Absolutely Nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani di Giorgio Vasta, pubblicato nel 2016 nella collana Quodlibet Humbolt, offre uno degli esempi più complessi di dispositivo fototestuale[1] e mette a fuoco una griglia tematica dalla stratificata dimensione cronotopica, all’interno della quale si intrecciano spazio, corpo e fotografia. Che «il tempo si può raccontare attraverso lo spazio»[2] Vasta lo aveva già dimostrato nel suo primo romanzo, intitolato appunto Il tempo materiale (2008), per poi ribadirlo nel successivo Spaesamento (2010). Ma questa sovrapposizione delle coordinate spazio-temporali diviene l’asse centrale della narrazione soltanto in questo romanzo in forma di reportage (o reportage in forma di romanzo), in cui l’autore racconta il viaggio compiuto nelle ghost town americane insieme a Giovanna Silva, fotografa e ideatrice della collana, e Ramak Fazel, fotografo e coautore del fototesto. Nel volume – è bene precisarlo – vengono inseriti gli scatti di entrambi: quelli di Silva, in bianco e nero fra le pagine di Vasta, e quelli di Fazel a colori, a fine testo, nella sezione intitolata Corneal Abrasion.
La difficile definizione della forma testuale appare in relazione alla materia raccontata e al set del viaggio, i labili argini del modello del baedeker affidato ai quattro occhi di uno scrittore e di un fotografo vengono infranti sin da subito, si direbbe quasi per effetto della relazione con uno spazio dai limiti incerti: la scrittura odeporica si trasforma, infatti, lungo il percorso «in qualcosa di diverso e indefinibile, senza confini precisi come non ne hanno i deserti».[3]