Una delle obiezioni che si muovono a ricerche del genere [...] è di aver posto in opera un apparato culturale esagerato per parlare di cose di minima importanza, come un fumetto di Superman [...]. Ora, la somma di questi messaggi minimi che accompagnano la nostra vita quotidiana, costituisce il più vistoso fenomeno culturale della civiltà in cui siamo chiamati ad operare. Nel momento in cui si accetta di fare di questi messaggi oggetto di critica, non vi sarà strumento inadeguato, e si dovrà saggiarli come oggetti degni della massima considerazione.

Umberto Eco

 

L’idea di approfondire la ricezione dei poemi narrativi nella nona arte è nata partendo dallo studio della ricca e precocissima fortuna illustrativa dei romanzi cavallereschi, dalle xilografie delle prime edizioni a stampa fino alle opere degli artisti contemporanei. All’interno di questa fiorente tradizione, il ‘pensiero disegnato’ del fumetto si è inserito naturalmente, nei primi decenni del Novecento, sia sviluppando l’eleganza grafica e la capacità di ‘emblematizzazione’ raggiunte dagli illustratori, sia cogliendo a pieno e reificando due caratteristiche intrinseche della poesia narrativa: da un lato l’enargeia e la predisposizione alla creazione di immagini vivide, alla rappresentazione immediatamente visibile e memorabile delle azioni dei singoli personaggi per mezzo delle risorse della versificazione; dall’altro la prossimità ai generi letterari più vicini alla performatività. Attraverso differenti modalità di trasposizione, o travestimento, e persino di libera riscrittura in versione parodica, le ‘traduzioni’ fumettistiche di queste opere in versi si sono cimentate in un confronto con il dettato poetico originario volto non soltanto a dare concretamente corpo all’implicita componente iconica delle storie, ma anche a trasferire nel linguaggio del comic i meccanismi stessi della narrazione poetica, mettendo in scena la pervasiva dialogicità che la caratterizza e spesso riproponendo sul piano grafico talune metafore e allegorie del testo di partenza.

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Per il suo ventiduesimo lungometraggio Martin Scorsese ricomincia dal graphic novel di Brian Selznick, The invention of Hugo Cabret (La straordinaria invenzione di Hugo Cabret, Mondadori, 2007) e torna sui passi del cinema di George Méliès, servendosi della più avanzata tecnica 3D (il CPG Certified). La profondità è, in prima battuta, il trait d’union fra il maestro di Flushing ed il mago di Montreuil (cioè il luogo dove, nel 1897, Méliès aveva costruito il suo laboratorio per le riprese): basti leggere come il cineasta francese, in alcuni scritti, propugni una fotografia capace di «distaccare» gli elementi principali da quelli secondari. Scorsese metabolizza l’assioma applicandolo alla prospettiva di Gare Montparnasse – luogo già efficacemente rappresentato nei disegni di Selznick – dove l’elemento spaziale è fondamentale e tuttavia privo di quel minaccioso incombere che lungamente ha assediato il protagonista scorsesiano. La stazione parigina non è solo metafora di destini umani che s’incrociano fuggevoli, ma anche, più significativamente, il posto in cui i vecchi (Monsieur Frick e Madame Emile) e i giovani (l’ispettore Gustav e la fioraia Lisette) possono ancora innamorarsi; questi personaggi, ibridi tra il colorismo di Tim Burton e le moltitudini di Fellini, ricordano da vicino i bizzarri teatranti (folletti, nani, fate) del teatro di féeries, gli spettacoli di magia e prestidigitazione dell’Ottocento che Méliès traspose sullo schermo dopo la folgorante visione del Cinématographe Lumiere (era il 1898), descritti dallo stesso regista nei Documents pour completer l’histoire du Théatre Robert-Houdin.

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