Con la pubblicazione di Tre pièces e soggetti cinematografici di Goliarda Sapienza (editi da La Vita Felice nell’ottobre del 2014) si aggiunge un tassello importante all’opera di una scrittrice ingiustamente rimasta nell’ombra fino a poco tempo fa, ma soprattutto si illumina un capitolo fondamentale della sua esperienza artistica. La ‘prima vita’ di Sapienza (così la considera Angelo Pellegrino, curatore del volume, per distinguerla dalla ‘seconda’, dedicata alla scrittura) è infatti legata alla scena e al grande schermo. Come è ormai noto, la scrittrice aveva lasciato la Sicilia appena sedicenne ed era approdata a Roma per frequentare la Regia Accademia di Arte drammatica. Dal 1942, anno del suo esordio con l’interpretazione del personaggio di Dina in Così e (se vi pare), fino al 1960 Goliarda Sapienza si dedica alla carriera di attrice di teatro e al cinema. Nell’ambiente cinematografico ha nel fattempo incontrato Citto Maselli, con il quale collaborerà in molti film, sia nella sceneggiatura che nella regia. Dagli anni Sessanta in poi, le brevi apparizioni sulla scena hanno soltanto una funzione pratica, mentre il teatro e il cinema diventano prevalentemente oggetto della sua scrittura, come queste tre pièce e i tre soggetti cinematografici dimostrano.
Pur appartenendo a periodi cronologicamente differenti (anche se per la verità sulla datazione il curatore dice poco e bisognerà ancora provare a fare chiarezza), i tre drammi presentano elementi tematici comuni e un impianto drammaturgico molto simile. Al centro di ognuno di essi c’è la ‘macchina della tortura’ dei rapporti familiari. Non si tratta di famiglie di sangue bensì di ‘famiglie psichiche’: quella che vive nella comune in cui è ambientata I due fratelli («questa povera famiglia inventata»), la famiglia d’elezione che si stringe attorno ad Anna, protagonista della Grande bugia, o infine il ‘gruppo di famiglia in un interno’ che un po’ casualmente si raccoglie nel finale a casa di Marta e Piera in Due signore e un cherubino. Si direbbe che, pur sovvertendo e forzando i ruoli di genere e di parentela, Sapienza non possa farne a meno per costruire drammaturgicamente la tela di relazioni che lega i suoi personaggi: in ciascuna pièce irrompe sempre un ospite più o meno gradito, capace di innescare un gioco di rivelazioni e svelamenti che tocca l’acme dell’azione. I protagonisti sono chiamati così a raccontare la propria storia e, nel contempo, a indossare e nascondere la propria maschera, a interrogare e decostruire la propria identità. Altro elemento comune, e basso continuo, è la concezione della scena come «sala operatoria» in cui si porta allo scoperto, si illumina e si tenta di estirpare il cancro della menzogna che ammorba i rapporti umani.