, un colosso che, agli occhi dei suoi cittadini, avrebbe avuto esistenza eterna. Quest’ultimo aspetto, tuttavia, intacca maggiormente la sensibilità del cittadino che un tempo è stato sovok: nelle installazioni rivede oggetti o ambienti che un tempo erano stati parte della sua quotidianità, e ai quali è inevitabilmente legato da un sentimento. Per questo motivo, solamente chi ha vissuto determinate situazioni può provare nostalgia guardando installazioni così fittamente intessute di specifici riferimenti alla cultura materiale sovietica. Secondo Guglielmo di Ockham soltanto la conoscenza empirica assicura un collegamento fra i nomi e la realtà di cui essi costituiscono i segni; ciò che invece si situa al di fuori dell’esperienza non può essere conosciuto né dimostrato dall’uomo. Detto altrimenti, non può esserci conoscenza astrattiva senza un momento di conoscenza intuitiva.[51] Per converso, le installazioni contemporanee russe specificamente orientate verso una riflessione/negoziazione sul e con il passato sveleranno nuove dimensioni a chi non ha vissuto nella galassia sovietica.

* Russkij kovčeg, L’arca russa, è il titolo di un fortunato film del regista Aleksandr Sokurov (2002) che, grazie alla tecnica del piano-sequenza, pare assurgere alla funzione simbolica di ‘contenitore’ della Storia e della cultura russa. Per approfondimenti si veda il recente saggio di D. Dottorini, Russkij kovčeg, in A. Cervini, A. Scarlato (a cura di), Il cinema russo attraverso i film, Roma, Carocci, 2013.


1 C. Kelly, H. Pilkington, D. Shepherd, V. Volkov, Introduction: Why Cultural Studies?, in Kelly, D. Shepherd (a cura di), Russian Cultural Studies: An Introduction, Oxford, Oxford University Press, 1998, p. 3.

2 G.P. Piretto, La vita privata degli oggetti sovietici. Venticinque storie da un altro mondo, Milano, Sironi, 2012.

3 B. Kachka, V. Komar, G. Shteyngart, L. Vapnyar, M. Idov (a cura di), Made in Russia: Unsung Icons of Soviet Design, New York, Rizzoli International, 2011.

4 E. Dobrenko, A. Ščerbenok, Between History and the Past: The Soviet Legacy as a Traumatic Object of Contemporary Russian Culture, «Slavonica», XVII, II, 2011, p. 77.

5 Ibidem.

6 Sovetskij dizajn 1950-1980ch (Il design sovietico, 1950-1980, 30.11.2012-20.01.2013); Dizajn upakovki. Sdelano v Rossii (Il design del packaging. Made in Russia, 19.04.2013-18.08.2013); Obščie vešči: sovetskij i kitajskij dizajn, 1950-1980-E (Oggetti comuni: il design sovietico e cinese, 1950-1980, 25.09.2013 - 03.10.2013).

7 Se s’intende il termine nella sua accezione figurata di grandioso sconvolgimento, distruzione immane, catastrofe.

8 Secondo la Bibbia, in seguito al Diluvio l’arca si sarebbe arenata nei pressi del monte Ararat, oggi in Turchia. Un tempo quel territorio costituiva la linea di confine tra la Turchia e l’Unione Sovietica.

9 Capitoli 6,9 - 9,19 della Genesi, Antico Testamento.

10 Profezia di Giovanni.

11 Un discorso a parte andrebbe fatto per le serie che vedono protagoniste le mosche. Si tenga inoltre presente che in alcune installazioni totali si possono trovare piccole figure di forma antropomorfica.

12 Tra le ultime mostre italiane, si segnalano Ilya & Emilia Kabakov. Mostra Personale, galleria Lia Rumma, Milano (19 gennaio 2012-03 marzo 2012); The Happiest Man, Hangar Bicocca, Milano (22 giugno – 2 settembre 2012). Le loro opere sono presenti nelle collezioni dei più importanti musei del mondo, tra cui: MOMA (New York), Hirshhorn Museum (Washington), Stedeljik Museum (Amsterdam), Kunsthalle (Berna), Centre Georges Pompidou (Parigi).

13 P. Falcone, Intervista con gli artisti, in C. Bertola, P. Falcone (a cura di), Monument to a lost civilization, Milano, Charta, 1999, p. 13.

14 Palermo, 1999. Ogni successivo riferimento all’opera si baserà su questo allestimento (Palermo, Cantieri culturali alla Zisa, 16 aprile-17 giugno 1999).

15 Questo desiderio, racconta Kabakov, «si è fatto ancora più insistente dopo che il mondo sovietico, apparentemente destinato a durare per secoli, si è disintegrato, dissolvendosi in maniera rapida quanto inattesa per coloro che lo abitavano». I./E. Kabakov, in C. Bertola, P. Falcone (a cura di), Monument to a lost civilization, cit., p. 39.

16 P. Falcone, Intervista con gli artisti, cit., p. 14.

17 I. Kabakov, Estratti da un’intervista con Ilya Kabakov, in A. Barzel, C. Jolles (a cura di), Artisti russi contemporanei: Erik Bulatov, Ilya Kabakov, Igor e Svetlana Kopystiansky, Medical Hermeneutics (Sergei Anufriev, Yurii Leiderman, Pavel Peppershtein), Perzi (Ludmilla Skripkina, Oleg Petrenko), Sergei Volkov, Vadim Zakharov, Konstantin Zvezdochotov, Museo d’arte contemporanea, Prato, p. 47.

18 P. Falcone, Intervista con gli artisti, cit., p. 14.

19 Naturalmente, si potrebbe obiettare il fatto che gli utensili per la cucina si assomigliano tutti, e che, essendoci poca differenza, non si tratti di un indice culturale particolarmente pregnante. Tuttavia, in questa sede andrebbe considerato anche il design dell’oggetto, oltre alla sua funzionalità.

20 Quest’opera d’arte va apparentemente in una direzione diversa rispetto a una serie di composizioni realizzate da Il’ja tra il 1981 e 1988. In questi lavori si ritrovano gli stessi oggetti da cucina applicati su una superficie di legno smaltata con una tinta opaca (solitamente verdognola, proprio com’erano le pareti degli alloggi comuni in epoca sovietica). Sui lati alti di destra e di sinistra sono riportate rispettivamente una domanda e una risposta: una ‘voce’ s’interroga su chi sia il possessore dell’oggetto, mentre l’altra risponde a volte fornendo un nome, a volte con un laconico ‘ne znaju’, ‘non so’. Dagli interrogativi posti, ma soprattutto dalle repliche traspare una velata critica al modus vivendi sovietico, dominato da una pervasiva spersonalizzazione; una critica che sembra invece scomparire nella corrispondente installazione.

21 Per approfondimenti, si veda S. Boym, Ilya Kabakov: The Soviet Toilet and the Palace of Utopias, «ArtMarginsOnline», 1999, (14 gennaio 2013).

22 Per approfondimenti sul tema del collezionismo, si veda B. Groys, The Logic of Collecting. Intervista con Sven Spieker, «ArtMarginsOnline», 1999 (14 gennaio 2013).

23 «Ty pogružen v svoe zanjatie: nakleivaeš’ otkrytki v osobom, toboj pridumannom porjadke na akkuratno narezannye nebol’šie listy obertočnoj bumagi. Na otkrytkach – vidy morja, pejzaži, ljudi v strannych belych šljapach, kartiny iz Tret’jakovskoj galerei. Vremja ostanovilos’ i potom pošlo soobrazno ritmu nakleivanija, ukladyvanija v stopku nalevo uže gotovych listov. Dalekij, volnujuščij, ne znajuščij o tebe, živuščij svoej žizn’ju mir približaetsja, stanovitsja malen’kim, tvoim». I. Kabakov, Kollekcioner, in Le collectionneur: texte et installation d’Ilya Kabakov, Paris Salzburg, Thaddaeus Ropac, 1995, p. 35. Corsivo mio. Ove non esplicitamente indicato, tutte le traduzioni sono da considerarsi mie.

24 «I fogli sono vuoti, grigi e tanto deprimenti quanto qualsiasi cosa attorno a te. Ma tu metti loro vicino una boccetta con la colla e un pennello. E accade il miracolo» («Listy pustye, serye i takie že tosklivye, kak i vse, čto vokrug tebja. No ty staviš’ rjadom s nimi banočku s kleem i kistočku. I proischodit čudo». Ivi, p. 36).

25 «Toržestvennost’ i Porjadok». Ivi, p. 42.

26 «sijajuščij, nedostupnyj bereg». Ivi, p. 36.

27 «Tu scompari, galleggi in altri spazi, in un altro mondo dove non sei mai stato, e forse, dove non andrai mai [...]. Sollevando gli occhi, vedi la parete della camera, fiocamente illuminata da una lampada, e capisci con angoscia che non c’è alcun legame tra le vibranti immagini sulle cartoline e quel luogo dove passi il tuo tempo, giorno dopo giorno... E non c’è alcun passaggio, alcun ponte tra quel grande, meraviglioso e distante mondo e questo tuo piccolo, triste mondo». («Ty isčezaeš’, uplyvaeš’ v drugie prostranstva, v drugoj mir, gde ty ne byl i, navernjaka, nikogda ne budeš’ [...]. Podnjav glaza, ty vidiš’ stenu komnaty, slegka osveščennuju lampoj, i ponimaeš’ s toskoj, čto net nikakoj svjazi meždu sijajuščimi obrazami na otkrytkach i tem mestom, gde ty provodiš’ svoe vremja, den’ za dnem... I net nikakogo perechoda, net mosta meždu bol’šim, prekrasnym i dalekim mirom i etim žalkim malen’kim tvoim», ibidem).

28 P. Falcone, Intervista con gli artisti, cit., p. 13.

29 I. Kabakov, Kollekcioner, cit., p. 40.

30 «miry kak galaktiki v kosmose, uchodjat v glubinu, vyplyvaja i prjačas’, perekryvaja odin drugoj, vygljadyvaja odin iz-za drugogo...». Ivi, p. 37.

31 «[t]y rasporjažaeš’sja i upravljaeš’ etim bumažnym mirom, i on plavno i nečuvstvitel’no v moment nakleivanija stanovitsja tvoim». Ibidem.

32 C. Bertola, La cronaca può diventare poesia, in C. Bertola, P. Falcone (a cura di), Monument to a lost civilization, cit., p. 22.

33 G.P. Piretto, Il radioso avvenire. Mitologie culturali sovietiche, Torino, Einaudi, 2001.

34 L’installazione è stata di recente riproposta alla mostra Progressive Riot. Arte dall’ex URSS nella collezione del Centro Pecci di Prato, Milano (15 novembre 2012 – 6 gennaio 2013).

35 S. Volkov, Sull’installazione, in A. Barzel, C. Jolles (a cura di), Artisti russi contemporanei: Erik Bulatov, Ilya Kabakov, Igor e Svetlana Kopystiansky, Medical Hermeneutics (Sergei Anufriev, Yurii Leiderman, Pavel Peppershtein), Perzi (Ludmilla Skripkina, Oleg Petrenko), Sergei Volkov, Vadim Zakharov, Konstantin Zvezdochotov, cit., p. 63.

36 A. Barzel, Introduzione, ivi, p. 30.

37 A questo proposito, si potrebbe istituire un paragone con un’opera afferente ad un retaggio culturale del tutto estraneo a quello russo: il Giappone. Si può infatti notare una certa somiglianza formale, ma anche sostanziale, con il Compact Object (1962) di Natsuyuki Nakanishi, un pezzo decisamente particolare: la forma dell’uovo, che racchiude in sé una serie di altri oggetti, ricorda concettualmente l’idea di embrione proposta da Barzel per descrivere i barattoli di Volkov. Anche le cose in esso contenute sembrano attivare una fitta rete di relazioni attraverso una serie di riferimenti sottaciuti: da un lato, oggetti come perle e orologi alimentano l’idea di tempo come un’entità preziosa; dall’altro, la presenza di un numero elevato di oggetti suggerisce invece l’idea del tempo come un entità complessa e confusa, specialmente dopo una catastrofe. Significativamente, Doryun Chong colloca quest’opera in uno scenario in un certo senso post-apocalittico, il Giappone del primo dopoguerra: «Japan’s wholesale reconstruction in the first postwar decade and the period that followed was so thorough that it had to be engaged not only on the social and spatial strata, but also on the subjective levels of the individual and of the body itself» (D. Chong, Tokyo 1955-1970: A New Avant-Garde, in Id. (a cura di), Tokyo 1955-1970: A New Avant-Garde, Moma, New York, 2012, p. 27).

38 Per questo motivo la data di scadenza perde il suo valore.

39 C. Jolles, Strategie di sopravvivenza in un vuoto culturale, in A. Barzel, C. Jolles (a cura di), Artisti russi contemporanei: Erik Bulatov, Ilya Kabakov, Igor e Svetlana Kopystiansky, Medical Hermeneutics (Sergei Anufriev, Yurii Leiderman, Pavel Peppershtein), Perzi (Ludmilla Skripkina, Oleg Petrenko), Sergei Volkov, Vadim Zakharov, Konstantin Zvezdochotov, cit., p. 34.

40 S. Volkov, Sull’installazione, cit., p. 63.

41 G.P. Piretto, La vita privata degli oggetti sovietici, cit., p. 195.

42 In ambito letterario, si potrebbe citare il romanzo di Astvacaturov Il museo dei fetidi (Skunskamera, 2010).

43 «Kabakovy zastavili mir slušat’ [...] strannye melodii sovetskogo byta, kotoryj vdrug stal vyzyvat’ v Rossii (i ne tol’ko) nostal’gičeskie nastroenija». M. Piotrovskij, Kvadrat i bukva, in Utopija i Real’nost’ (catalogo della mostra), Sankt Peterburg, NP Print, 2013, p. 10.

44 B. Groys, Installirovanie Communizma, in Utopija i Real’nost’ (Catalogo della mostra), Sankt Peterburg, NP Print, 2013, pp. 17-45.

45 «Ne buduči oboznačeniem mesta, ona potencial’no možet im stat’». B. Groys, Installirovanie Communizma, cit., p. 17.

46 «Esli kommunizm – eto utopija, značit’ ego nevozmožno opisat’, ibo, ne imeja opredelennogo mesta dlja svoego voploščenija, utopija ne možet obladat’ opredelennoj formoj». Ibidem.

47 Ivi, p. 18.

48 Secondo Groys il passaggio dall’opera d’arte all’installazione è avvenuto in Russia prima che in altri paesi, nel periodo delle avanguardie (Ivi, p. 19). Per approfondimenti su altri artisti russi contemporanei, si veda K. McBride, Eastern European Time-Based Art Practices Contextualised Within the Communist Project of Emergence and Post-Communist Disintegration and Transition, «ArtMarginsOnline», 2009, http://www.agora8.org/reader/Kenny_McBride_ch1.html> (14 gennaio 2013).

49 A. Barzel, Introduzione, cit., p. 29.

50 I./E. Kabakov, Monument to a lost civilization, cit., p. 15.

51 Sulla logica di Guglielmo di Ockham, si veda G. De Ockham, Opera philosophica et theologica ad fidem codicum manuscriptorum edita, cura Instituti franciscani Universitatis S. Bonaventurae, St. Bonaventure N.Y., St. Bonaventure University, 1974; G. De Ockham, Logica dei termini, a cura di P. Müller, Milano, Rusconi, 1992; W. De Ockham, Summa logicae, ed. Philotheus Boehner, St. Bonaventure N.Y., St. Bonaventure University, 1951.