Ma l’errore comune era sempre credere che tutto si potesse
trasformare in poesia e parole. Ne conseguì un disgusto di poesia e parole,
così forte che incluse anche la vera poesia e le vere parole,
per cui alla fine ognuno tacque, impietrito di noia e di nausea.
Era necessario tornare a scegliere le parole, a scrutarle
per sentire se erano false o vere, se avevano o no vere radici in noi,
o se avevano soltanto le effimere radici della comune illusione (…).
E il tempo che seguì fu come il tempo che segue l’ubriachezza,
e che è di nausea, di languore e di tedio; e tutti si sentirono,
in un modo o nell’altro, ingannati e traditi: sia quelli
che abitavano la realtà, sia quelli che possedevano,
o credevano di possedere, i mezzi per raccontarla.
Così ciascuno riprese solo e malcontento, la sua strada.[1]
Natalia Ginzburg, Lessico famigliare
La rinegoziazione fra artista e spazio espositivo subisce alla fine degli anni Cinquanta una decisiva accelerazione. Il nuovo decennio vede inasprirsi l’antinomia fra spazio e gesto mentre, in contemporanea, molte delle ritrosie e delle contrapposizioni che avevano caratterizzato l’arte visiva del primo dopoguerra sembrano sciogliersi. La difficoltà a trovare una collocazione all’interno dello spazio si riflette nella stessa difficoltà a individuare una funzione definita all’interno della società.[2] Una problematica che andrà risolvendosi solo con i movimenti contestatori nel passaggio al decennio successivo. Di fatto nel corso degli anni che saranno trattati in questo testo la funzione intellettuale dell’artista si trova in una sorta di limbo identitario, stretta fra il sostanziale rifiuto di una possibile organicità e la mancanza di un modello di aggregazione alternativo alla logica di partito. L’esperienza del teatro di strada messa in atto dal gruppo Lo Zoo fondato da Michelangelo Pistoletto sarà citata in questo testo per connettere fenomeni all’apparenza lontani fra loro e tentare una connessione fra le sensibilità performative di alcuni artisti che operano nell’ambito romano come Jannis Kounellis, Eliseo Mattiacci e Pino Pascali. I lavori, e i tentativi, di questi artisti saranno analizzati alla luce della dialettica fra spazio espositivo e luogo esterno, in una costante oscillazione fra dimensione pubblica e privata, prendendo in considerazione i fenomeni di autonarrazione evidenti nelle fonti fotografiche e documentarie su cui si basa la lettura di questi anni. Questa generazione, nata nel corso degli anni della guerra, condivide una forte speranza nel cambiamento sociale e una tendenza a voler riscrivere i lemmi e i canoni dell’arte. Il crescente benessere economico attraverso il quale il Paese gradualmente si rialza dalle difficoltà postbelliche – e i derivanti bisogni e desideri sociali di cui in questi anni ancora non si percepiscono i pericoli – è generato in prima battuta dall’immissione di finanziamenti del Piano Marshall.[3] Il proliferare di aperture di gallerie nelle città italiane ne è la diretta conseguenza: inizia ad affacciarsi al mercato dell’arte un nuovo pubblico, più consapevole e più aperto alla conoscenza di linguaggi alternativi.