Discutere di Dylan Dog e del mondo reale non è solo cosa che riesce naturale, ma forse anche inevitabile, perché uno dei principali motivi di interesse della serie risiede proprio nella sua capacità, soprattutto nella fase iniziale, di riflettere lo Zeitgeist del momento, con le sue ansie, perturbamenti, insoddisfazioni e amari disincanti. Erano, i lettori del 1986 in cui uscì inizialmente Dylan Dog, soprattutto adolescenti e giovani adulti che non si sapevano più identificare nei grandi movimenti politici degli anni ’60 e ’70, che si sentivano culturalmente ed emotivamente estranei a quella classe piccolo- e medio-borghese a cui spesso appartenevano, e che pure rifiutavano di adeguarsi ai gruppi edonistici che erano diventati i nuovi referenti di identità e associazione (metallari, punk, paninari, dark…). Si trattava di una condizione di crescente nichilismo che pochi hanno descritto con tanta perspicuità quanto i testi dei CCCP nel loro album del 1985: «Io sto bene, io sto male, / io non so come stare; / io sto bene, io sto male, / io non so cosa fare»; «Mi annoio mortalmente normalmente, / non so bene, non so cosa, / non so quando, non so dove, / non so più, non so, non so».[1] Per restare in ambito musicale, qualche anno dopo l’assenza di un significato generale e la riduzione dell’esperienza umana a una congerie di gesti insignificanti sarebbe stata ben captata anche da Elio e le Storie Tese: «Sono uno abitudinario, leggo la targhetta sopra l’ascensore: / qual è la capienza, quanti chili porta, / poi si apre la porta, e non lo so già più».[2] Era questa una diffusa percezione della realtà in cui si riusciva a identificare soltanto quello che non andava e che non si voleva essere, mancando un fine altro a cui tendere.
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