1. La memoria e le memorie di chi recita
Gli attori e le attrici scrivono sull’acqua: del loro agire sul palcoscenico, del suono della voce e dei movimenti dei corpi non restano che esili tracce. Così è stato per secoli e la scrittura, in particolare la scrittura memorialistica, ha rappresentato lo strumento principale per lasciare un segno indelebile, per consegnare «un’immagine compatta, coerente, salda: trasmissibile» (Orecchia 2007, p. 12). Pensiamo per esempio alle memorie dei grandi attori come Adelaide Ristori, Ernesto Rossi o Tommaso Salvini, il cui scopo non è tanto di svelare qualcosa che non sia noto al pubblico, né di articolare una narrazione intima e personale, quanto di definire appunto un’immagine salda, autorevole di sé. La scrittura, e questo è vero allora come oggi, si associa anche a una tensione verso la legittimazione culturale. Se l’identità di chi scrive un’autobiografia è nota – condizione imprescindibile agli occhi del lettore per riconoscere il testo autobiografico, perché altrimenti «manca quel segno di realtà che è la produzione anteriore di altri testi» (Lejeune 1986, p. 23) – nel caso degli attori e delle attrici gli altri testi sono le performance (nella maggioranza dei casi), ovvero testi ‘assenti’, ormai irrimediabilmente perduti. E dunque nel caso di chi recita il desiderio di legittimazione diventa più forte – una sorta di urgenza – perché la sua è un’autorialità debole, legittimata non dalla scrittura sulla pagina, bensì soltanto da quella scenica.