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L’articolo indaga l’intenso dialogo tra i romanzi consoliani e le arti figurative, in particolare la pittura. Un dialogo che si avvale di strategie molteplici, le icone autoriali annunciate spesso dai titoli tematici dei romanzi, il ricorso all’ekphrasis nascosta, gli inserti critici riferiti alle opere d’arte. Con particolare riferimento a Il sorriso dell’ignoto marinaio ed a Retablo prende in esame, per altro, l’uso che lo scrittore fa dell’ekphrasis, il suo valore metanarrativo e metadiegetico.

The article investigates the intense dialogue between Consolo’s novels and figurative arts, in particular painting. A dialogue that makes use of multiple strategies: the authorial icons often announced by the thematic titles of the novels, the use of the hidden ekphrasis, the critical inserts refering to artworks. With particolar reference to Il sorriso dell’ignoto marinaio (The smile of the unknown mariner) and to Retablo, the essay investigates, among others, the use that the author makes of the ekphrasis, its metanarrative and metadiegetic value.

 

 

L’opera di Consolo riserva ampio spazio alle citazioni figurative.[1] Lo scrittore, intervistato da Giuseppe Traina, ha dato una spiegazione della ricchezza dei riferimenti pittorici riscontrabili nei suoi romanzi ricorrendo ad un assunto semiologico, affermando la volontà di superare la contrapposizione tra lo svolgimento temporale del linguaggio verbale e lo svolgimento spaziale dell’opera figurativa. Per Consolo la continua evocazione dell’immagine riscontrabile nella sua scrittura risponde all’esigenza di equilibrio tra temporalità e spazialità:

La stessa perigrafia dei romanzi consoliani rinvia spesso a suggestioni figurative o a palesi citazioni pittoriche, evidenti fin dai titoli: com’è noto Il sorriso dell’ignoto marinaio fa riferimento al dipinto di Antonello da Messina, il ritratto virile d’ignoto custodito nel Museo Mandralisca di Cefalù. Anche Retablo, romanzo pubblicato nel 1987 per i tipi Sellerio, evoca la pittura fin dal titolo. Il termine catalano retablo indica infatti una pala d’altare inquadrata architettonicamente: essa può articolarsi in diversi scomparti formando un dittico, un trittico o un polittico costituito da tavole dipinte, talvolta da sculture o dall’alternanza di dipinti e bassorilievi, tenendo insieme, in quest’ultimo caso, imagines pictae e fictae. Il titolo scelto da Consolo, facendo riferimento ai polittici iberici, denunzia in primo luogo la vocazione pittorica del libro. Ma retablo è inteso dall’autore come un significante polisemico, come un lessema evocativo di rara e remota sonorità che contiene, ad un tempo, riferimenti figurativi, teatrali e letterari: «La parola retablo (parola oscura e sonora, che forse ci viene dal latino retrotàbulum: il senso, per me, dietro o oltre le parole, vale a dire metafora) l’ho assunta nelle varie accezioni: pittorica, shahrazadiana, cervantesiana».[3] Tra l’altro il lemma spagnolo rinvia alla memoria del Retablo de las meravillas di Miguel de Cervantes. L’evocazione cervantesiana può essere intesa anche come un riferimento al tratto illusorio dell’arte, motivo a cui il romanzo dedica più di una riflessione. Attraverso la scelta di un titolo di carattere tematico[4] l’autore allude, infine, all’organizzazione narrativa del libro, articolato per scene e quadri successivi che potrebbero essere considerati come delle tavole sovrapposte, pur mantenendo la loro autonomia narrativa. Il testo consoliano si configura dunque come un polittico, come una successione di quadri narrativi al centro dei quali sta il motivo odeporico, ovvero il viaggio del cavaliere Fabrizio Clerici nella Sicilia del XVIII secolo, e una tarsia di citazioni che ne fanno uno dei romanzi più complessi e levigati della letteratura italiana del secondo Novecento.

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Houel

di

     

Avant la lettre, Houel ha una coscienza e un’etica professionale, una forma mentale, un comportamento da reporter-photographe. Il culto dell’oggettività, della testimonianza diretta e precisa. Il sentirsi in dovere d’essere presente fino all’estremo limite di sicurezza, ed anche oltre. La consapevolezza serena e persino allegra, l’energia, la vitalità con cui affronta gli incerti, i disagi e i pericoli di un mestiere più vicino, appunto, a quello allora ignoto del giornalista-fotografo che a quello del pittore. Da ciò, per esempio, la sua indignazione quando scopre che Desprez aveva disegnato, per il Saint-Non, dei gradini che nel teatro di Taormina non c’erano. […] Possiamo anche immaginare, e ci piace, che Houel – come Bartolini, come Segonzac – si portasse dietro le lastre e le incidesse sul momento, en plein air, magari sommariamente, e che dalle lastre, e dai taccuini inzeppati di particolareggiati e minuziosi disegni, traesse poi, con una certa libertà, le gouaches, gli acquerelli.

L. Sciascia, Houel in Sicilia (1977)

Al di là dell’analogia con il modus operandi del reporter, quel che appare più interessante nel profilo di Houel, pittore-scrittore-viaggiatore in Sicilia, non è l’attenzione alle immagini reali dai lui prodotte, ma la riflessione sulle immagini che la sua storia, la sua anomala figura di viaggiatore producono nella fantasia dello scrittore. Se è pur vero che a lui «le immagini […] non sono mai bastate per immaginare», è altrettanto vero che si lascia sorprendere a fantasticare di Houel come un fotoreporter capace di sfidare le condizioni più pericolose pur di dare un sapore di verità al suo ‘servizio’ e come un incisore raffinatissimo che può stare accanto ai suoi adorati acquafortisti Bartolini e Segonzac; gli piace vagheggiare la sua avventura siciliana come assolutamente originale rispetto a quelle degli altri rappresentanti della letteratura odeporica di fine Settecento. Dunque la similitudine con i tratti del «giornalista-fotografo» si spiega non tanto per la ‘lettura’ di una qualche oggettività nei suoi acquerelli, ma per quella ricerca di obiettività, per quell’atteggiamento documentaristico, attento a tutti gli aspetti della cultura siciliana, che fanno di Jean Houel una singolarissima figura di viaggiatore. Degli anni trascorsi nell’isola restano i quattro volumi del Voyage pittoresque des isles de Sicile, de Malta et de Lipari (Paris, 1782-1787), testimonianza della generosa e appassionata immersione del pittore nella cornice del suo paesaggio. È proprio questo comportamento che accende l’immaginazione di Sciascia: «Questo suo lungo soggiorno ci dà alla fantasia. Come viveva, se si era fatto degli amici, quali ambienti frequentava. […] L’avere scelto Agrigento come luogo di residenza, i suoi molteplici interessi alle cose locali, il suo essersi connaturato, nei modi dell’ospitalità, all’ambiente: sono elementi che svegliano la nostra curiosità riguardo al personaggio, che sollecitano ad immaginare». Forse una qualche traccia di eredità di queste fantasticherie sciasciane toccherà in sorte a un altro scrittore siciliano quando si accingerà a disegnare la figura del pittore-viaggiatore Fabrizio Clerici che si muove da Palermo per le strade dell’isola nelle pagine di Retablo. Senza dubbio per Sciascia il Voyage di Houel, in cui disegni e parole oggettivamente e soggettivamente («j’affirme mes dessins par mes écrits, et je confirme mes écrits par mes dessins») esplorano la Sicilia, rivela un volto dell’isola, «luminosa, piena di vitalità e di bellezza» che si oppone, quasi esorcizzandolo, al ritratto oscuro e selvaggio firmato da molti suoi contemporanei.

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