La fortuna transmediale delle opere di Goliarda Sapienza ha registrato una forte impennata, probabilmente per effetto del centenario celebrato nel 2024, e così nel breve scorcio di qualche anno è possibile annoverare una serie di traduzioni che rimettono in gioco la vis della sua scrittura. Tralasciando i tentativi più sperimentali, non privi di un certo interesse ma difficili da pedinare e inquadrare, questo contributo prova a fare i conti con le riduzioni più compiute, che hanno raggiunto un grado di maturità e di diffusione tale da accreditarle come testi a tutto tondo. Si tratta di una serie televisiva, uno spettacolo teatrale e un film, capaci di riattivare alcuni dei capitoli dell’autobiografia delle contraddizioni, ambiguamente in bilico tra cronaca, invenzione, testimonianza.
1. Riscrivere la gioia, dalla pagina al piccolo schermo
Secondo la prospettiva teorica di Linda Hutcheon, l’adattamento è una forma di ri-mediazione[1] e di ri-scrittura: un’opera seconda, ma non secondaria, che interpreta e reinventa la fonte attraverso un nuovo linguaggio.[2] In quest’ottica, la serie L’arte della gioia diretta da Valeria Golino si afferma come riedizione, a distanza di anni, di un’opera secondo criteri rinnovati. Non si limita a mostrare il romanzo, traducendolo semplicisticamente, ma ne rielabora profondamente l’architettura narrativa e l’immaginario simbolico.[3]
Opera fiume e visionaria, L’arte della gioia si è imposta negli anni come un oggetto letterario anomalo: un romanzo di formazione che è anche un trattato politico, una Bildung quadripartita, femminista, anarchica e queer ante litteram.[4] La dichiarazione di Valeria Golino riflette un personalissimo percorso di scoperta, riscoperta e maturazione nel suo rapporto con Goliarda Sapienza e con il suo romanzo.
Ho conosciuto Goliarda Sapienza a 18 anni, quando stavo girando un film con Citto Maselli, suo ex marito, e dovevo perdere l’accento napoletano: mi portò da lei perché mi facesse da coach. Andavo a casa sua due volte a settimana e Goliarda, catanese, scrittrice ma anche attrice e donna dai mille talenti, mi insegnava la cadenza romanesca. La vedevo quindi sempre in versione casalinga: vestaglia, capelli arruffati, tante e tante sigarette accese. E un sorrisone che si apriva a grandi carezze sulle guance. Mi incuriosiva e mi intimoriva al tempo stesso. Ero davvero piccola e ho il rammarico di non averne intuito la grandezza.[5]
Il suo incontro giovanile con l’autrice avviene in un contesto intimo e quotidiano, domestico, in cui Goliarda appariva nella sua dimensione più informale. L’osservazione sulla propria incapacità, da ragazza, di coglierne la grandezza sembra riecheggiare le stesse reticenze editoriali che per anni hanno ostacolato il riconoscimento del romanzo. Solo con il tempo, da adulta, Golino è riuscita a riscattare questa mancata comprensione, quasi a riflettere in sé il travagliato destino editoriale dell’opera.
Era spaventoso fare questa trasposizione dal libro. Inizialmente volevo farne un film, ci abbiamo lavorato per mesi senza riuscire a trovare la quadra, perché il libro racconta tantissime cose: la disobbedienza di Modesta e quella letteraria di Goliarda Sapienza. Riuscire a farne qualcosa che avesse un senso compiuto dentro un film era difficile, abbiamo deciso quindi di farne una serie.[6]
L’adattamento seriale, articolato in sei episodi e presentato nel 2024 a Cannes, è un tentativo coraggioso di trasportare questa materia narrativa debordante in una grammatica visiva contemporanea, mantenendo vive la radicalità e la disobbedienza che percorrono ogni pagina del testo. Ma Sapienza non è solo la storia della disobbedienza di Modesta, è anche un atto di ribellione letteraria, un testo che sfugge alle categorie tradizionali e che per decenni è stato respinto dall’editoria. La difficoltà iniziale nel condensare la complessità del romanzo in un film ha portato alla scelta più adatta della serialità, che consente di esplorare meglio la stratificazione di temi e personaggi.
Tante volte mi hanno chiesto di interpretare Modesta, la protagonista, ma nessun progetto – forse perché troppo scabroso – è mai andato in porto. Quattro anni fa ho saputo che i diritti si erano liberati: Angelo Pellegrino, compagno di Goliarda, ha preferito il mio gruppo, a patto che fossi coinvolta anch’io sul set. Non potendo più interpretare Modesta, ho deciso di fare la regista. Senza sapere a cosa sarei andata incontro. È una bestia a cinque teste che cerchi di cavalcare e che cerca di allontanarti, come in una corrida, con un’incredibile implicazione di storie e stili e una matassa di immaginario disobbediente. Con gli altri sceneggiatori abbiamo impiegato tre anni per scrivere la prima delle quattro parti che, suddivisa in sei episodi, sto montando.[7]
Modesta, interpretata da Tecla Insolia si pone, infatti, come una personaggia densa e plurale, che attraversa la prima parte del secolo scorso con le sue rovine affermando anche con violenza la propria autodeterminazione. Non si tratta di una semplice trasposizione visiva: il corpo di Modesta, la sua voce che racconta, rifiuta, dichiara, diventa il luogo in cui la letteratura si fa carne, gesto, ritmo, politica.
Uno degli aspetti più riusciti dell’adattamento emerge proprio dalla capacità di restituire la ‘performatività’ propria della scrittura di Sapienza. La parola, nel romanzo, è sempre anche corpo, scena, movimento. Golino raccoglie queste potenzialità trasformando la serie in un teatro di sguardi, posture, luci, ombre e silenzi che costruiscono il mondo interiore di Modesta, al di là del solo discorso verbale. L’uso calibrato della voice-over, espediente alternato a lunghi silenzi o sguardi in macchina, restituisce alla protagonista il potere del racconto, senza scivolare in una spiegazione didascalica. La colonna sonora incalzante, i tagli di luce, la regia scomposta ma misurata contribuiscono a evocare quel senso di libertà narrativa che contraddistingue il testo originale.
Dal punto di vista della struttura, la serie compie l’inevitabile scelta di «distillazione della trama»:[8] la narrazione segue un arco cronologico meno lineare rispetto al romanzo, alcuni episodi o personaggi sono stati eliminati o ridotti, altri vengono introdotti in questa nuova versione per dare a Modesta un nemico più tangibile nelle creature di celluloide dell’autista Rocco e della compagna di convento Ilaria. Tuttavia, tali scelte non compromettono l’identità profonda del testo, che viene comunque trasposta in immagini, senza tradire la sua complessità. Il rapporto con la sessualità, la maternità, la politica, la spiritualità, viene mantenuto nella sua ambiguità e nella sua carica sovversiva. L’adattamento preserva soprattutto la vocazione vitalistica ed eversiva di Modesta: la sua capacità di attraversare i ruoli, di reinventarsi, di volere la vita quando ‘loro’ volevano Dio e «rubare la sua parte di gioia a tutto e a tutti».[9]
L’operazione di Golino, dunque, si avvicina all’idea di adattamento come gesto politico. Se nel romanzo Sapienza rivendicava il diritto all’autonarrazione nonostante la marginalizzazione editoriale, nella serie Golino afferma la libertà di una rappresentazione di soggettività femminili non concilianti, non pedagogiche, non edificanti.[10] L’adattamento diventa così una forma di alleanza tra autrice e regista, tra letteratura e narrazione audiovisiva, tra passato e presente. Il personaggio di Modesta, rivestito di un nuovo corpo e di una nuova voce, viene riconsegnato al pubblico come archetipo contemporaneo, un «frick»,[11] soggetto plurale e irregolare, «una perla barocca»,[12] icona radical queer.
È significativo osservare come la serie giochi sul confine tra messa in scena e testimonianza. Come già nella scrittura di Sapienza, anche qui il patto finzionale si mescola con l’elemento autobiografico e performativo. La voce narrante, i monologhi interni, l’evocazione dei ricordi, il confronto con le genealogie, materne e culturali: tutto contribuisce a trasformare la narrazione in un racconto esistenziale e collettivo. La Modesta della serie non è solo il doppio di Goliarda Sapienza, ma il doppio di tutte le donne che hanno cercato – o cercano – di affermare il proprio desiderio nel cuore delle istituzioni: la famiglia, la chiesa, lo Stato.
L’arte della gioia di Golino è un adattamento che non addomestica, non edulcora, non normalizza: al contrario, rilancia l’eccentricità del testo, aprendola a nuove generazioni di spettatori e spettatrici.
2. Il filo di mezzogiorno dal romanzo al palcoscenico
Il secondo momento di questa analisi è dedicato all’adattamento teatrale del Filo di mezzogiorno, sceneggiato da Ippolita di Majo e diretto da Mario Martone, con Donatella Finocchiaro e Roberto De Francesco nei ruoli principali. La drammaturgia nasce come ‘ri-scrittura’ dell’omonimo romanzo di Goliarda Sapienza, opera che occupa un posto centrale nell’Autobiografia delle contraddizioni. Pubblicato per la prima volta nel 1969 da Garzanti e successivamente riedito da La nave di Teseo (2019), il testo è oggi considerato il secondo capitolo – dopo Lettera aperta (1967) – di quel percorso autobiografico che Sapienza ha intrapreso attraverso la scrittura come forma di cura e rinascita.[13]
A differenza del romanzo di finzione esaminato nel primo paragrafo, Il filo di mezzogiorno è profondamente ancorato alla vita vissuta, tanto da costituire una sorta di documento psichico. Nasce dall’esperienza traumatica del ricovero psichiatrico e del trattamento con elettroshock cui l’autrice fu sottoposta nel 1962, seguito da un percorso analitico con lo psichiatra Ignazio Majore. È proprio quest’ultimo, nella sua ambivalenza salvifica e distruttiva, a incarnare l’altro polo della relazione che struttura l’intero romanzo. Una relazione fortemente segnata dal transfert, dalla manipolazione, dalla dipendenza affettiva, ma anche dall’urgenza di rimettere insieme i frammenti di un’identità disgregata grazie all’aiuto del suo terapeuta, che le consente di sottrarla a questa pratica di annichilimento, invasiva e alienante.
In questo contesto, la scrittura si configura come il mezzo attraverso cui Sapienza tenta di riorganizzare il proprio vissuto, recuperare la memoria lacerata dagli elettroshock e affrontare i traumi rimossi. Il romanzo si sviluppa in una forma diaristico-analitica, in quarantuno capitoli non lineari, dove i piani temporali si accavallano e l’io narrante si muove in un continuo stato di sospensione fra passato, presente e desiderio di ricomposizione. La narrazione alterna frammenti di dialogo terapeutico, riflessioni interiori, evocazioni oniriche, in una lingua fortemente simbolica, carica di visioni perturbanti e immagini carnali.
Nei passaggi più intensi, la protagonista sembra attraversare fisicamente il proprio dolore, in un corpo a corpo con le parole che restituisce il vissuto nella sua crudezza e nella sua urgenza:
E quelle parole spalancarono un baratro davanti a me e capii come è difficile l’arte di non sperare più… la più difficile delle arti… con quella speranza di carta velina morta ripiegata nel mio petto che vibrava come una foglia secca a ogni sguardo, appena un po’ […].[14]
La fragilità diventa chiave di consapevolezza e di resistenza. Quella del Filo di mezzogiorno è una scrittura performativa a partire dalla pagina, che chiama in causa il lettore, lo costringe ad assistere a una mise en scène interiore. Come notato da diversi studiosi e studiose, il romanzo di Sapienza è già di per sé un romanzo teatrale, un testo che mette in scena il palcoscenico della scrittura.[15]
Questa vocazione performativa intrinseca è ciò che ha reso possibile e quasi necessaria l’operazione di adattamento teatrale. Il passaggio alla scena avviene nel 2022 grazie al lavoro di Ippolita di Majo, il cui approccio ermeneutico è radicato in una profonda affinità personale con la figura di Sapienza. Di Majo ha dichiarato di aver intrapreso la riscrittura solo dopo aver superato la paura iniziale di affrontare un testo tanto denso e indomabile. L’esito di questo processo è un adattamento che, pur snellendo la struttura del romanzo, riesce a restituirne la tensione emotiva e l’intensità del vissuto psichico.[16]
L’allestimento scenico, così voluto per scelta ed esigenza registica,[17] e curato da Carmine Guarino, adotta una struttura simbolica fortemente evocativa. La scena è divisa in due sezioni simmetriche, separate da un asse centrale che funge da specchio ideale. Su entrambi i lati, un divano senape, una poltrona, librerie gemelle, finestre con veneziane abbassate e oggetti quotidiani suggeriscono due ambienti simili ma non sovrapponibili. La zona I, a sinistra, rappresenta lo spazio interiore di Goliarda, il luogo della memoria e del sogno; la zona II, a destra, è lo spazio della relazione, dove avviene l’incontro con l’analista.[18] Questa dualità scenica riflette la duplice natura della protagonista: la donna che ricorda e la donna che si analizza, l’attrice e la paziente, la scrittrice e la donna ferita.[19]
La simmetria diventa così dispositivo drammaturgico che materializza la dinamica di specchio e di transfert tra i due personaggi in scena. Il tempo dell’azione è un ‘presente continuo’, sospeso fra realtà, sogno e ricordo.[20] La regia di Martone enfatizza questa sospensione, evitando un’ambientazione naturalistica in favore di un’atmosfera onirica, fatta di luci soffuse, movimenti lenti, dialoghi spezzati. Il risultato è una partitura scenica che trasforma la psicoanalisi in rito teatrale, e il dialogo terapeutico in dramma esistenziale.
Particolarmente significativo è il lavoro attoriale di Donatella Finocchiaro, che interpreta una Goliarda complessa, vulnerabile ma mai vittimizzata, attraversata da un’intelligenza nervosa e da una consapevolezza tagliente. Il suo corpo in scena è il vero ‘testo’ performativo: ogni gesto, pausa, esitazione diventa segno, parola incarnata, eco delle contraddizioni che hanno segnato la vita di Sapienza. La performance di Roberto De Francesco, nel ruolo dell’analista, è costruita invece su una presenza enigmatica, ambigua, a tratti disturbante. La relazione tra i due personaggi si sviluppa come un duello verbale e psicologico, un continuo alternarsi di attrazione e repulsione.
Dal punto di vista della struttura narrativa, di Majo opera una significativa riduzione del materiale romanzesco, selezionando gli episodi più emblematici delle sedute analitiche e riorganizzandoli secondo una logica drammaturgica chiara. La frammentarietà del romanzo viene così ricondotta a una linearità apparente, che consente allo spettatore di orientarsi emotivamente nel flusso della narrazione. Tuttavia, questa linearità non annulla la complessità del testo originario: al contrario, la concentra in una forma scenica che esalta la densità emotiva e simbolica della parola di Sapienza.
La scrittura teatrale restituisce dunque, con strumenti diversi, la medesima urgenza espressiva del romanzo. Come osserva di Majo, Il filo di mezzogiorno è un «canto alla libertà a tutti i costi»,[21] ma anche un «libro d’amore per la psicanalisi».[22] L’adattamento riesce a tenere insieme queste due anime, mostrando la terapia sia come strumento di potere che come possibilità di rinascita. È in questa ambivalenza che risiede la forza del testo e della messinscena: nella capacità di rappresentare la psicoanalisi come luogo di verità, ma anche di manipolazione; di salvezza, ma anche di rischio.
In ultima battuta, Il filo di mezzogiorno nella riedizione teatrale non è solo il racconto di una crisi personale, ma la messa in scena di un processo creativo. La scrittura diventa l’ultima terapia, l’unica in grado di salvare. Scrivere, per Sapienza, significa «discernere nel cadere», come afferma in un verso della raccolta poetica Ancestrale, che costituisce il preludio ideale al romanzo. Ed è proprio questo discernimento che il teatro riesce a mettere in luce, trasformando il dolore in materia viva, il ricordo in presenza, la parola scritta in gesto.[23]
Con questa operazione, Il filo di mezzogiorno compie un doppio ritorno: alla scena – luogo delle origini di Sapienza, che fu attrice prima che scrittrice – e al presente – dove la sua voce trova nuovi corpi per esistere. Come afferma Anna Toscano, la scrittura di Goliarda «non invecchia»: al contrario, si fa sempre più attuale, più urgente, più necessaria.
[…] in quella notte di vomito e smarrimento capii che quel medico, nello smontarmi pezzo per pezzo, aveva portato alla luce vecchie piaghe cicatrizzate da compensi, come lui avrebbe detto e le aveva riaperte frugandoci dentro con bisturi e pinze e che non aveva saputo guarire… mi ricordai la fretta, quanta fretta di richiudere, ricucire quelle piaghe alla meno peggio… e in quella fretta spastica aveva dimenticato dentro qualche pinza.[24]
Il palcoscenico non la tradisce, ma ne amplifica la forza: quella di una parola che ancora oggi sa farsi bisturi, specchio ustorio.
Sebbene gran parte della produzione successiva a questo testo non vedrà la luce prima della morte di Goliarda Sapienza, le pagine pubblicate postume restituiscono con forza quell’assoluta dedizione alla vocazione letteraria che costituisce il nucleo più profondo della sua esistenza. È in questa fedeltà ostinata alla parola che si manifesta l’ansia vitale già dichiarata nel romanzo Lettera aperta (1969): la scrittura, per Sapienza, non è solo mezzo espressivo, ma gesto salvifico, forma estrema di sopravvivenza e riaffermazione identitaria contro ogni cancellazione.[25]
A chiusura dello spettacolo, così come a chiusura del romanzo, sono le stesse parole di Sapienza a consegnare il senso ultimo di questo processo di scrittura, che è anche rivendicazione vitale e politica del diritto al proprio mistero, alla propria irriducibilità:
Ogni individuo ha il suo segreto, ogni individuo ha la sua morte in solitudine… morte per ferro, morte per dolcezza, morte per fuoco, morte per acqua, morte per sazietà unica e irripetibile. Ogni individuo ha il suo diritto al suo segreto e alla sua morte. E come posso io vivere o morire se non rientro in possesso di questo mio diritto? […] se morirò per la sorpresa di qualche nuovo viso-incontro nascosto dietro un albero in attesa, se morrò fulminata dal fulmine della gioia, soffocata da un abbraccio troppo forte, annegata in una tempesta di emozioni trascinanti verso un mare che invisibile attende dietro la notte, se morirò svenata dalle ferite aperte di un amore perduto non più richiuse, se morirò pugnalata dalla lama affilata di uno sguardo crudele vi chiedo solo questo: non cercate di spiegarvi la mia morte, non la sezionate, non la catalogate per vostra tranquillità, per paura della vostra morte, ma al massimo pensate – non lo dite forte la parola tradisce – non lo dite forte ma pensate dentro di voi: è morta perché ha vissuto.[26]
Nella forza della voce intransigente di Donatella Finocchiaro, che fa proprie le parole di Goliarda Sapienza, risiede la riuscita dell’adattamento teatrale: non nel tentativo di tradurre, trasportare, spiegare o correggere, ma nel gesto coraggioso di ridare corpo e suono a ciò che, per sua natura, resiste alla spiegazione.
3. Goliarda Sapienza e le sue personagge ‘fuori’ dal testo
Il terzo e ultimo momento di questa riflessione si concentra su Fuori, il film di Mario Martone con la sceneggiatura di Ippolita di Majo, presentato in concorso a Cannes nel 2025. Liberamente tratto dai romanzi L’università di Rebibbia e Le certezze del dubbio, quest’opera si propone come chiusura simbolica dell’Autobiografia delle contraddizioni, che si pone l’obiettivo di restituire il volto maturo, disilluso e malinconico di una delle più grandi autrici del Novecento. Al centro si trova l’esperienza carceraria vissuta da Sapienza nel 1980, trasformata in scrittura, e infine tradotta in cinema come occasione per raccontare il punto più basso, e più fertile, della sua esistenza.
Fuori è un’opera seconda intensa, luminosa e preziosa come il gioiello e oggetto del furto che, con il movente dell’odio nei confronti di un’amica, avrebbe condotto Sapienza a cinque giorni di reclusione nel carcere di Rebibbia; una brevissima ma intensa discesa agli inferi, che, come sempre nella sua vita, diventa occasione di scrittura e rinascita, non luogo di detenute, ma di «discenti»[27] che fanno di quel posto un’università «in cui imparare il linguaggio primo».[28] L’arresto per il furto di alcuni gioielli da un’amica diventa il gesto detonatore di una parabola narrativa che si svolge dentro e fuori il carcere: non solo spazio fisico, ma categoria esistenziale, simbolica e politica. Fuori mette in scena proprio questo continuo attraversamento, con un registro filmico che alterna presente e memoria, costruendo un mosaico affettivo e narrativo stratificato. Se L’università di Rebibbia racconta la discesa nell’istituzione infernale, Le certezze del dubbio elabora il ritorno in libertà, contaminato però dalle ombre, dalle relazioni e dalle epifanie carcerarie. Martone e di Majo trasformano questi testi in un’opera di affetto e di giustizia poetica: un film che non si limita a rappresentare Goliarda, ma la re-inventa nel dialogo continuo con le sue creature letterarie.[29]
Valeria Golino – già regista della serie L’arte della gioia – interpreta qui Sapienza con un’intensità attraversata da ironia e dolore, chiudendo un cerchio biografico e artistico che la lega all’autrice sin dai tempi in cui fu sua allieva di dizione. Intorno a lei ruotano le figure chiave della nuova vita fuori: Roberta, ex detenuta e attivista, interpretata da Matilda De Angelis, e Barbara (ruolo ricoperto sullo schermo da Elodie), presenza silenziosa e accogliente. Roberta è il centro magnetico del racconto: ispirata alla figura reale di Renata Bruschi, rappresenta la possibilità di un’alleanza affettiva e politica tra donne marginali.[30] È con lei che Goliarda costruisce un rapporto di reciprocità, desiderio e resistenza, che il film restituisce con delicatezza, evitando semplificazioni e spettacolarizzazioni.
Fuori è anche un film sulla scrittura. Il primo piano sul dattiloscritto de L’arte della gioia, tenuto tra le mani di Golino-Goliarda, è uno dei momenti più alti del film: un gesto metacinematografico che mette in scena la maternità letteraria dell’autrice nei confronti del suo romanzo. La scrittura diventa così il luogo in cui i legami si trasformano, la materia grezza dell’esperienza si trasfigura, e i soggetti esclusi – Roberta, Barbara, le ex detenute – trovano diritto al romanzo[31] e alla rappresentazione piena.
La regia lavora su una precisa articolazione simbolica tra luce e spazio. Le scene ambientate a Rebibbia sono dominate da toni freddi e lividi, in cui la luce artificiale imita grottescamente il giorno, restituendo un tempo immobile, di sospensione e privazione. Al contrario, la Roma esterna è avvolta in una luce dorata, mediterranea, che accompagna «l’ottobre romano»[32] della rinascita. La linea di confine fra dentro e fuori è tematizzata anche sul piano narrativo attraverso una scelta strutturale precisa: una tranche de vie esemplare. Come osserva Martone, l’intento era quello di realizzare «un film in cui Manzoni è seduto a cena con Renzo e Lucia», ovvero una narrazione in cui l’autrice coesiste con i suoi personaggi, in un regime di co-creazione, e co-esistenza.
Raccontare tutta la sua vita – lunga, complessa, segnata dalla guerra, dalla militanza partigiana, dal tentato suicidio – sarebbe stato impossibile. Quello che volevamo era un ritratto. Un ritratto di Goliarda insieme alle sue creature letterarie. Come se facessimo un film in cui Manzoni è seduto a cena con Renzo e Lucia. È un film su più livelli: c’è la scrittrice, ci sono i suoi personaggi, c’è chi l’ha diretta nella fiction, e guarda caso, quella stessa persona è anche regista dell’adattamento de L’arte della gioia. Tutto è intrecciato, eppure il film resta semplice nella forma. Un’estate a Roma. L’amicizia tra donne. La vita che accade.[33]
Il vero punto di fusione tra dentro e fuori è rappresentato dal retrobottega della profumeria, luogo intermedio, quasi sacro, dove si consuma l’intimità tra Goliarda, Roberta e Barbara. In questa scena – uno dei momenti più poetici del film – il chiaroscuro avvolge i corpi e le parole in una luce calda e intima, affettiva cancellando ogni distinzione tra libertà e prigionia.

Il corpo, narrativo e visivo, è un altro protagonista. Due scene di nudità, una nel carcere e una nel bagno del retrobottega, costruiscono un arco simbolico: la prima imposta, fredda, istituzionale; la seconda scelta, giocosa, condivisa. Da corpo spogliato a corpo che si spoglia, il passaggio rappresenta la riconquista dell’autonomia e della parola.[34] In questa chiave, Fuori si fa anche spazio di una queer family,[35] dove le relazioni si riformulano fuori dalle norme, e dove la ‘maternità letteraria’ – come quella dichiarata da Goliarda nei confronti di Roberta – prende il posto della genealogia biologica.
Il film di Martone, infine, si distingue per la capacità di trasformare l’adattamento in un atto di militanza estetica. Come già anticipato, per Linda Hutcheon, ogni adattamento è «un’opera seconda che non è però secondaria».[36] In questo senso, Fuori è un’opera pienamente autonoma e necessaria, che restituisce alla figura di Sapienza il suo spessore umano e letterario, amplificandone la voce e proiettandola in una dimensione cinematografica che non tradisce ma rilancia. Il cinema diventa così la rappresentazione, di un nuovo capitolo dell’Autobiografia delle contraddizioni: un gesto di amore politico, un esercizio di memoria, un atto di riconoscimento. E forse, come scrive Sapienza, ladra di gioielli e di storie, «un modo per allungare di qualche attimo la vita delle persone che si amano».[37]
4. Ladra di gioielli, ladra di storie
Gli studi di Linda Hutcheon sulla riscrittura e sull’adattamento hanno costituito un riferimento teorico centrale, in quanto capaci di restituire la complessità del rapporto tra fedeltà e trasformazione nell’opera rimediazione:
Riscriviamo le storie, le mostriamo di nuovo e interagiamo da capo più e più volte. Nel corso di questo processo esse cambiano ad ogni ripetizione, pur rimanendo sempre uguali a sé stesse e riconoscibili. Ciò che hanno smesso di essere è necessariamente qualcosa di secondario o marginale, senza il quale non avrebbero potuto sopravvivere.[38]
Il riconoscimento di queste operazioni di riscrittura è stato sancito, simbolicamente, in occasione della settantesima edizione dei David di Donatello, in cui L’arte della gioia, serie diretta da Valeria Golino, ha ottenuto il premio per la miglior sceneggiatura non originale, oltre a due riconoscimenti alle interpreti femminili: migliore attrice protagonista (Tecla Insolia) e migliore attrice non protagonista (Valeria Bruni Tedeschi). Significative, in questo senso, le parole di Insolia, che ha dedicato il premio «ai libri dimenticati e poi ridati in vita, alle personalità scomode come Goliarda Sapienza. Ai corpi liberi, non cancellati dalle loro identità, e alle terre libere, sempre e per sempre».[39]
Anche la risonanza della drammaturgia del Filo di mezzogiorno, soggetto a firma di Ippolita di Majo, si è ravvisata nella sua candidatura al premio Ubu per la migliore scrittura drammaturgica, sebbene non l’abbia vista vincitrice, ma dignitosa finalista.
Quanto al film Fuori di Mario Martone, pur non premiato al Festival di Cannes, ha ottenuto un’accoglienza calorosa, culminata in oltre sette minuti di applausi. La pellicola ha visto Valeria Golino nel ruolo di Sapienza, vincitrice del premio miglior attrice protagonista ai nastri d’argento, accanto a Matilda De Angelis (Roberta) ed Elodie (Barbara), anche loro vincitrici del premio miglior attrice non protagonista, con non poche polemiche per la candidatura e vittoria in coppia. La sceneggiatura, frutto del lavoro a firma di Ippolita di Majo, si propone come una riscrittura fedele e rispettosa, in grado di restituire dignità a una scrittrice rimasta ai margini della storia letteraria italiana.
Nel percorso autoriale di Martone si colloca dunque una tappa significativa: la rimediazione di un’opera autobiografica complessa come quella di Sapienza, caratterizzata da un «patto autobiografico congetturale»,[40] in cui il bisogno non è tanto «di verità, ma per un minimo di ordine»,[41] cioè per la costruzione di un senso che è comunque sempre, consapevolmente, finzionale.[42] Le sue opere nascono da una tensione verso il senso, consapevolmente fittizio, e proprio questa consapevolezza ne consente la sopravvivenza, la rinascita.
Quando Sapienza scrive in Lettera aperta: «oggi rinasco, o forse nasco per la prima volta. Non è vero»,[43] la contraddizione viene accolta come forza generativa. Valeria Golino, e in forza maggiore Martone e di Majo, contribuiscono a farla ‘rinascere’, mettendo in scena proprio quelle contraddizioni, che sono il cuore pulsante della sua scrittura.
La ricerca su Goliarda Sapienza è chiamata oggi a interrogare non solo le sue reticenze, ma anche le modalità attraverso cui queste vengono ri-elaborate, ri-scritte, trasmesse. Tre creature d’inchiostro, Modesta, Roberta e Barbara, sono tornate a vivere sullo schermo, oltre che sul palco, anche insieme alla loro genitrice. E nel farlo, hanno rilanciato, ancora una volta, il diritto di ogni soggetto, marginale o ‘scomodo’,[44] a una propria rappresentazione, a un proprio romanzo. È questo stesso diritto che Mario Martone ha voluto affermare nel fissare il ritratto filmico di Sapienza «con gli occhi chiusi»[45] e «il sorriso grande e gioioso».[46]
1 Per il concetto di rimediazione si rimanda a J.D. Bolter, R. Grusin, Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi [1999], trad. it. di B. Gennaro, Milano, Guerini, 2002, p. 25 e ss..
2 Cfr. L. Hutcheon, Teoria degli adattamenti. I percorsi delle storie fra letteratura, cinema, nuovi media, trad. it. di G.V. Distefano, Roma, Armando, 2011, p. 28.
3 Ivi, p. 83.
4 Cfr. C. Ross, ‘Queer’ in M. Rizzarelli (a cura di), Sapienza A-Z, Milano, Electa, 2024, pp. 197, 198.
5 V. Golino, ‘Valeria Golino: vi racconto la mia Goliarda, ribelle e scabrosa. La serie ispirata al romanzo della scrittrice catanese’, intervista a cura di A. Filippi, Gazzetta del sud, 19 Giugno 2023, <https://messina.gazzettadelsud.it/articoli/cultura/2023/06/19/valeria-golino-vi-racconto-la-mia-goliarda-ribelle-e-scabrosa-la-serie-ispirata-al-romanzo-della-scrittrice-catanese-743d9606-1ac1-4b10-92d3-4b29998c2179/> [accessed 15 June 2025].
6 V. Golino, intervista a cura di Eleonora Lombardo, Valeria Golino. Goliarda Sapienza fu la mia coach, ora racconto la sua arte della gioia, La Repubblica, 19 Giugno 2023, <https://palermo.repubblica.it/societa/2023/06/19/diretta/valeria_golino_larte_della_gioia_taobuk_goliarda_sapienza-405041730/> [accessed 15 June 2025].
7 V. Golino, ‘Valeria Golino: vi racconto la mia Goliarda, ribelle e scabrosa. La serie ispirata al romanzo della scrittrice catanese’, intervista a cura di A. Filippi, Gazzetta del sud, 19 Giugno 2023, <https://messina.gazzettadelsud.it/articoli/cultura/2023/06/19/valeria-golino-vi-racconto-la-mia-goliarda-ribelle-e-scabrosa-la-serie-ispirata-al-romanzo-della-scrittrice-catanese-743d9606-1ac1-4b10-92d3-4b29998c2179/> [accessed 15 June 2025].
8 L. Hutcheon, Teoria degli adattamenti, p. 64.
9 Queste battute sono tratte dall’incipit che, come una scossa, fanno partire la narrazione della serie tv. Sono Presenti già nel trailer, a cui rimando: <https://www.youtube.com/watch?v=FnIvMZ2qvtk> [accessed 15 June 2025].
10 Per approfondire rimando alle parole di Valeria Golino intervistata da Lilly Gruber alla trasmissione Otto e mezzo il 25 maggio 2024, al rientro in Italia della regista dal Festival di Cannes, per la promozione della serie tv: <https://www.la7.it/otto-e-mezzo/rivedila7/giorgia-meloni-o-la-va-o-la-spacca-otto-e-mezzo-puntata-del-2452024-24-05-2024-544291> [accessed 15 June 2025].
11 Ibidem.
12 Ibidem.
13 Cfr. A. Toscano, ‘La speranza di carta velina: la rinascita dopo il buio / Il filo di mezzogiorno di Goliarda Sapienza’, Doppiozero, 10 Maggio 2020, <https://www.doppiozero.com/il-filo-di-mezzogiorno-di-goliarda-sapienza> [accessed 15 June 2025].
14 G. Sapienza, Il filo di mezzogiorno, in Ead., Autobiografia delle contraddizioni, a cura di A. Pellegrino, Torino, Einaudi, 2024, p. 271.
15 Cfr. I. di Majo, ‘Goliarda’, in M. Rizzarelli (a cura di), Sapienza A-Z, p. 191.
16 Cfr. M. Rizzarelli, ‘Una stanza tutta per loro. Il filo di mezzogiorno di Goliarda Sapienza dalla pagina alla scena. Conversazione con Ippolita di Majo’, XI, 22, novembre 2021, p. 263
17 Cfr. ivi, pp. 262-270.
18 Cfr. G. Sapienza, Il filo di Mezzogiorno, versione teatrale di I. di Majo, Torino, Einaudi, 2022, p. 3.
19 Ibidem.
20 Cfr. I. di Majo, Programma di sala per lo spettacolo Il filo di Mezzogiorno, <https://teatrodinapoli.it/wp-content/uploads/2022/01/MRC_20-21_Il-filo-di-mezzogiorno_Programma_Web.pdf> [accessed 15 June 2025].
21 I. di Majo, ‘Goliarda’, in M. Rizzarelli (a cura di), Sapienza A-Z, p. 191.
22 Ibidem.
23 Cfr. A. Toscano, ‘La speranza di carta velina’.
24 G. Sapienza, Il filo di mezzogiorno, p. 277.
25 Cfr. M. Rizzarelli, Goliarda Sapienza. Gli spazi della libertà, il tempo della gioia, Roma, Carocci, p. 72.
26 G. Sapienza, Il filo di mezzogiorno, pp. 283-284.
27 G. Sapienza, Le certezze del dubbio, in Ead., L’autobiografia delle contraddizioni, p. 594.
28 Ivi, p. 476.
29 Mario Martone intervistato per Comingsoon,
30 Cfr. M. Capraro, ‘Roberta’, in M. Rizzarelli (a cura di), Sapienza A-Z, pp. 206-207.
31 Per il concetto di “diritto al romanzo”, delle classi un tempo escluse dalla rappresentazione nel romanzo, rimando a E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Torino, Einaudi, 2000, pp. 269-271.
32 G. Sapienza, L’università di Rebibbia, in Ead., L’autobiografia delle contraddizioni, p. 394.
33 Mario Martone intervistato da Piera Detassis il 21 maggio 2025 in occasione dell’evento livestream al Teatro Ariston di Sanremo.
34 Cfr. G. Sapienza, Le certezze del dubbio, in Ead., L’autobiografia delle contraddizioni, p. 603.
35 Cfr. M. Murgia, Dare la vita, Milano, BUR, 2025, p. 47; C. Ross, ‘Queer’ in M. Rizzarelli (a cura di), Sapienza A-Z, pp.197-198.
36 L. Hutcheon, Teoria degli adattamenti, p. 28.
37 G. Sapienza, Le certezze del dubbio, in Ead., L’autobiografia delle contraddizioni, p. 662.
38 L. Hutcheon, Teoria degli adattamenti, p. 247.
39 Discorso di ringraziamento tenuto da Tecla Insolia al David di Donatello 70, <https://www.raiplay.it/video/2025/05/Tecla-Insolia---Miglior-attrice-protagonista-ai-David-di-Donatello-2025----David-di-Donatello-07052025-c6a07c23-772a-4a40-b9d8-093fbc150ec0.html> [accessed 15 June 2025].
40 M. Schilirò, ‘Autobiografia’, in M. Rizzarelli (a cura di), Sapienza A-Z, p. 33.
41 G. Sapienza, L’università di Rebibbia, p. 6.
42 M. Schilirò, ‘Autobiografia’, in M. Rizzarelli (a cura di), Sapienza A-Z, p. 33.
43 G. Sapienza, L’università di Rebibbia, p. 119.
44 Discorso di ringraziamento tenuto da Tecla Insolia al David di Donatello 70.
45 G. Sapienza, L’università di Rebibbia, in Ead., L’autobiografia delle contraddizioni, p. 418.
46 G. Sapienza, Le certezze del dubbio, in Ead., L’autobiografia delle contraddizioni, p. 536.