Il tema della maternità, o meglio della messa al mondo, è stato a lungo un tabù nella rappresentazione cinematografica. Nelle produzioni mainstream americane il Production Code Administration, più noto come Codice Hays, vietava esplicitamente ogni riferimento alla gravidanza in quanto processo biologico. Ovvero non dovevano essere visualizzati o accennati nel dialogo cambiamenti del corpo femminile, riferimenti ai dolori e ai pericoli del parto (come la morte della puerpera o del bambino). Un varco nell’irrapresentabilità del parto si apre solo nelle pellicole educative e mediche degli anni Quaranta e Cinquanta, che circolano ben oltre il loro tradizionale spazio di visione fino a lambire i club e le sale dedicate al cinema sperimentale, come ad esempio il ‘Cinema 16’ di New York. Per un verso registriamo la porosità dell’immaginario medico scientifico nei confronti della cultura di massa, per l’altro il recupero di queste pellicole da parte del circuito sperimentale è imputabile sia alla ridefinizione dei circuiti di visione in atto, sia allo specifico interesse del pubblico anticonformista delle sale underground nei confronti di uno sguardo, come quello medico, che sta ridefinendo le forme di visualizzazione del corpo e sperimenta nuove tecnologie della visione. Inoltre, le pellicole di ambito medico-scientifico, parandosi dietro l’esplicita finalità educativa, permettono/promettono al pubblico delle sale underground di muoversi verso territori e argomenti proibiti o normalmente censurati dalla cultura puritana dell’epoca.
Non è un caso che proprio nel circuito sperimentale, Stan Brakhage realizzi Window water baby moving (1959), un film sulla nascita e sul parto della sua primogenita, che incorpora e rilancia quello spostamento dei confini del visibile già in atto nelle pellicole mediche. La pellicola gode di un’ampia circolazione ma la critica femminista, in particolare Amy Taubin, Anne Friedberg, Robin Blaetz, problematizzano l’atteggiamento del regista accusato con gli insistiti piani ravvicinati, i movimenti di macchina e i tagli di montaggio di non lasciare spazio e voce alla compagna Jane, e di trasformarla in un puro oggetto della visione, di feticizzarla. Anche grazie al dibattito nato intorno a Window water baby moving, fioriscono sempre in ambito sperimentale delle ‘risposte’ al femminile, ricordiamo le pellicole Kirsa Nicholina (Gunvor Nelson, 1969), Joyce at 34 (Joyce Chopra, 1972), Misconception (Marjorie Keller, 1977), che provano a inscrivere un diverso punto di vista nell’atto del mettere al mondo. Il cortometraggio di Gunvor Nelson, filmmaker della West Coast di origini svedesi, è sicuramente il meno conosciuto e sarà pertanto il punto di partenza della nostra riflessione.
Nelson aveva già affrontato il tema della gravidanza, una condizione rappresentata in modo diretto, senza sentimentalismi e orpelli, anche nei suoi aspetti biologici più faticosi in Schmeerguntz (1965), la sua prima pellicola. Qui la regista accostava ironicamente attraverso il collage l’immaginario femminile lindo e patinato di Miss America e le riprese amatoriali girate nella propria casa e in quella della collaboratrice Dorothy Wiley, all’epoca in gravidanza, facendo emergere tutte le pressioni sociali e le contraddizioni che investono il corpo della donna moderna. Una riflessione simile, ma più graffiante, sarà alla base del più noto Take Off (1972) dedicato allo strip teaser Ellion Ness, star del Red Hots Burlesque. Nelson ha sempre negato ogni intento femminista nei suoi film, ma le sue pellicole per la sensibilità e l’umorismo con cui descrivono la condizione femminile, hanno spesso suscitato l’interesse e l’attenzione del movimento femminista; come afferma June Gill,i suoi film sono femministi nel senso più ampio del termine, cercano ciò che è originale, istintivo e naturale nel genere femminile: il volto umano nascosto dietro la maschera imposta dagli stereotipi culturali.
Kirsa Nicholina è un birth film, un film sul venire al mondo, e appartiene alla produzione più intima e personale di Gunvor Nelson, nella quale sviluppa un’estetica più asciutta, poetica e sospesa. Prima dei titoli di testa c’è una sequenza che mostra una coppia di amanti in una spiaggia altrimenti deserta. Una panoramica di ampio respiro mostra dall’alto la spiaggia con cani che scorrazzano liberamente e poi la coppia nuda che si gode il sole, la donna visibilmente incinta [figg. 1-2]. Il bagno e la passeggiata abbracciati descrive in maniera semplice ed efficace l’intimità e il sodalizio tra i due. Come in Window water baby moving, il preludio colloca la coppia in un ambiente acquatico e ne descrive la relazione amorosa, creando una cornice interpretativa per il parto che seguirà. Il titolo della pellicola, Kirsa Nicholina, il nome della primogenita della coppia, è sovraimposto all’immagine dei due genitori abbracciati in spiaggia, mentre «a film by Gunvor Nelson» sposta l’azione in interno, dove il volto sofferente della donna definisce immediatamente un cambio di tono, più serrato e teso, legato all’inizio del travaglio. La regista distribuisce la propria attenzione tra la donna già a letto, concentrata nella respirazione, il compagno accanto a lei, la stanza descritta con una veloce panoramica che si sofferma sulla libreria rossa, con fiori e candele accese. Il pancione e le parti intime della donna sono mostrate con naturalezza, come anche la visita del dottore che deve controllare la dilatazione. Nella stanza si vede anche un’altra donna, presente per assistere al parto. Proprio questa presenza ricolloca il parto all’interno di una ritualità domestica e familiare, attutendo la presenza del medico. Il dottore fa partecipare attivamente i presenti al parto, guida il futuro padre mostrandogli come massaggiare le parti intime della compagna per aiutarla, delega l’altra donna alla pulizia delle vie nasali del bimbo, e interviene con mani sicure per l’estrazione della testa e delle spalle. Saranno poi la madre e il padre a completare l’espulsione della neonata, la madre la tiene teneramente per un braccino mentre il padre la aiuta a uscire. La piccola ancora coperta di siero bianco è accolta dalle braccia della madre, il cordone ombelicale le tiene ancora visibilmente legate. Il taglio è compiuto dal padre, sempre sotto l’aiuto e la supervisione del medico, mentre la madre coccola la bambina. Assistiamo poi all’espulsione della placenta. La madre rimane spossata a felice nuda nel letto, chiacchiera con l’atra donna che le tasta l’addome e ridono, il padre culla la neonata accanto a loro.
Come anticipato, in Kirsa Nicholina Nelson rinuncia al linguaggio articolato che combina animazione, riprese amatoriali, fotografia e pittura, ricorrente in altri suoi film, così come alle raffinate sovraimpressioni che avevano caratterizzato My name is Oona (1969). Lo stile prescelto per Kirsa Nicholina è all’apparenza semplice, attinge all’estetica del film di famiglia ma la impreziosisce giocando con il controluce, la sovraesposizione e i lampi di luce che abbagliano improvvisamente lo schermo, in particolare nelle sequenza iniziale in esterno. In questo modo la filmmaker amplia la gamma delle tonalità einscrive la propria presenza nell’ambiente circostante in modo personale. Tipico dello stile di Nelson è invece il ritmo serrato imposto al cortometraggio, ottenuto qui attraverso i fluenti movimenti di macchina e un montaggio sapiente che isola infinite microazioni per poi ricucirle in maniera impercettibile e trasmettere una dimensione del tempo complessivo del parto indefinita e quasi ipnotica. La luce artificiale degli interni, mischiata a quella delle candele accese nella stanza, amplifica questa sensazione di un tempo indistinto e allinea lo spettatore con l’esperienza vissuta della futura madre. Lo sguardo femminile della filmmaker indaga senza reticenza il corpo della partoriente, avvicinandosi e allontanandosi, senza frammentarla in una sequenza di dettagli, permettendole di abitare ogni inquadratura. Inoltre,l’immagine dell’espulsione della piccola è ampia e accoglie al proprio interno il padre e la madre. Molte pellicole in termini di rappresentazione si focalizzano in questa fase solo sulla neonata e sulla sua nascita descritta attraverso piani ravvicinati, rischiando di ridurre l’esperienza del parto ad una ineluttabile cornice. Nelson,con la scelta di un’inquadratura più ampia, narra l’esperienza del suo venire al mondo nella famiglia, dando senso al labour (in inglese travaglio ma anche forza lavoro) materno descritto in precedenza. La sequenza della madre che si drizza a cullare la piccola ancora legata a lei dal cordone ombelicale conferma il ruolo del corpo materno, non involucro ma legame imprescindibile. Nelson, per la concezione che ha della natura come sfera incontaminata che protegge l’individuo dalle stritolanti pressioni sociali e culturali, sa ben valorizzare la figura materna sottolineandone la straordinaria capacità di apertura, mediazione e riconoscimento dell’Altro da Sé, una qualità inscritta nella biologia del corpo femminile che Luce Irigaray in Je, Tu, Nous: Toward a Culture of Difference, definisce in termini di economia placentare («The placental economy is therefore an organized economy, one not in a state of fusion, which respects the one and the other», p. 43). Con estrema naturalezza la filmmaker riscatta il corpo abietto della madre per trasformarlo in metafora del rispetto e della differenza. Ancora, lo sguardo normalizzante della Nelson riconduce i fluidi corporei, spesso associati con orrore all’impurità del corpo femminile, all’elemento acquatico che non a caso apre il film, elemento che sempre Irigaray (Amante marina di Friedrich Nietzsche) rilegge in termini di differenza tra il maschile e il femminile.In questa prospettiva lo stile asciutto della pellicola e lo sguardo poliedrico, attento a non stabilire alcuna gerarchia tra i soggetti, sono in perfetta coerenza con l’etica del rispetto nella differenza che questo racconto della nascita ci propone.
Bibliografia
R. Blaetz, ‘In search of the mother tongue: Childbirth and the cinema’, The Velvet Light Trap, 29, Spring 1992.
A. Friedberg, ‘Misconception = the “Division of Labour” in the Childbirth Film’, Millennium Film Journal, 4/5, Summer/Fall 1979, pp. 64-70.
J. Gill, ‘The films of Gunvor Nelson’, Film Quarterly, 30, 3, Spring 1977, pp. 28-36.
L. Irigaray, Je, Tu, Nous: Toward a Culture of Difference, New York, Routledge, 1993.
L. Irigaray, Amante marina di Friedrich Nietzsche, Roma, Sossella, 2003.
A. Taubin, ‘Discussion between Marjorie Keller and Amy Taubin’, Idiolects, 6, 1978, pp. 28-31.