«Il dramma si svolge in una crescente oscurità. La durata è esattamente la durata di un lento crepuscolo, fino all'ingresso della Confidente che invita Oreste ad entrare nel palazzo»: si tratta di una delle tante indicazioni di Hofmannsthal ad Elektra, il testo che egli affidò alla sapiente regia di Max Reinhardt nel 1903.
La regia di Robert Carsen per la versione lirica del dramma, musicata da Richard Strauss nel 1909, percorre la via additata dall'autore, dispiegando tutte le potenzialità visive e simboliche del rapporto tra luce e oscurità, ma anche modulando le infinite espressioni del ‘nero’ (del regista, insieme a Peter van Praet, la creazione luci).
Creato per il Maggio Musicale Fiorentino nel 2008 e approdato ora all'Opéra di Parigi per la direzione musicale di Philippe Jordan con l'orchestra e il coro dell'Opéra, l'allestimento riduce ad una struttura essenziale l'architettura della scena, che nonostante le numerose varianti registiche conserva in genere un equivalente del palazzo dai muri incombenti su di un cortile interno e puntellati da una moltitudine di anguste finestre-feritoie. Carsen mantiene e anzi potenzia l'idea di luogo chiuso, senza possibilità di fuga (sono ancora le indicazioni di Hofmannsthal), creando un enorme spazio omogeneo color antracite dalla pareti curve alla base, una concavità che avvolge la scena spoglia.
È proprio la curvatura che decide della qualità drammaturgica di questo spazio-prigione. Ne è esempio la folgorante scena iniziale, magnifica traduzione visiva delle indicazioni di Hofmannsthal: il coro distribuito nello spazio scuro, in abiti neri che ne fanno i frammenti di un unico corpo, all'esplosione del suono, a cui l'orchestra sprofondata nella fossa restituisce una forza emotivamente possente, deflagra cercando inutilmente di arrampicarsi sulle pareti. Assomiglia al cortile interno di una prigione questa concavità, percorsa tutt'intorno in un cerchio che ricorda il girare a vuoto dei detenuti di un carcere.