Un’occasione perduta, ma anche un’occasione da cogliere la mostra Zero, al Museo D’Arte Contemporanea di Roma dal 18 dicembre 2014 al 22 marzo 2015. Perduta perché, nonostante la quantità di didascalie, materiali giornalistici e videografici d’epoca, citazioni dai più svariati filosofi e letterati – da Adorno a Guareschi, per intendersi –, costumi futuristici in stile glam che si accumulano nello spazio espositivo per comprovare la shoccante irruzione del personaggio nell’Italia degli anni Settanta, non viene pronunciata né menzionata la parola che meglio di tutte avrebbe riassunto il percorso di trasgressione messo in scena da Renato Zero con un indubitabile talento per la performance e la teatralità: “queer”. Si è smarrita, cioè, la possibilità di affidare a una mostra di forte visibilità la maggiore diffusione di una componente dell’immaginario contemporaneo che nel nostro Paese ancora stenta a farsi riconoscere.
Nonostante questo, l’esposizione riesce, grazie alla potenza delle immagini e soprattutto dei video, a far emergere il performer che gioca con i generi attraverso il travestimento e un’esplicita rivendicazione transgender; cosicché – e qui il senso dell’occasione da sfruttare –, proprio l’assenza, se non la reticenza, di un’esplicita prospettiva queer suggerisce quanto bisogno ci sia di una rinnovata lettura dell’artista romano, che si concentri sull’infrazione degli stereotipi di genere negli anni del ‘trucco e parrucco’ prima della progressiva normalizzazione in eccentrico superstite del tempo che fu. Del resto, questo indica già la mostra, che riserva agli ultimi trenta anni di carriera di Zero non più che una carrellata di immagini e suoni nella sala finale, laddove alla prima creativa e dirompente fase, sia in termini di impatto mediatico che di freschezza musicale, è dedicato uno spazio ben più ampio, culminante nella proiezione su un grande schermo delle performance più esuberanti in parallelo con i documenti visivi dei principali snodi della storia italiana degli anni Settanta. Già le precedenti sale, però, avevano insistito sulla contrapposizione tra «il piccolo cuore diverso» di Zero e l’«Italia asfissiata» dal perbenismo borghese, delineando il coerente percorso di un giovane artista che, dopo aver attraversato la «placenta» della periferia romana negli anni del boom economico, si sottrae alle varie gabbie sociali intessute da quella che, con la terminologia queer elusa dalla mostra, si potrebbe definire l’eteronormatività che lo circondava.