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Conosciuta al pubblico soprattutto per i suoi interventi di Land Art, la statunitense Nancy Holt (1938-2014) è stata un’artista che fin dalla fine degli anni Sessanta ha utilizzato il film e, successivamente, il videotape, per sviluppare alcuni interessi specifici connessi all’approfondimento delle relazioni tra l’osservatore e l’ambiente. Al centro di numerosi lavori di Holt è possibile infatti rintracciare un’attenzione specifica dell’artista verso i meccanismi della visione e della percezione che trasformano le sue opere in dei veri e propri strumenti di riflessione sull’atto del vedere, sulle sue limitazioni e le sue possibilità.

Ancor prima di iniziare il proprio percorso nell’arte, Nancy Holt ha sempre amato viaggiare, sia all’interno che all’esterno degli Stati Uniti, utilizzando la macchina fotografica per indagare l’ambiente esterno, creando alcune interessanti serie fotografiche tra le quali ricordiamo Concrete Vision (1967) e California Sun Signs (1972). Tali lavori evidenziano l’interesse dell’artista per la capacità dell’apparecchio fotografico non solo di saper orientare, incanalare e dunque circoscrivere la visione tramite la messa a fuoco di alcuni elementi specifici della realtà e del paesaggio, finanche i più banali, come ad esempio dei blocchi di cemento o dei pannelli pubblicitari, ma anche di riuscire a creare nell’osservatore una sensazione di disorientamento e di sorpresa che è frutto della limitazione del campo visivo creata dall’inquadratura fotografica. Quest’idea viene ulteriormente sviluppata da Holt nella serie dei Locators, opere che l’artista intende come delle «estensioni della vista, della forma dell’occhio». Si tratta di strutture costituite da un tubo verticale d’acciaio terminante in una sorta di visore monoculare puntato verso l’esterno; nello specifico, il primo Locator creato da Holt viene posizionato di fronte alla finestra del proprio loft newyorkese nel Greenwich Village in modo da inquadrare un dettaglio del mondo esterno ovvero un buco nel vetro di una finestra di uno dei palazzi antistanti lo studio dell’artista. Proprio come farebbe l’obiettivo di una macchina fotografica o di una cinepresa, ma senza la presenza correttiva a livello ottico della lente, il Locator seleziona un dettaglio dell’ambiente esterno facendogli vuoto attorno. Ecco dunque che l’atto di guardare attraverso il visore trasforma quest’angolo di città in un’opera d’arte site-specific e, allo stesso tempo, da esso scaturisce una sorta di visione vergine del paesaggio urbano, un’epifania di elementi ordinari che improvvisamente acquistano rilievo alla nostra percezione per solo il fatto di essere inquadrati e resi, così, visibili. Il Locator fa sperimentare all’osservatore la sensazione disorientante di vedere la realtà come se la si osservasse per la prima volta: lavorando entro i limiti della visione e dunque restringendo la nostra visuale a un singolo brano di realtà è possibile estendere – paradossalmente – la nostra percezione dell’ambiente esterno.

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Negli anni Settanta molte artiste cambiano radicalmente il loro modo di pensare e fare arte adottando un approccio intermediale, non inteso come un processo mirato all’ottenimento di un’opera finita, bensì volto a un duplice percorso di conoscenza, ma teso da un lato all’analisi delle immagini e delle loro pratiche di produzione, dall’altro alla scoperta delle motivazioni profonde all’origine del proprio processo creativo, indipendentemente dal medium di volta in volta adottato. Le pratiche sperimentali di Valentina Berardinone sia nel campo delle arti plastico-grafiche che in quelle audiovisive sono in questo senso esemplificative.

Attraverso una metodologia d’indagine non solo interdisciplinare ma «transarchivistica» (Cavallotti - Virgili 2016; Cavallotti 2019) – volta cioè a mettere in relazione e rendere accessibili documenti, sculture, disegni e fonti audiovisive, talvolta inedite, provenienti da differenti corpus archivistici (Archivio Galleria Milano, Archivio privato di Valentina Berardinone, e Archivio Home Movies) – questo primo breve contributo si propone di iniziare a rileggere i temi centrali nella produzione dell’autrice alla luce dei nuovi materiali emersi dall’incontro delle nostre ricerche.

A partire dal libro d’artista L'arte dell'immagine. A mia immagine e somiglianza, una sorta di diario personale e al contempo un raffinato compendio poetico, emergono una serie di elementi ricorsivi di tutto il lavoro di Berardinone. In questo storyboard alla rovescia i disegni ottenuti ricalcando i fotogrammi dei suoi film così come le tracce delle sue sculture, rendono evidenti una serie di passaggi mediali volti a catturare l’origine interiore di una idea visiva, del «desiderio» di catturare un’immagine nel movimento «incessante» del mondo (Berardinone 1978, s.p.).

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Il percorso di Irit Batsry è caratterizzato da un costante movimento fra luoghi, attività, tematiche e modalità di sperimentazione con l’immagine elettronica ma anche al confine con la fotografia e con il cinema, indagato in molteplici aspetti, fino alla matericità della pellicola usata e trattata in vari modi.

Nata nel 1957 a Ramat Gan in Israele, famiglia di origine irachena, dal 1983 Batsry si è spostata a New York (negli ultimi anni vive anche a Lisbona). Protagonista della scena videoartistica internazionale, il suo percorso nomade si snoda fra paesi e continenti e fra varie arti, sperimentazioni e attività. Pluripremiata, residente per creazioni e ricerche anche in Brasile, Francia, Italia, Canada (ha esposto in oltre trenta paesi e sue opere sono conservate, fra gli altri, al MoMA di New York e al Reina Sofia di Madrid) rivela nella sua opera – realizza video dal 1982 – un’attenzione alle questioni dello sguardo e dell’identità, un dialogo con alcuni cineasti e cineaste della modernità ma anche con artisti e artiste e con le loro poetiche e le loro riflessioni, e un uso di forme narrative e poetiche non canoniche e talvolta al confine col documentario e col video-saggio. Dalle sue opere ha anche tratto grandi fotografie esposte in gallerie d’arte.

Batsry ha studiato in Israele, all’Accademia di Belle Arti di Gerusalemme (dopo un apprendistato alla ceramica in un kibbutz). Qui si è dedicata all’autoritratto fotografico, e nello scivolare verso il cinema (non presente però in Accademia) si è iscritta a un corso di arte video. All’attenzione per forme e materiali, nella parte laboratoriale e creativa del proprio percorso formativo, si è intrecciata così una curiosità tecnica per le attrezzature presenti in Accademia: senza timore, e con la stessa attitudine artistica e una manualità esploratrice e creativa, la giovane Irit si mette a testare in solitudine la versatilità del video e, come avevano fatto i pionieri della videoarte, che allora lei non conosceva, inizia a sperimentare da autodidatta effetti, temporalità, fluidità dell’immagine elettronica. Questa duplice attitudine (manualità e sperimentazione tecnico-espressiva) si trova unificata dalla cifra dell’attenzione ai materiali, che siano creta o carta o l’immagine stessa, che per quanto evanescente e sfuggente come quella elettronica può essere trattata, modellata come Irit faceva con la ceramica, ricreata. Vedremo come questa artista, partita dal lavorare su materiali ‘concreti’, del resto mai abbandonati nei decenni successivi, operi oggi quasi prevalentemente sul dialogo fra oggetti (dalla pellicola a pannelli trasparenti) e luce, sulla soglia fra fotografia, cinema, arti plastiche. Del resto l’attenzione alle mani, al gesto, al fabbricare, è frequente anche nella sua opera più importante, These Are Not My Images (2000), con riferimenti espliciti al rapporto fra gesto quotidiano e costruzione del film. Qui alla sequenza della manipolazione della pellicola da parte di uno dei personaggi (la storia narra dell’espropriazione e centralizzazione di ogni ripresa da parte di un potere centrale, e della clandestina resistenza) si affiancano tanti diversi gesti: costruire un film, fabbricare un oggetto. Una punteggiatura fatta di mani che dipingono, vangano, lavano animali, inchiodano, scopano cortili, pettinano fibre, intrecciano capelli e reti, spargono acqua sui fiori e sciacquano panni variopinti. [fig. 1]

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Identità e rappresentazione sono temi dominanti nella produzione delle pioniere della videoarte negli anni Settanta e primi anni Ottanta.

Il video si configura come un mezzo leggero, agile sia da un punto di vista concettuale, – perché libero dal pesante retaggio patriarcale delle tecniche tradizionali – sia da un punto di vista tecnico – perché non richiede una crew e i lunghi tempi dello sviluppo come il film e con la commercializzazione del Sony Portapack diviene per di più portatile.

Offre dunque l’opportunità di sperimentare corpo e immagine in modo intimo e diretto e innovare il genere dell’autoritratto e del ritratto.

La metafora del video/specchio, presente già in autori quali ad esempio Renato Barilli (1970), viene esplorata in profondità nel noto contributo The Aesthetics of Narcissism di Rosalind Krauss (1976, p. 52):

 

 

Benché la teoria della critica americana non sia scevra da connotazioni negative di genere legate alla teoria del narcisismo freudiano – questa metafora non è priva di una certa suggestione: per molte pioniere, il video diventa specchio per ri-flettere, esprimere e mettere in discussione paradigmi obsoleti di rappresentazione e reinventare un genere artistico, in dialogo con pratiche femministe contemporanee quali la performance art e l’installazione.

L’uso dello specchio, con il suo simbolismo e la sua profonda tradizione nel ritratto, ricorre in diverse opere che esplorano dichiaratamente o meno identità e rappresentazione.

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Nell’estate del 2018, Giusy Calia decide di realizzare un progetto che ha in cantiere da tempo, quello di ‘mettere in movimento’ alcuni scatti fotografici presenti nel suo archivio. Secondo Calia, infatti, alcune foto da lei scattate non avevano ancora esaurito il loro potenziale narrativo; solo con l’aggiunta del suono e del movimento avrebbero potuto continuare a comunicare.

In questa spinta a riprendere alcuni dei suoi scatti per aprirli alle possibilità fornite dal medium video (in una genealogia del rapporto tra immagine statica e immagine in movimento che ha lontane radici), l’artista sembra dialogare con il noto concetto di punctum teorizzato da Roland Barthes. Secondo il semiologo francese, il punctum di una fotografia «è quella fatalità che, in essa, [mi] punge (ma anche [mi] ferisce, [mi] ghermisce)» (Barthes 1980, p. 28). Insomma, un elemento che cattura lo sguardo e trova espressione nel campo magmatico, e difficilmente definibile, delle emozioni – «ciò che io posso definire non può realmente pungermi. La impossibilità di definire è un buon sintomo di turbamento» (ivi, p. 52). Mi sembra di aver ravvisato nel procedere di Calia la stessa spinta, la stessa presenza di un aspetto pungente che turba e muove alla ricerca di un «campo cieco» (ivi, p. 58) da esplorare.

Giusy Calia (Nuoro, 1971), comincia a fare foto all’età di quindici anni quando le viene prestata la prima macchina fotografica. Il primo luogo che sceglie è l’inceneritore di Nuoro, abitato da spazzatura e gabbiani e preferito proprio per il fascino che in lei esercitano gli spazi solitamente scartati e ritenuti non degni di essere fotografati. È dunque in quel disordine che decide di realizzare i suoi primi scatti. L’interesse non era quello di documentare una data realtà, ma di fissare uno spazio e un tempo. Per dirla con le parole di Susan Sontag: «fare una fotografia significa avere interesse per le cose quali sono», catturarne quindi l’essenza ed «essere complici di ciò che rende un soggetto interessante e degno di essere fotografato» (Sontag 1973, p. 12).

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Experimental cinema has always been an art form in which women have excelled

Robin Blaetz, Women’s Experimental Cinema

 

La prevalenza del cinema narrativo sulla produzione sperimentale riguarda sia l’entità delle produzioni che l’elaborazione critica e storiografica; il cinema sperimentale è un fenomeno sotterraneo ma trasversale, che interseca diversi linguaggi e media visuali. Questa dimensione marginale e controculturale ne fa un settore in cui è possibile riscontrare più frequentemente una presenza femminile: alcuni dei più celebri esempi di film sperimentali sono il frutto della ricerca di artiste e filmmaker che operavano in circuiti indipendenti. Sono gli «spazi di una nuova e dirompente soggettività femminile» (Simi 2016, p. 298) a costituire l’orizzonte di nuove formule compositive fuori norma, all’intreccio fra identità collettiva e personale. Questo articolo tenta di raccontare l’opera di tre artiste contemporanee offrendo una lettura contestualizzata del loro lavoro: Kelly Egan, Rosalind Fowler, Esther Urlus.

Innanzitutto, una realtà estremamente interessante nel panorama audiovisivo contemporaneo è sicuramente quella dei laboratori d’artista entro cui queste filmmaker operano, poiché rappresenta un’occasione per sperimentare con il corpo del medium e riflettere sulla sua materialità. Difatti, questi laboratori rappresentano il luogo della riattualizzazione performativa della pellicola, secondo un approccio relativo all’archeologia dei media come pratica sperimentale. Sebbene i contemporanei spazi laboratoriali nascano con intenti ed ideali differenti, essi sono accomunati, da una parte, dalla volontà di guardare al futuro della vita materiale del film e, dall’altra, da quella di conservarne il passato e prolungarne la vita. Ed è proprio qui che attecchisce l’archeologia dei media:

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Nel 2006, in seguito alla diagnosi di un carcinoma ovarico, Barbara Hammer (Feminist filmmaker and pioneer of queer cinema, come dichiara il sito della sua Fondazione) inizia un oneroso percorso terapeutico, che affronta tenendo con sé la telecamera e andando così a realizzare il film A Horse is not a Metaphor (2008). L’opera, tra letto d’ospedale e spazi naturali dove vive i momenti fra un ricovero e l’altro, si offre nella sua potenza visiva come viaggio esistenziale e testimonianza di un’idea di cinema come strumento di riconoscimento di sé nel mondo. Esistenza che sa sì di lotta (i brevi capitoli che ritmano il film con le sedute di chemioterapia sono significativamente intitolati round), ma soprattutto vocazione alla sperimentazione, restituita da tutta la sua storia artistica, in cui è evidente la volontà di mettere al centro del quadro sé stessa.

Cinema come strumento di pratica del mettersi al mondo, di nascita e rinascita, linguaggio per definirsi e definire, modo con cui riconoscersi e riconoscere visibilità. Visibilità che comincia e finisce con il corpo, centralità sfrontata che si impone già nel 1974 con Dyketactics (con cui mette a fuoco la strettissima connessione tra sessualità e pratica artistica omosessuale, procedimento che la porta a parlare di un processo di riconoscimento cinestetico). La manifestazione corporale colpisce nel lavoro della regista, femminista e lesbica, la cui ricerca visuale è costante affermazione di sé (fisica, intellettuale, politica, erotica), cui giunge indagando nella dicotomia: visibilità/invisibilità, presenza/assenza, solidità/trasparenza, interno/esterno, consistenza/inconsistenza, in sintesi essere/non essere. La ricerca dentro al contrasto diventa esplorazione artistica (sovversiva e ironica) con cui si rende visibile il percorso di vita: il proprio e anche – vocazione politica militante di chi ha preso parte ai movimenti tra anni Sessanta e Settanta – quello delle lesbiche. È un percorso che ha quindi forse anche il senso del risarcimento: come altrimenti leggere il trittico ‘archeologico’ composto da Nitrate kisses (1991), che assembla sequenze da film di finzione, vecchi documentari detournati, riprese di vita contemporanea in cui le immagini di coppie gay e lesbiche si intrecciano con quelle di Lost in Sodom (cortometraggio sperimentale del 1933, il primo film gay della storia), Tender fictions (1995), creazione colta e autoironica della propria autobiografia, che realizza attingendo anche a immagini di archivio, non solo personali, e History Lessons (2000). Qui, partendo dal fatto che la rappresentazione lesbica, almeno fino agli anni Settanta, non esiste, la regista – sottolineando l’operazione archivistica (Hammer è una appassionata ricercatrice) – rintraccia materiali sulle donne girati nel passato, ovviamente da uomini, e le monta creando una nuova sovversiva organizzazione narrativa, sottolineata da interventi anche sonori (su tutti si ricorda la formidabile manomissione vocale all’inizio del film, in cui grazie al doppiaggio vediamo e ascoltiamo la first lady Eleonor Roosvelt [fig. 1] rivolgersi alle donne del pubblico di una conferenza sostituendo alla parola ‘donne’, ‘lesbiche’): strategia formale che porta alla modifica radicale del senso delle immagini che, stravolte e ricomposte con ironia e sarcasmo queer, diventano racconto e testimonianza della realtà delle lesbiche prima di Stonewall. «La storia non dovrebbe appartenere soltanto a quelli che la fanno, ma anche a coloro che non l’hanno fatta e la rifanno. La storia è viva e può essere cambiata con un pezzo di carta ritrovato, una vecchia fotografia, un ricordo. Ogni oggetto culturale, ogni ricordo personale, ogni sogno e visione del futuro può essere considerata storia». L’affermazione si collega al progetto web Lesbians in Cyberspace, per la costruzione di un archivio collettivo di memorie, visioni, frammenti di sé, riprese, disegni, fotografie, musica, così che le lesbiche prendano spazio nel mondo e, anche attraverso il nuovo mezzo, si rendano visibili, esistano. L’operazione (che rimanda anche alle sue produzioni volte alla valorizzazione di artiste lesbiche emarginate dalla storia ufficiale) testimonia la volontà di dare corpo alle donne omosessuali creando immagini che testimonino il loro passato, visualizzandone l’esistenza antecedente il suo essere nominata e riconosciuta. Questa esigenza di affermazione di visibilità passa sempre attraverso i corpi: nessun intento puramente teorico-proclamatorio è del cinema di Hammer, che predilige dichiarazioni di lotta e di accusa ironiche e provocatorie, con un senso tutto queer che emerge anche nelle sue opere ‘archivistiche’ (in cui gioca, manomette e stravolge i piani temporali creando quindi anche un ‘tempo queer’). Di corpo e di corpi sono sature le inquadrature selezionate dalla regista per le sue lezioni di storia: donne che praticano sport, che fanno campeggio o si impegnano in esercizi militari, che passeggiano conversando, che cantano, che danzano e amoreggiano (e cadono vittime di violenza maschile), ma anche impegnate in esplicite performance erotiche e pornografiche (tratte dai primi stagfilms).

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I became both a lesbian and artist when I was thirty, so I always saw my thirties as my adolescence. This was my time for growing up as a woman in the world - a woman relating to women, a woman relating the world, and making art

Sono diventata sia lesbica che artista quando avevo trent'anni, quindi ho sempre visto i miei trent'anni come

la mia adolescenza. Questo era il mio

momento per crescere come donna nel mondo - una donna che si relaziona con le donne, una donna che racconta il mondo e fa arte.

Coming into Our Fullness: On Women Turning Forty, 1991

 

As an experimental filmmaker and lesbian feminist, I have advocated the radical content deserves radical form. Come regista sperimentale e femminista lesbica, ho ritenuto che il contenuto radicale meritasse una forma radicale

The Politics of Abstraction, 1993

 

1. A lesbian Aesthetic

Barbara Hammer (1939-2019), pioniera e ironica riot del cinema lesbico e di ricerca di secondo Novecento, è stata prolifica e volitiva regista di cinema sperimentale e d’esperienza a partire da sé, nel corso del suo cinquantennale lavoro creativo, imponente per numero e varietà di contenuti e di elementi. [fig.1]

A partire dalle sue produzioni di corti dalla fine degli anni Sessanta e primi Settanta, sul corpo desiderante, fuori dai tabù sessisti ( I Was/I Am, 16mm, B/N, 1973, 7’; Dyketaksis, 16 mm, Colore, 1974, 4’; Multiple Orgasm, 16mm, Colore,1976, 6’ muto; Women in Love, 16mm, Colore, 1976, 25’; Double Strength, 16mm, Colore, 1976, 16’), si è impegnata all’emersione video narrativa femminista del corpo erotico lesbico, emersione gioiosa, in ricerca di altre visioni e condivisioni; il linguaggio filmico è di sperimentazione; le sue narrazioni ad alto tasso ‘emotivo/esplosivo’ de/ri-costruiscono storie giocando attivamente con gli immaginari (Nitrate Kisses, 16mm, B/N, 1992, 67’; Tender Fiction, 16mm, Colore, 1995, 58’; The Female Closet, video, Colore B/N, 1998, 58’; History Lessons, 16mm, Colore, 2000, 66’). Corpi, contiguità, spazi e tempi e vite in visioni distoniche, ironiche, poetiche, in dettaglio ed in cornice o in campo aperto per altre geografie ed architetture. Sempre a partire da un’emersione emozionale. Vedere, Sentire, Tracciare, Toccare, Segnare, con il corpo e le sue attenzioni, ridisegna i confini, le fisicità e le visività, riempie o riapre inquadrature e cinestesie. Il senso dell'erotico nella creazione artistica è un senso di lealtà a sé, di completezza e di costruzione, di opera che si fa con pienezza di essere: la sessualità non è scollegata dalla visività e dalle rappresentazioni. Le informa. Art and politics go hand in hand. La rappresentazione visiva fuori canone nel suo lavoro sperimentale e non lineare dei suoi film e video si accompagna sempre, sin dall’inizio, a performance, installazioni, scritture e immagini che convergono nel suo lavoro di decostruire artisticamente quanto oggettivizzato e chiuso, per portare a visibilità quanto oscurato nelle narrazioni. [fig. 2]

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Je me suis beaucoup expliqué en parlant des autres

Agnès Varda

 

L’opera di Agnès Varda (1928-2019) non è stata ancora considerata nella sua vasta ricchezza riguardo alle forme sperimentali. Tra fotografia, video-arte, film di finzione e documentari, cortometraggi, lungometraggi e film a episodi, l’attività creativa di Varda rappresenta, come ha sottolineato Veronica Pravadelli, una poliedricità che è senza dubbio un tratto autoriale importante e probabilmente ancora poco esplorato. La sperimentalità in lei è legata a due valori sostanziali del suo metodo di lavoro: il senso di libertà che ispirano i suoi film e la dimensione soggettiva che li attraversa, legata alla scrittura del sé. La prima sarebbe avvolta a quello che Imma Merino ha chiamato un sentimento di estraneità: la non appartenenza di questa regista autodidatta a nessuna corrente, scuola, circuito commerciale né canonico. La seconda, intimamente connessa alla prima, riguarderebbe il peso del suo sguardo individuale, da donna autodefinita come militante gioiosa, sia sul mondo sia sull'atto creativo [fig. 1].

All’interno della sua opera filmica documentaria, genere prediletto e rappresentativo di una vocazione più fotografica che cinefila, Varda compone un mosaico di tratti personali e autoriali che impregnano le immagini della sua presenza come soggetto creativo. Dalle metafore della gravidanza in L’Opera-Mouffe (1958) a quelle della morte in Visages villages (2017), il racconto di vita della cineasta percorre la sua produzione artistica nelle forme diverse dell’immagine filmica. Una scrittura del sé che concepisce il registro del momento vitale sempre in dialogo con le forme della creazione e che attira l’attenzione verso l’analisi di pratiche sperimentali come il riciclo delle proprie immagini (Les glaneurs et la glaneuse, 2000; Les plages d’Agnès, 2008), l’uso dello spazio privato come ambiente performativo (Daguérreotypes, 1975), o l’importanza del corpo e della memoria sia come materiale di creazione sia come frontiera fisica e simbolica fra l’identità della cineasta e il mondo che desidera documentare.

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