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Il saggio discute la rappresentazione della società italiana degli anni Ottanta nella serie di Dylan Dog nel periodo delle sue origini. In particolare, il saggio analizza la rappresentazione di temi cruciali come la relatività dei concetti di mostruosità e normalità, l’assenza di modelli ideologici di riferimento, il diffuso conformismo della classe media, e la radicale incomprensibilità del reale. Questi temi vengono messi in connessione con le possibilità espressive specifiche offerte dal genere horror. Viene mostrata l’importanza di questi temi per il pubblico di lettori della serie. Viene così messa in evidenza la natura delle prime storie di Dylan Dog come immagine allegorica ma fedele del mondo esterno al testo.

The essay discusses the representation of the Italian society of the 1980s in the early installments of the comics series Dylan Dog. More specifically, the essay analyzes the representation of themes of consequence at the time such as the relativism behind the conventional categories of monstrosity and normality, the absense of ideological referents, the diffusion of middle-class conformism, and the incompehensible nature of reality. These themes are connected in the discourse with the unique expressive possibilities the horror genre offers. The essay also shows the relevance of such themes for the original readers of the series. In so doing, the early installments of Dylan Dog are described as an allegorical, yet accurate, representation of the world outside of the stories.

Discutere di Dylan Dog e del mondo reale non è solo cosa che riesce naturale, ma forse anche inevitabile, perché uno dei principali motivi di interesse della serie risiede proprio nella sua capacità, soprattutto nella fase iniziale, di riflettere lo Zeitgeist del momento, con le sue ansie, perturbamenti, insoddisfazioni e amari disincanti. Erano, i lettori del 1986 in cui uscì inizialmente Dylan Dog, soprattutto adolescenti e giovani adulti che non si sapevano più identificare nei grandi movimenti politici degli anni ’60 e ’70, che si sentivano culturalmente ed emotivamente estranei a quella classe piccolo- e medio-borghese a cui spesso appartenevano, e che pure rifiutavano di adeguarsi ai gruppi edonistici che erano diventati i nuovi referenti di identità e associazione (metallari, punk, paninari, dark…). Si trattava di una condizione di crescente nichilismo che pochi hanno descritto con tanta perspicuità quanto i testi dei CCCP nel loro album del 1985: «Io sto bene, io sto male, / io non so come stare; / io sto bene, io sto male, / io non so cosa fare»; «Mi annoio mortalmente normalmente, / non so bene, non so cosa, / non so quando, non so dove, / non so più, non so, non so».[1] Per restare in ambito musicale, qualche anno dopo l’assenza di un significato generale e la riduzione dell’esperienza umana a una congerie di gesti insignificanti sarebbe stata ben captata anche da Elio e le Storie Tese: «Sono uno abitudinario, leggo la targhetta sopra l’ascensore: / qual è la capienza, quanti chili porta, / poi si apre la porta, e non lo so già più».[2] Era questa una diffusa percezione della realtà in cui si riusciva a identificare soltanto quello che non andava e che non si voleva essere, mancando un fine altro a cui tendere.

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