10.3. «Una statua di carne». Francesca Bertini e Louis Delluc, per una lettura di genere della fotogenia

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«La carne è fotogenica», scrive Louis Delluc quando descrive il corpo di Mabel Normand disteso al sole, le spalle scoperte e segnate dal marchio d’infamia di Fannie Ward, e più di tutte le braccia nude di Francesca Bertini:

La carne è fotogenica. Gli Italiani lo hanno capito prima di tutti. Ridiamo volentieri delle loro eroine che si pavoneggiano a tutte le ore del giorno e del dramma in elegantissimi abiti da sera tagliati per spogliarne le braccia, la gola, le spalle. E non è questione soltanto del bisogno di lusso pomposo del quale si compiacevano i Latini del vecchio mediterraneo. I registi italiani sapevano anche che la carne è uno dei materiali più ammirevoli che fotografia e film hanno a disposizione. È vero che la pelle meridionale, opaca, sotto la limpida violenza del loro sole si colora di un modellato che non ha uguali, cosa che ha aiutato non poco la seduzione di belle attrici come Lyda Borelli […], Pina Menichelli […], Elena Makowska […], e soprattutto Francesca Bertini, che avrebbe dovuto essere, che sarà forse, infine, il legame migliore tra il cinema latino e l’americano. I suoi ritratti di Fedora, La signora delle camelie, Odette sono insegnamenti. Forse il suo regista, o lei stessa, hanno dato alle sue braccia un talento notevole. Poi, gli Americani. Si sono spinti anche più lontano. Dopo aver spogliato tutte le spalle che trovavano, hanno spogliato le gambe. […] In Mickey, Mabel Normand faceva il bagno in piena libertà su una bella spiaggia. Ne vedremo molte altre. […] Una certa indipendenza, bisogna dirlo, appare nei Francesi. Per adesso non è questione di chiedere a Musidora di correre per i boschi in costume di Verità. Si è iniziato, in modo più ingenuo, dal seno, come vi dico. Quando apparve Forfaiture, ammirammo la scena di voluttuosa violenza dove Sessue Hayakawa imprime il suo timbro bruciante sulla spalla violata di Fanny Ward. Ormai in tutti i film drammatici francesi si vede una scena brutale in cui la mano di un uomo spoglia la spalla e il seno dell’eroina. […] Un’esperienza più felice di fotogenia plastica mi è apparsa in La Sultane de l’amour, girato da Louis Nalpas (Delluc I [1920], pp. 54-55).

La fotogenia è una questione di pelle, e di pelle di donna. A ben guardare, in effetti, questa e le altre pagine che Louis Delluc dedica alle dive italiane e in specie a Francesca Bertini lasciano affiorare i motivi che innervano la sua idea di fotogenia che appare germinare dalla consistenza materica del corpo femminile, superficie portatrice di sensualità e intrisa di esotismo.

La carne è un «materiale», scrive Delluc, una superficie adatta per essere fotografata e filmata; e nel pensiero francese degli anni Venti sulla decima musa la qualità profonda del cinema, la fotogenia, appare essere per l’appunto un gioco di superfici – come ricorda Giuliana Bruno, la pelle di volti e cose, «superficie cutanea di un qualsiasi oggetto sensibile» può divenire «tramite anche di affetti, emozioni e sentimenti» (Bruno 2016, pp. 22-23). E «volti, stoffe, mobili, arredi o paesaggi» sono la «materia stessa della fotogenia» (Delluc I [1920], p. 50) [fig. 1]. Tessuti lucidi o opachi, velluti, tappezzerie; muri ruvidi o lamiere lisce e luccicanti di automobili: le consistenze dei materiali riverberano nello sguardo della cinepresa e sulla pellicola, con l’occhio della camera che ne catturerebbe allora il trasformarsi in immagini fotogeniche capaci di rivelare il senso profondo del reale. E la carne appare simile a un tessuto giacché è fotogenica come un «tailleur corto, all’inglese, di tessuto ruvido bianco e nero» o un «jersey di seta grigio acciaio, azzurro pallido, paglierino o rosa» che «disegnano una silhouette visiva» (Delluc I [1920], p. 57).

Il corpo dell’attrice è qui un oggetto fotogenico come un altro, frantumato feticisticamente in componenti singolari – le braccia dal «talento notevole», la pelle «opaca» illuminata dal sole, la gola, le spalle – e mai disteso nella profondità di campo, come accade, di converso, nelle pellicole italiane. Diva film e cinema fotogenico condividono la passione per tessuti e bellezza femminile; ma se al primo «si assiste come a un défilé» (Jandelli 2016, p. 113; Dagna 2014) giacché si ammirano le toilette delle dive che muovono lente e sinuose verso l’avampiano in lunghe sequenze in profondità di campo, secondo «la logica attrazionale insita nell’esibizione libera, protratta e significativa del corpo femminile» (Jandelli 2016, p. 113) che pure ne mette in luce le qualità performative, il secondo convoca una visione frammentata che appare lasciare da un canto il talento dell’attrice per vederne la sola «silhouette visiva» disegnata dagli abiti e da gesti isolati dai primi piani.

Scrive ancora Delluc:

Non saprei dirvi se [Francesca Bertini] abbia talento. Ha quel che ci vuole sullo schermo: un’impassibilità, una linea, una sincerità. Chi potrebbe mostrarne altrettanta? È dotata per le sue posture dalla natura – anche dalla sua volontà, credo – e la sua esibizione sfrenata di vestiti, mantelli, cappelli, che a rigor di logica dovrebbe esasperarci, diviene molto seducente, poetica, moderna, e finisce per affascinarci (Delluc II [1917], p. 155) [fig. 2].

Delluc riconosce a Bertini, forse, una volontà che dà forma ai suoi gesti d’attrice: altrove nota che «lo schermo esige un progetto, ovvero riflessione, studio, sforzo» e Bertini, «costretta a una critica severa di sé, deve scrutare dettaglio per dettaglio, le incertezze o le audacie della sua bellezza» (Delluc II [1918], p. 210). Ma quel che conta, per il critico e cineasta, sono la sfilata degli abiti che indossa, «la virtuosità sorprendente del come lascia vedere un po’ del suo corpo» e «la reputazione delle sue braccia e delle sue spalle» (ibid.), oggetti erotici ed esotici al contempo [fig. 3].

I corpi delle attrici rivelati dai décolleté sono «guardati», come vorrebbe Laura Mulvey: oggetti di sguardo e desiderio, espressioni non di un talento attoriale o di una personalità ma di una sensualità forte còlta attraverso il filtro dei canoni dell’esotismo. La «nudità latina» di Bertini è accostata a un carattere di «selvaggia puerilità» (Delluc II [1918], p. 239): la figura della star è essenzializzata e assimilata a un bambino o un animale selvaggio, da ammirare nella loro immutabilità altra e incosciente di sé. Sovente la bellezza di Bertini è ricordata accanto al fascino di attrici viste in film orientalisti; dopo aver descritto le braccia della diva italiana Delluc continua l’elogio della nudità sul grande schermo designandone l’esempio più notevole in La Sultane de l’amour prodotto da Louis Nalpas (C. Burguet e R. Le Somptier, 1919), che offre allo sguardo maschile «il nudo, armonia nuda, plasticità illuminata arditamente, fotogenia sensuale» (Delluc II [1918], p. 212); e ancora a proposito di La Sultane de l’amour la scrittura del critico ripropone il motivo dei corpi d’attrice (France Dhélia è la protagonista), «latine» o orientali, ridotti a pelli fotogeniche, oggetti erotici che risplendono sullo schermo per soddisfare i desideri degli spettatori:

Non avevamo mai visto un film arrivare così al cuore della carne fotogenica. Ci sono state le braccia illustri di Francesca Bertini, la rigogliosità fatta persona di Lyda Borelli, la voluttuosità viva di Pina Menichelli, e le ragazze ben fornite dei film americani […]: ma non si è mai visto un’abbondanza di quell’estetica come in La Sultane de l’amour. Louis Nalpas, francese d’oriente, affascinato dalla forma e dall’equilibrio sensuale dei gesti, ha cercato di ricostituirne la potenza commovente. Quello che piacerà di più del suo film sarà la grazia umana, e talvolta felina, delle donne delle quali lo ha affollato (Delluc II [1919], p. 266).

Il motivo della riduzione dei corpi a elemento decorativo perché esotico include anche gli attori. L’altro dall’uomo occidentale è assimilato a una scenografia:

Quando un regista costruisce una scenografia, non si preoccupa quasi mai di esigere dagli accessori la qualità fotogenica che chiede agli interpreti. Influenza deplorevole del teatro sul cinema. […] Il cinema italiano subisce un eccesso analogo di abitudini storiche. Ah! Le antiche civiltà! Ma i secoli non hanno importanza, e se Cinesi e Giapponesi avessero il senso del cinema troverebbero nelle tradizioni dei loro mobili, statue, pitture, un’atmosfera cinematografica pronta all’uso. Mi si comprenderà se dico che non conosco niente di più fotogenico del Buddha? (Delluc I [1920c], p. 55).

E del resto la descrizione celebre della performance di Sessue Hayakawa in The Cheat (C.B. De Mille, 1915) insiste sui motivi dell’animalità, della ferocia e del mistero, motivi canonici della visione orientalista come l’ha delineata Edward Said:

Hayakawa domina le folle con la sua malinconia. Ancora una volta non parlo di talento, considero questi attori, e soprattutto lui, come una forza naturale e il suo volto come un’opera di poesia, di cui non c’interessa il perché, quando il nostro desiderio di bellezza vi trova la nota o il riflesso sperato. Dunque la sua malinconia, sì, ma sì. Non è la sua crudeltà felina e implacabile, la brutalità misteriosa, il suo odio per chi resiste, il suo disprezzo per chi obbedisce, no, non è questo che ce lo impone, e però non si parla d’altro. E la sua malinconia? I suoi occhi così freddi davanti al dolore che, aperti, è come se fossero chiusi per sempre, e soprattutto il suo sorriso, di una ferocia di bambino, e non è neanche questo; una ferocia di puma o di giaguaro, e non è più ferocia! La bellezza di Sessue Hayakawa è dolorosa (Delluc I [1920], p. 32).

E così, infine, in un testo meno noto, dove evoca una visita a uno studio cinematografico immaginario, il regista suggerisce che attori e attrici siano ospitati vicino a gabbie di gatti, scimmie, puma, leoni, pantere, perché imparino a muoversi nell’imitarne «la bellezza dei movimenti, dei gesti, delle posture» (Delluc I [1920], pp. 42-50); giacché «la vista di quei volti e corpi [delle attrici di La Sultane de l’amour] è abbastanza per gli occhi, come la vista di un gatto, dell’acqua, di Hayakawa» (Delluc II [1919], p. 266).

Dunque, la visione dellucchiana della fotogenia riconduce l’altro esotico allo stato di natura: fiera selvaggia e seducente al contempo, l’attore o l’attrice non possiede un talento ma è una «maschera naturale» (Delluc I [1920], p. 51) [figg. 4-5]; non interpreti dotati di uno stile recitativo, di una storia divistica, di personalità ma pattern visivi, insiemi di linee, forme e posture che compongono l’inquadratura. Sulle figure di donne si amalgama poi un deciso portato erotico: la nudità è solo femminile, e la cinepresa percorre e registra con avidità l’incarnato dei volti e la pelle dei corpi delle attrici. Nella scrittura del regista e critico francese i lineamenti multiformi e modellati dalle singolarità delle posture e delle performance delle dive italiane appaiono come ʻcorpo di donnaʼ, essenza univoca di un altrove che non possiede divenire nella storia o potere di agire, «femminilità di pura presenza senza tempo» (Doane) che appartiene, immota e immodificabile, allo stato di natura: Francesca Bertini è nient’altro che «una statua di carne» (Delluc II [1920], p. 270).

 

 

Bibliografia

Tutte le citazioni da Louis Delluc sono tratte da Écrits cinématographiques, voll. I e II, Paris, Cinémathèque française, 1986, a cui si riferiscono i numeri romani che indicano il volume e i numeri arabi di pagina; l’anno tra parentesi quadre indica la prima pubblicazione del testo. Le traduzioni sono dell’autrice.

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