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In tempi in cui gli studi sui rapporti tra il testo e l’immagine sono sempre più vivaci, nel suo libro L’immagine alla lettera. La letteratura illustrata e il caso Balzac (Artemide, 2023) Silvia Baroni parte da un presupposto quanto mai necessario: non è ancora chiarissimo cosa si intenda per ‘illustrazione’. E in questo senso si apprezza particolarmente quel punto di domanda che arriva nell’introduzione: «è davvero possibile realizzare un’immagine che raffigura in tutto e per tutto quello che leggiamo?» (p. 11). Si tratta, come forse è evidente, di una domanda retorica, la cui risposta è negativa. L’idea che l’illustrazione sia semplicemente aderenza ‘letterale’ al testo (da cui il titolo del saggio), ossia che il suo principale (unico?) scopo sia quello di restituire visivamente la parola scritta, è ormai, secondo l’autrice, obsoleta, un pregiudizio che continua a rendere subalterna l’immagine al testo, quando invece, e già da qualche decennio, «la nostra cultura comune sembra sempre più il prodotto di quello che guardiamo piuttosto che di quello che leggiamo» (p. 17) (secondo il report della sezione Word and Image del National Endowment for the Humanities del 1988, intitolato Humanities in America).

Baroni parte così dall’idea di confutare questo assunto ormai stantio per avvicinarsi a una ipotesi ben più recente e vivace (oltre che condivisa: si veda l’ultimo numero della rivista Between, The Illustrated Fiction between the 19th and 20th Century), ossia che il libro illustrato sia invece un iconotesto, un prodotto ibrido in cui l’immagine e il testo creano un’unità indissolubile e la cui presenza è necessaria in maniera equivalente per comprendere il senso integrale dell’opera. Se l’editoria ci insegna che la storia del libro illustrato è fatta di censure e cassature, e se sappiamo bene che, in quanto lettori, potremmo leggere tutti i libri illustrati anche senza il corredo delle immagini (dalla Commedia dantesca con le illustrazioni di Gustave Doré alla Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini nella sua versione fototestuale del 1953, con le fotografie di Luigi Crocenzi, poi espunte nelle edizioni successive fino alla ristampa anastatica del 2007), è anche vero che «quello che leggeremo in un libro non ci darà la stessa impressione, non ci farà cogliere la stessa comunicazione che viene trasmessa dal libro illustrato: se è vero che l’assenza delle immagini non ci impedisce la fruizione del senso, non è del tutto vero che non ci sia almeno una piccola perdita» (p. 40).

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This article follows the traces of Balzac’s presence in Jacques Rivette’s output and of the complex network of references, allusions and quotations that create a mirror image of the cobweb-like structure of the Comédie Humaine. These traces emerge particularly in three works overtly inspired by Balzac: Out 1, Noli me tangere (1970-71), an experimental film centred on a transposition of the quest of Balzac’s Treize to contemporary times; La Belle Noiseuse (1991) which transposes and partly modifies the narrative of Le Chef-d’Oeuvre inconnu to the present of the filming process; and Ne touchez pas la hache (2007), a costume (and thus ‘literally faithful’) reprise of La Duchesse de Langeais. Out 1 mixes surrealist flânerie to Balzac’s enigmatic narration in order to question the myth of the select group and the psychedelic oneirism typical of the 1960’s. As dramatisations of a novelistic ellipsis, the model’s sittings in La Belle Noiseuse offer Rivette the opportunity to stage the process of artistic creation and, at the same time, to reflect on his work as a filmmaker and on the enormous project of the Comédie Humaine. The «César-style» compression to which he submits La Duchesse de Langeais turns the narrative into an atemporal, metaphysical treatise on a lover’s impasse, as well as into the occasion for a meditation on Balzac’s philosophy and the theatricality typical of the Comédie Humaine. Caught up between reprise and transformation, Jacques Rivette’s films constitute as many re-elaborations that are, to different degrees, impregnated with Balzac’s powerful oeuvre, and thus delineate an original set of forms of assimilation, hybridisation and reinvention of literary texts on screen.

Nell’alternanza di corrispondenze sottili (vaghe allusioni, richiami criptati) e di connessioni manifeste (citazioni puntuali, espliciti rimandi), si tracciano sul corpus filmico di Jacques Rivette traiettorie d’ibridazione referenziale di origine balzachiana, che disegnano, sulla lunga durata, un percorso singolare di assimilazione e reinvenzione cinematografiche del fatto letterario. Il regista realizza, a intervalli regolari di circa vent’anni, tre opere diversamente ispirate alla Comédie Humaine: Out 1, Noli me tangere (1971), film sperimentale ancorato ai postulati dell’estetica seriale che rivisita in modo del tutto inatteso il feuilleton à énigme di Balzac; La belle noiseuse (1991), liberamente tratto da Le Chef-d’oeuvre inconnu; Ne touchez pas la hache (2006), adattamento in costume di La duchesse de Langeais apparentemente rappresentativo di una fedeltà ritrovata verso il romanziere. Le corrispondenze letterarie rivendicate dal regista in questi tre casi specifici trovano eco in ricorrenze enigmatiche che ne percorrono l’intera produzione, rientrando in un arsenale di segni plastici, visivi e sonori di derivazione balzachiana che, se esprimono da un lato la tendenza alla contaminazione di apporti che caratterizza lo stile di Rivette, dall’altro indicano una costante rimeditazione costante dell'opera del romanziere. Una sorta d’impregnazione letteraria diffusa, riconducibile al concetto d’innutrition,[1] presiede al processo combinatorio rivettiano. Il cannibalismo fecondo del regista produce una rilettura personale e innovativa di Balzac, sostenuta dal rispetto che gli viene dalla conoscenza profonda e dall’adesione alla sua opera, smentendo spontaneamente l’idea di trasposizione cinematografica come filiazione lineare dell’opera filmica dalla matrice letteraria.

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