4.1. «Effe» (1972-1983) e il discorso femminista sulla corporeità femminile: il cinema e l’industria culturale

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Nell’introduzione a Visual and other pleasures, che raccoglie in volume gli interventi scritti da Laura Mulvey fra il 1971 e il 1986 per la rivista femminista ʻShrewʼ e vari periodici di cinema e fotografia, l’autrice usa una metafora efficace per spiegare come la questione della corporeità fosse l’istanza chiave in seno al movimento delle donne: dice che campagne, azioni, dibattiti e teorie generarono da quel discorso «like the spokes leading out from the central part of a wheel» («come altrettanti raggi si dipartono dal perno centrale di una ruota»).

Campaigns for women’s right to control reproduction and motherhood were accompanied by, for instance, the Miss World demonstration and the ‘this exploits women’ campaigns. And it gradually become clear that the question of the woman’s body had a significance that crossed the frontiers of the physical, organized by the discourse of the law and medicine, into the realm of representation. Women’s struggle to gain rights over their bodies could not be divorced from questions of image and representation» (Mulvey 1989, p. VIII).

È esattamente la stessa impressione che si ricava nello scorrere le pagine e i fascicoli di effe, la più importante rivista del movimento femminista italiano, in edicola a cadenza mensile dal 1973 al 1982. I periodici militanti si rivelano ottimi punti di osservazione per mettere a fuoco il discorso femminista sulla corporeità femminile proprio perché lo articolano a tutto campo attraverso differenti sfere discorsive: le battaglie politiche per l’autodeterminazione, la sfera attinente al ‘privato’ e alle relazioni fra i sessi, la critica dell’industria culturale e della mercificazione del corpo delle donne. È quanto sostengo in un saggio di imminente pubblicazione che ha ad oggetto il teatro e la danza su effe (Gandolfi 2018): l’attenzione che la rivista riserva alle arti performative va compresa nell’interazione con l’insieme delle sfere discorsive riguardanti la corporeità. Propongo qui l’identico approccio di lettura, declinandolo però lungo raggi differenti della ruota: quelli riguardanti il cinema, i media, la pubblicità, la società dei consumi e dello spettacolo.

Progettata da un collettivo di giornaliste, scrittrici, fotografe, effe fu tutt’altro che una rivista artigianale, intendeva anzi portare la provocazione e la sfida del femminismo nel cuore del campo editoriale, della stampa, dei rotocalchi e dei magazine (Paoli 2004, Cambria 2010). Effe seppe sfruttare con una certa accortezza l’ambiente mediatico e si impose provocando con un’agenda tematica e visiva che costò alla rivista, dopo il numero zero, la rottura del contratto con l’editore milanese Franco Angeli, rimpiazzato di lì a qualche mese dall’editore De Donato (Cambria 2010, pp. 196-200). Le sue copertine, a partire dalla prima, che ebbe larga eco mediatica [fig.1], ci permettono di entrare immediatamente in tema riguardo alle politiche della corporeità.

La rivista si presentò a lettrici e lettori con l’immagine graffiante e divertita di un uomo-oggetto, un piacente maschione in pelliccia, accompagnata da una breve didascalia: «Chi è costui? Assolutamente nessuno. È l’equivalente delle donne seminude che si vedono sulle copertine dei rotocalchi» (per approfondimenti: Cambria 2010, p.197 e Iamurri 2017, p. 138). È questo un ottimo esempio del discorso sulla corporeità sviluppato da effe, che dispiega una pars destruens fatta di strategie parodiche e grottesche utili a straniare e provocare consapevolezza e senso critico (per approfondire e per il controcampo della pars costruens, cfr. Gandolfi 2018).

La rivista individua lo sfruttamento e la mercificazione del corpo e dell’eros femminile e smaschera gli stereotipi di genere e la sessualizzazione dei ruoli in ogni ambito dell’industria culturale. Mancando qui lo spazio per un’analisi puntuale, basti dire che reportage, cronache e lettere, figure e immagini – memori forse della lezione di Barthes in Miti d’oggi, riadattata secondo la prospettiva della soggettività femminile – prendono di mira con verve dissacrante tanti prodotti mediali. La stampa quotidiana e periodica innanzitutto, dai rotocalchi popolari femminili come Cosmopolitan, ai fumetti per adulti e ragazzi (G. Di Prospero, ‘Fumettacci. Porno-sesso, tortura e stupro’, effe, a. II, n. 3, 1974, pp. 44-45), ai periodici alternativi di cultura come Linus: persino Crepax, ragiona un gruppo di liceali, ricorre «a un uso compiaciuto, gratuito e consumistico del corpo della donna» (effe, a. IV, n.3, 1976, p. 45). La denuncia del nudo femminile erotizzato coglieva nel segno di quell’uso ossessivo del sesso da parte dei media, che di recente Giovanna Maina ha sintetizzato con titolo efficace, Fine anni Sessanta: l’Italia vede nudo (Maina 2018). Oggetto di parodia, denuncia e critica verso usi e abusi della donna-oggetto sono poi il rituale mediatico dei concorsi di bellezza [fig. 2], il festival di Sanremo e la musica leggera, il sistema della moda, il teatro istituzionale e quello d’avanguardia (Gandolfi 2018), i programmi televisivi, la pubblicità… E il cinema, naturalmente.

La scarsa saggistica relativa ad effe ce ne restituisce una memoria legata al teatro più che al cinema, perché la rivista ebbe un legame forte con il principale teatro femminista del decennio, il Teatro della Maddalena, che con essa condivideva la sede di via della Stelletta ed era animato e sostenuto da Adele Cambria, Dacia Maraini, Edith Bruck, Maricla Boggio, Laura Betti e tante altre. In realtà una prima ricognizione permette di affermare che anche gli intrecci di effe con il mondo del cinema furono significativi e non sporadici. Alcune giornaliste del collettivo di redazione avevano alle spalle un percorso professionale speso nella cronaca di costume, si erano occupate dei festival di cinema, dei divi e delle dive, della mondanità culturale e artistica, e misero in campo la loro rete di conoscenze e contatti. È il caso di Adele Cambria, la direttrice dei primi anni (ma si veda anche Iamurri 2017 per quanto riguarda la fotografa Agnese De Donato), che nella sua autobiografia testimonia il mecenatismo di coloro che chiama «le mogli del cinema italiano»:

Cominciammo a cercare soldi per ristrutturare il sotterraneo, umidissimo e fatiscente. I soldi si trovarono, insperabilmente, in un paio di mesi, grazie all’adesione di quasi tutte le ‘mogli del cinema italiano’, animate da una sorta di rivolta coniugale collettiva contro il maschilismo di un certo cinema nostrano. Piovvero assegni quanto ne bastava... (Cambria 2010, p. 197).

Ed effe ricambiò con una puntuale vigilanza ed attenzione verso le scene cinematografiche, che a quanto mi risulta non è ancora stata documentata e ricostruita con un sistematico spoglio. In attesa di un’indagine più organica, mi limito a enunciare una ipotesi di lettura che, grazie al ‘raggio’ del discorso sul cinema, mira al fulcro della ruota che qui interessa: le politiche del corpo.

A quali corpi cinematografici si interessa effe? Nei tanti articoli dedicati al cinema ricorrono due luoghi emblematici del dispositivo cinematografico: lo schermo e la cinepresa. Volendo usare i concetti e la terminologia che Judith Butler ci propone nell’ultimo suo libro apparso in traduzione italiana (a partire da una discussione di Vita Activa di Hannah Arendt: Butler 2017), diremo che schermo e cinepresa sono i due ‘spazi di apparizione’ della corporeità cinematografica femminile continuamente evocati dalla rivista. Vi sono infatti, per ʻeffeʼ, i corpi femminili sullo schermo, i corpi delle dive, i corpi delle attrici e dei personaggi che interpretano: verso di essi, la loro passività, la loro sessualizzazione e/o mitizzazione la rivista esercita tutta la sua pars destruens, prendendo di mira ora il cinema d’autore (a partire dal contributo di A. Cambria, ‘Un antifemminista al mese. Federico Fellini’, a. I, n. 2, 1973, pp. 10-11), ora il cinema politico, ora la commedia all’italiana. E la critica non manca di autoironia: ‘Cinema. Lo schermo è un maschio cattivo’ titola un pezzo a cura di Maricla Tagliaferri dedicato al lungometraggio femminista Io sono mia (a. VI, n. 2, 1978, p. 44).

Effe però costruisce in parallelo, mediaticamente, lo spazio di apparizione per altri corpi e altre voci di donne di cinema: sono gli sguardi e le mani di donna alle prese con la telecamera, sono i corpi delle registe sul set. L’associazione fra cineaste e telecamera è un anello del discorso politico sul corpo che mira a valorizzare l’agency della corporeità femminile nello spazio pubblico.

Si veda a questo proposito la copertina di effe per un fascicolo del 1977 dedicato al cinema [fig. 3]. Nel riquadro centrale, il viso femminile che guarda attraverso l’obiettivo può esser letto come dichiarazione di intenti di dove stiano i corpi cinematografici delle donne: non davanti ma dietro la macchina da presa, una macchina che, tutt’altro che alienante e spersonalizzante, può funzionare da empowerement della soggettività femminile.

Si impone qualche nota di timbro mediologico. La cinepresa immortalata è una Super 8, la tecnologia di registrazione audiovisiva che aveva democratizzato l’accesso al mondo delle immagini, e grazie alla quale si stava diffondendo la pratica dell’home movie. Questa cinepresa leggera facilitò l’appropriazione del mezzo filmico anche da parte delle militanti femministe, che fecero dell’audiovisivo, nel corso degli anni Settanta, media di espressione privilegiato. Non a caso vari rimandi alla tecnica e alla politica della ripresa si ritrovano nei contributi di effe dedicati al cinema. Cosi ad esempio nel 1975 un collettivo di Roma racconta ‘Come nasce un video-tape’ [fig. 4]; l’anno successivo due compagne che propongono ‘la formazione di un gruppo di cinema femminista’ (è il titolo della loro lettera, a. IV, n. 9-10, 1976, p. 44) esortano a non farsi fermare dalla scarsa dimestichezza delle donne con la tecnica e ad adottare l’opzione del «cinema a formato ridotto», le cineprese Super 8, «quelle scatolette che talvolta usiamo durante le vacanze», «facili da usare permettono di realizzare film a bassissimo costo». Le due compagne sono Annabella Miscuglio e Rosy Daopoulo, all’epoca ideatrici di Kinomata, la grande rassegna di cinema delle donne che si svolge a Milano e a Roma nel corso del 1976; in un contributo successivo insistono segnalando che «nel cinema documentaristico e ancor più in quello indipendente l’apparato produttivo non ha la pesantezza della macchina industriale», quindi vi si ritrovano un numero maggiore di registe (‘Kinomata: una storia del cinema al femminile’, a. IV, n.12, 1976, pp. 42-43).

Una testimonianza interessante si ritrova nel ricco dossier sul cinema del 1977 (a. V, n. 4). La filmmaker Maurizia Giusti riflette sulla propria reticenza ad usare la Super 8 («il passo ridotto appartiene per antonomasia alla sfera del privato, e nel privato ci sono anche i padri di famiglia che riprendono il bambino mentre mangia la pappa…») e racconta di averla superata proprio grazie all’autocoscienza, rendendosi conto di quale mezzo di autoepressione potesse rappresentare questa tecnica maneggevole (‘Alle prese con la cinepresa’, a. V, n.4, 1977, pp. 32-33; per il cinema dell’autocoscienza rimando almeno a Filippelli 2011 e a Malvezzi 2017, che già segnalava il ricorso programmatico delle filmmaker alla Super 8).

Non solo la copertina, ma anche varie altre illustrazioni presenti nel dossier sul cinema privilegiano l’associazione attiva fra donne e telecamera e l’immagine dei corpi delle registe sul set. Si vedano a questo proposito la fig. 5 e la fig. 6, quest’ultima raffigurante la regista Elda Mattoli sul set del suo Pianeta Venere, cui la rivista già aveva dedicato un servizio tre anni prima, al momento dell’uscita sugli schermi.

Al discorso visivo fa da contrappunto, nel dossier, una strategia contenutistica e di editing che privilegia il format dell’intervista con le registe e la testimonianza diretta dei collettivi militanti che ricorrono all’audiovisivo (per l’attenzione di effe verso il cinema militante, fin dall’inizio, cfr. Marazzi 2014). Dopo l’intervista a Elda Mattoli vi sono due lunghe interviste a Maj Zetterling e a Danièle Huillet e un incontro col collettivo femminista che sta girando Io sono mia, a partire da un testo di Dacia Maraini e per la regia di Sofia Scandurra. Seguono le testimonianze in presa diretta dal gruppo cinema romano Alice Guy (che cura tutto il dossier), dal Gruppo cinema Arcobaleno, dalle napoletane Nemesiache, di Maurizia Giusti. Di fatto, accanto allo spazio di apparizione visivo di filmmaker e registe, la rivista crea dunque anche un loro spazio di apparizione vocale: fa in modo che sia il corpo che la voce delle registe entrino nel campo mediatico del visibile, dell’udibile, del leggibile.

Sintetizzando potremmo dire che effe costruisce mediaticamente, come controcanto all’immagine della donna-oggetto rappresentata sugli schermi, i corpi e le voci della «donna-soggetto» del cinema, la regista alla cinepresa (proprio così, ‘Cinema: la donna-soggetto’, titolava un precedente servizio di Bruno, Tagliaferri e Tolla sul n. 1, a. V, 1977, pp. 36-37).

Si noti dunque che la dicotomia attivo-passivo, nel discorso sul cinema di effe, si snoda lungo un asse semantico diverso rispetto a quello proposto da Laura Mulvey per l’analisi dei dispositivi della visione nel noto saggio Piacere visivo e cinema narrativo (il soggetto attivo sarebbe lo sguardo maschile, l’oggetto passivo il corpo femminile). Il discorso della rivista contempla l’analisi ma riguarda l’azione, per questo si incardina programmaticamente – in analogia a quanto vanno facendo le filmmaker femministe – intorno a un radicale programma politico, che prevede di andar contro alla passività dell’immagine femminile sullo schermo attraverso un passaggio dall’altro lato della telecamera, dal lato dell’autorialità della visione. In altre parole, la discorsività mediatica di effe riguardo ai corpi cinematografici supporta un tipo di esercizio performativo all’epoca socializzato e plurale, quello del prendere in mano la telecamera: «Ogni mezzo di comunicazione è innanzitutto “tenuto in mano”», ci ricorda Judith Butler, sottolineando la valenza performativa dell’azione del riprendere in contrapposizione al discorso sulla progressiva «disincarnazione della scena pubblica» cui spingerebbero le tecnologie mediali e virtuali (Butler 2017, p. 151). Di mezzo è la questione della regia, ma si tratta di un modo di pensare e declinare l’autorialità che non inclina all’estetica e allo stile, bensì mette in risalto l’agency e la performatività e le lega alla tecnica e alle scene mediali, tenendo in conto i supporti materiali della sfera di apparizione, la loro disponibilità ed evoluzione. È un discorso che ha radici autorevoli, di benjaminiana memoria, ed apre orizzonti politici; per una politica inclusiva di democratizzazione che mira a risignificare la scena pubblica del cinema attraverso la presenza e l’alleanza di corpi e voci non previste dal canone discorsivo, nel caso specifico donne filmmaker e registe.

Sono soltanto poche note, utili, spero, a ripercorrere un’archeologia del discorso femminista sui corpi e sul cinema che mi pare continui a nutrire anche le riflessioni odierne.

 

 

Bibliografia

J. Butler, L’alleanza dei corpi. Note per una teoria performativa dell’azione collettiva [2015], Trento, Nottetempo, 2017.

A. Cambria, Nove dimissioni e mezzo. Le guerre quotidiane di una giornalista ribelle, Roma, Donzelli, 2010.

S. Filippelli, ‘Una cinepresa tutta per sé. La scrittura filmica come diario femminile’, in L. Cardone, S. Filippelli (a cura di), Cinema e scritture femminili. Letterate italiane fra la pagina e lo schermo, Roma, Iacobelli Editore, 2011, pp. 197-218.

R. Gandolfi, ‘Teatro e danza su effe (1973-1982): la rivista come archivio del discorso femminista sul corpo’, Ricerche di S/confine, dossier n. 4 a cura di G. Chernetich, Archivi del corpo, 2018 (di imminente pubblicazione).

L. Iamurri, ‘Agnese De Donato, il movimento femminista e la rivista effe’, in C. Casero, E. Di Raddo, F. Gallo (a cura di), Arte fuori dall’arte. Incontri e scambi fra arti visive e società negli anni Settanta, Roma, Postmedia, pp. 137-144.

G. Maina, ‘Fine anni Sessanta: l’Italia vede nudo’, in Corpi che si sfogliano. Cinema, generi e sessualità su «Cinesex» (1969-1974), Pisa, ETS, 2018.

A. Marazzi, ‘L’aggettivo donna. I primi passi del cinema femminista italiano’, in I. Bussoni, R. Perna (a cura di), Il gesto femminista. La rivolta delle donne: nel corpo, nel lavoro, nell’arte, Roma, DeriveApprodi, 2014, pp. 152-153.

J. Malvezzi, ‘Non so essere regista di me stessa e nemmeno attore. Il cinema dell’autocoscienza delle amatrici italiane’, Arabeschi, n. 10, luglio-dicembre 2017 (in ‘Smarginature: Vaghe stelle. Attrici del/nel cinema italiano’).

L. Mulvey, Visual and Other Pleasures, Bloomington and Indianapolis, Indiana University Press, 1989.

F. Paoli, ‘La controinformazione femminista nelle pagine di effe’, Genesis, a. VII, n. 1-2, 2004, pp. 247-278.