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Fin dalla sua fondazione nel 2013 da parte di tre attiviste, il movimento Black Lives Matter ha visto la capacità organizzativa e comunicativa delle donne al centro di un’onda che oggi riempie le piazze di tutto il mondo. Molte delle immagini che hanno ampiamente circolato durante le recenti proteste, dentro e fuori la rete, avevano la stessa origine: provengono dal flusso di Instagram, create proprio da artiste e illustratrici già attive da tempo sulla piattaforma. Dalle illustrazioni colorate di Laci Jordan (https://www.instagram.com/solacilike/) e Naimah Thomas

(https://www.instagram.com/naimah_creates/) dedicate alle vittime, ai poster queer diUnapologetic Street Series (https://www.instagram.com/theunapologeticstreetseries/) [fig. 1], alle visualizzazioni di dati con protagoniste donne nere di Mona Chalabi (https://www.instagram.com/monachalabi/).

Come sottolinea Victoria Esteves, è ormai innegabile che questo tipo di immagini – e gli immaginari che le sottendono – abbiano ormai travalicato i confini del web per entrare a pieno titolo nel discorso pubblico.

Alcune di queste donne sono artiste più ‘tradizionali’, altre artiste ‘digitali’, alcune sono streetartist, altre sono giornaliste, altre ancora grafiche e designer. Quello che le accomuna è l’aver scelto questa piattaforma per sperimentare un linguaggio visuale nuovo, e anche un nuovo tipo di connessione tra di loro e con il pubblico. E averlo fatto a partire da un sentire comune: la necessità di presa di parola e di creazione di un immaginario in cui l’identità e la lotta politica delle donne nere, fossero, finalmente, al centro, insieme ai loro corpi.

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L’utilizzo di Internet e dei social media è diventato progressivamente centrale per le pratiche di attivismo, soprattutto dal punto di vista della circolazione di istanze politiche ignorate dai media mainstream. In particolare, ai social media e agli spazi digitali può essere attribuito un doppio ruolo: da un lato aiutano a connettere realtà diverse, a innescare reti, e in casi specifici permettono di coordinarsi e dare supporto nei momenti critici della mobilitazione, come hanno dimostrato gli hashtag riferiti alle proteste di Black Lives Matter all’indomani dell’omicidio di George Floyd; dall’altro sono a loro volta strumenti di creazione, a cui affidare l’espressione della propria soggettività politica.

Tenendo presente che «Internet è uno spazio relazionale ambivalente, si configura al tempo stesso come strumento per la sperimentazione di identità e relazioni, e come luogo di controllo e di normalizzazione» (Cossutta et al. 2018, p. 17), si possono attraversare le «tensioni e contraddizioni» della cultura digitale valorizzando la consapevolezza che dietro agli account e ai profili si trovano soggetti socialmente incarnati e situati (Fotopoulou 2016, p. 1). In questo senso i social media sono spazi privilegiati di convergenza tra declinazionifisiche e digitali dell’attivismo, la qualesi manifesta da una parte nel tracimare online delle pratiche offline, dalla condivisione di percorsi alla creazione di reti che oltrepassano i confini fisici, geografici, economico-sociali e diventano potenzialmente globali; dall’altra nella moltiplicazione e circolazione a volte imprevista dei contenuti prodotti dai soggetti che si riconoscono in queste reti e in queste istanze.

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Abstract: ITA | ENG

Questo articolo indaga le opere video degli anni Settanta e dei primi anni Ottanta di Elaine Shemilt. Più generalmente conosciuta nell’ambito della stampa, Shemilt ha iniziato a utilizzare il video nel 1974 come parte delle sue opere di installazione e di performance. L’artista intendeva utilizzare il video – un medium relativamente nuovo in quel periodo – come elemento performativo nelle sue installazioni. A partire da quel periodo, la sua pratica artistica ha veicolato temi femministi e rielaborazioni di esperienze intime e personali. Nel 1984 l’artista ha poi distrutto i suoi videotape degli anni Settanta, considerandoli parte di installazioni  effimere. Le fotografie scattate durante le riprese e alcune serie di stampe  costituiscono l’unica documentazione esistente di quelle opere. Solamente due dei videotape della Shemilt datati ai primi anni Ottanta sono oggi disponibili: Doppelgänger e Women Soldiers, entrambi rimasterizzati nel 2011 nell’ambito del progetto di ricerca Rewind, finanziato dall’ Arts and Humanities Research Council. Questo articolo si basa sui documenti, i video ancora esistenti e le interviste raccolte durante il progetto di ricerca EWVA ‘European Women’s Video Art from the 70s and 80s’, anch’esso finanziato dall’AHRC.

This article explores Elaine Shemilt’s video artworks from the Seventies and early Eighties. Generally known as a printmaker, Shemilt started to use video in 1974 as part of her installation and performance work.  Shemilt aimed to use video - a relatively new medium at the time – as a performative element within her installations. Since that time, her artistic practice has conveyed feminist themes as well as the re-elaboration of intimate and personal experiences. She destroyed her Seventies videotapes in 1984, considering those tapes as part of ephemeral installations. Photographs taken during the shootings and series of prints are the final artwork from those projects and act today as the remaining existing documentation of those videos. Only two of Shemilt’s videotapes from the early Eighties, Doppelgänger and Women Soldiers, are today available. They were both remastered during the Arts and Humanities Research Council funded project Rewind in 2011. This article, based on documents, existing videos and interviews collected during the Arts and Humanities Research Council funded project EWVA ‘European Women’s Video Art from the 70s and 80s’, discusses and retraces Shemilt’s early video artworks.

1. An overview of Elaine Shemilt’s early video artworks

Elaine Shemilt is a world renowned print maker. Her works, including her prints and engravings, have been shown internationally and documented in exhibition catalogues and books.[1]

Nonetheless, little is known about her experimentation and work in the realm of artist’s video and film of the Seventies and early Eighties. This is partially due to the fact that the artist destroyed her video and film works before moving to Scotland in 1984 but it can be seen as part of a more general marginalization of the work of women in the history of artists’ video.[2]

The analysis contained in this article is supported by a literary review of existing critical writings, and artists’ documents and interviews collected during the AHRC funded research project ‘EWVA European Women’s Video Art from the 70s and 80s’.[3]

At the time, several women artists perceived video «as an obvious medium with which to dismantle stereotypical representation and assert the political, psychic and aesthetic evolution of women’s newly raised consciousness».[4]

Commenting on this feminist approach to video, Shemilt explains that «video offered the possibility of addressing new scales and contexts at a time when artists were recognising social change and they were also trying to break down barriers within the disciplines of making art e.g. sculpture and painting».[5]

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