«Quello che mi interessa – sostiene Paolo Gioli – è la formidabile capacità che la materia fotosensibile ha nel manomettere e immaginare, quasi sempre drammaticamente, ogni cosa tocchi. Prima dell’immagine c’è la materia».

Ridurre, sgretolare, trasformare la fotografia in materia fotografica, in qualcosa di malleabile per poi manipolarla: la metodologia di ricerca di Paolo Gioli percorre da sempre questo binario. La mostra Abuses. Il corpo delle immagini (Villa Pignatelli – Casa della fotografia, Napoli 12 aprile-1 giugno 2014, a cura di Giuliano Sergio), una selezione di oltre cento immagini dell’artista veneto, affronta alcuni dei temi attorno i quali ruota l’intero lavoro e il percorso artistico di Paolo Gioli: l’indagine sul corpo, in tutte le sue sfaccettature, e sulla natura morta.

In un’epoca nella quale la tecnologia ha reso difficile rintracciare la specificità del mezzo fotografico, avvicinando la fotografia stessa a quella «condizione postmediale» descritta da Rosalind Krauss, Paolo Gioli riesce a fermare l’istante sottraendolo all’effimero dell’esperienza ordinaria attraverso la costruzione di immagini fatte di innesti, suture e artifici.

L’artista oltrepassa, in tal modo, i confini strutturali dell’immagine restituendola all’osservatore in tutta la sua drammaticità. Quella di Gioli è un’operazione che oserei definire di archeologia visuale, caratterizzata dall’esplorazione incessante dell’intero universo dei processi fotografici proto-storici, storici e moderni: dal foro stenopeico, al classico procedimento positivo/negativo, al positivo diretto su diversi formati polaroid. La fotografia di Gioli (e le opere in mostra ne sono una prova) porta, dunque, alle estreme conseguenze l’intera parabola evolutiva di quella riproducibilità tecnica postulata da Benjamin, estremizzandone dinamiche e processi, e rendendo palesi i meccanismi ad essa interni e le difficoltà e incertezze da essa derivanti.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Il 3 e 4 dicembre 2013 si è svolto presso l’Università degli Studi di Milano il convegno internazionale «Corpi in pietra», organizzato dal Dipartimento di Filosofia in collaborazione con il Centre International de Philosophie di Parigi e l’Università degli Studi di Bergamo e patrocinato dalla Società Italiana d’Estetica. I partecipanti all’incontro, volto a esplorare il tema della monumentalizzazione del corpo (con particolare ma non esclusivo riguardo ai cinema studies), hanno delineato e approfondito la questione dell’animazione dell’inanimato affrontando di volta in volta specifici casi di studio.

La prima sessione dei lavori, presieduta da Andrea Pinotti, è stata aperta dall’intervento di Filippo Fimiani (Università degli Studi di Salerno) intitolato La carne impossibile. Immagine, immaginario, medium. Prendendo le mosse dal celebre saggio di Maurice Blanchot, Les deux versions de l’imaginaire, Fimiani ha incentrato la sua presentazione sulle relazioni tra immagine, maschera funeraria e fotografia, relazioni che coinvolgono diversi discorsi e statuti – antropologici, semiotici, ontologici, mediali – e che sintetizzano un dialogo più che ventennale con la fenomenologia e con la sua ricezione francese (Sartre e Lévinas in testa).

All’intervento di Fimiani è seguito quello di Barbara Le Maître (Université Sorbonne Nouvelle Paris 3), De Jack Torrance en corps fossile, dedicato all’evoluzione teorica della nozione di «fossile» esemplificata attraverso l’analisi concreta di alcuni passaggi chiave di Shining. Nella sua relazione Does Materiality Matter? The cinematic body between the monumental, the mechanical and the ephemeral, Vinzenz Hediger (Goethe-Universität Frankfurt) ha delineato un percorso di natura squisitamente teoretica sui concetti di medium e di cinematic body (il corpo rappresentato e quello esperito tramite empatia), con particolare riferimento alle osservazioni sviluppate da Vivian Sobchack e Christiane Voss.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16