«…veramente da vicino non è che fai così paura».

(Roberto Saviano a Salvatore Esposito)[1]

 

 

Quando Arabeschi ha pensato di dedicare una delle sue “Gallerie” ai dieci anni di Gomorra di Roberto Saviano, è stato subito chiaro che quel «Gomorra» non era il libro [fig. 1]. Certo, il libro era stato il punto di partenza, il gesto rivelatore, l’oggetto da cui far scaturire nuove riflessioni sulle forme narrative dell’impegno, ma Gomorra è un universo, di cui il romanzo è solo uno dei pianeti. I dieci anni di Gomorra, dunque, non vanno intesi come il compleanno di quella prima pubblicazione, ma come un lento e inesorabile percorso di ‘colonizzazione mediale’ che ha portato Roberto Saviano, di volta in volta con ‘truppe’ diverse, a marciare sulla carta stampata, sul cinema, sulla televisione, sul web. E tutti sappiamo quanto sia costata a Saviano questa marcia di continuo equivocata e strumentalizzata [fig. 2].

Senza esagerare, si può dire che Gomorra abbia rappresentato, in questo decennio, una sorta di passaggio obbligato sulla via di un’autocoscienza non solo civile e politica, ma in qualche misura anche mediale. Intendo dire che ha certamente rappresentato uno snodo decisivo nelle pratiche di avvicinamento dell’opinione pubblica ai temi della criminalità organizzata, ma ha altresì rappresentato un’occasione di riflessione sulla forma romanzo, sulla questione del realismo e dell’epica italiana, sulle nuove strade e sulla tradizione del nostro cinema (che è stato per la verità il medium che ha saputo sfruttare meno questa occasione, ne parla qui Emiliano Morreale), sulla serialità televisiva (dove gli effetti invece sono stati dirompenti, ben testimoniati da questa galleria) e infine sul web. A questo riguardo, nell’ultima pagina del romanzo, c’è un passaggio che può valere come indicazione di metodo per chi studia e combatte la camorra e al contempo come rivelazione del più complesso funzionamento dell’universo Gomorra:

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Cultura visuale. Immagini sguardi media dispositivi di Andrea Pinotti e Antonio Somaini (Einaudi, 2016) contiene una sorta di autorecensione al suo stesso interno. Il volume si apre infatti con le articolate pagine introduttive in cui i due autori non solo spiegano il senso del progetto, ma anche sintetizzano il percorso dei capitoli, in un certo senso svelando, con paragone giallistico, l’assassino prima che venga commesso il delitto. Tale scelta si spiega con la natura didattico-divulgativa del lavoro, che aspira a costituire un viatico il più possibile ordinato e chiaro al dibattito internazionale sulla cultura visuale; sullo sfondo, però, si affaccia un’altra ragione, e cioè che Pinotti e Somaini possano avere ritenuto che fosse necessaria una mappatura supplementare per orientarsi nella ramificatissima messe di dati, nomi e concetti che, non senza qualche episodica ridondanza informativa, danno vita a un volume dal ritmo argomentativo certamente molto elevato.

Più in dettaglio, Cultura visuale si compone di sei densi capitoli tesi a dimostrare che «studiare le immagini e la visione assumendo come punto di riferimento questo concetto significa prendere in esame tutti gli aspetti formali, materiali, tecnologici e sociali che contribuiscono a situare determinate immagini e determinati atti di visione in un contesto culturale ben preciso» (pp. XIII-XIV). Di qui l’esigenza di ricostruire nei primi due capitoli la storia e le aree di un sapere per definizione inter- e transdisciplinare, che ingloba al suo interno tratti teorici, storici, filosofici ma anche riflessioni sull’arte, sulla fotografia, sul cinema, sui mass media, sulla pubblicità, nonché sulla presenza delle immagini nella vita quotidiana. Senza tralasciare il ricco panorama francese, specie in relazione a nomi come Barthes, Foucault, Deleuze, gli autori distinguono poi tra i visual culture studies anglosassoni, di impostazione più culturalista e militante, e la tedesca Bildwissenschaft, più legata alle metodologie storico-artistiche tradizionali, nonostante entrambi gli indirizzi siano fautori delle affini prospettive della pictorial turn (W.J.T. Mitchell) e della iconic turn (Bohem), oltre che di un interesse per l’immagine tout court, al di là del suo status artistico. Dal terzo al quinto capitolo si prendono invece in esame i concetti e percorsi chiave del multiforme orizzonte degli studi sulla cultura visuale, come – solo per nominarne i principali – la differenziazione tra images come entità immateriali e pictures come fenomeni concreti, la distinzione tra la neutra vision e la situata visuality col conseguente dibattitto sulla validità di un approccio storico allo sguardo e alla percezione, i regimi scopici che operano all’interno di una complessiva iconosfera, la riflessione sulla realtà aumentata, il focus sul rapporto tra senso dell’immagine e sua materialità a partire dall’attenzione riservata ai supporti e ai dispositivi, la discussione sul passaggio dall’analogico al digitale, la prospettiva socioculturale sui medium e sui loro variegati rapporti (multimedialità, intermedialità, transmedialità, rimediazione, rilocazione), il rinnovamento degli studi sui mass media alla luce dell’opposizione tra immagini ad alta o bassa definizione. La sesta e ultima sezione è dedicata agli usi sociali delle immagini e differisce dalle precedenti in quanto si sposta sugli oggetti su cui possono essere applicati i metodi presi in esame: dai reperti di archeologia preistorica sino alla diffusione globale di immagini come quelle relative all’attacco terroristico dell’11 settembre e alle torture dei prigionieri ad Abu Ghraib, dall’uso delle immagini sacre già nell’antichità ai recentissimi fenomeni di manipolazione e derealizzazione tramite internet e, in particolare, le piattaforme social.

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Christos Gage, Diego Latorre, Dante’s Inferno, La Jolla (CA), Wildstorm Productions, 2010

 

Il prodotto della collaborazione tra lo scrittore e sceneggiatore Christos Gage e il disegnatore Diego Latorre impone il confronto tra la Divina commedia e un complesso apparato di contaminazioni di matrice popolare rintracciabili nei fumetti, nelle serie TV (Gage collabora alla scrittura di X-Men e Spiderman, e ha lavorato inoltre a Daredevil di Netflix) e persino nei supporti multimediali. La serie in sei numeri Dante’s Inferno costituisce infatti un progetto originato dall’omonimo e antecedente videogioco della EA Games, del quale la versione cartacea conserva molti aspetti.

Tra le numerose trasposizioni americane dell’opera di Dante, il lavoro di Gage e Latorre spicca per la sua natura fortemente ibrida. Dallo stile e dal contenuto, infatti, è evidente come la resa visiva delle illustrazioni di Latorre alluda con forza agli effetti grafici sperimentati dal videogioco: la storia si presenta, infatti, come una catena sequenziale di immagini a metà tra il fantasy e il gotico, richiamando il full HD dei videogiochi di ambientazione tardo-medievale (ad esempio Prince of Persia). Tale caratteristica può convincere nella misura in cui permette di enfatizzare il potenziale di spettacolarità delle immagini, e al contempo di contribuire a ringiovanire graficamente la Commedia in chiave pop. D’altro canto è vero che le immagini di Latorre, bloccate dal supporto cartaceo e non amplificate da una ‘scheda video’ multimediale, provocano nel lettore un effetto limitato a livello percettivo: le forme raffigurate sono spesso sfumate e indefinite, e questo le rende difficili da leggere e collegare sequenzialmente. Alcune soluzioni grafiche sono volte proprio a bilanciare il potenziale inespresso delle immagini: ad esempio, colpisce la scelta di proporre balloon con le parole di lucifero in rosso, e in nero se pronunciate dagli altri personaggi. La volontà di distinguere un parlante umano da uno non umano, di aiutare il lettore a distinguere le voci dei personaggi, laddove la gerarchia di vignette e balloon non garantisca altrettanta chiarezza interpretativa, si combina così con il tentativo di offrire una prospettiva simile al cosiddetto videogioco first-person-shooter (in cui le parole di un personaggio non inquadrato vengono sottotitolate).

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