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Nel 2003 Agnès Varda riceve l’invito a partecipare alla 50° Biennale di Venezia, all’interno della sezione Utopia Station: un’area di transito e in transito, progettata come lo spazio di una stazione, dove poter sostare e osservare contributi artistici di varia natura, provenienti da tutto il mondo. Aderiscono al progetto oltre 150 tra artisti, architetti e interlocutori che non fanno necessariamente parte del panorama artistico contemporaneo. Agnès Varda, tra questi ultimi, nell’accogliere l’invito propone per l’occasione un’installazione videosonora. Da questo momento per la cineasta belga si aprono nuove opportunità, sia sul piano dei territori artistici, fino a quel momento videofilmici e fotografici, sia su quello della scrittura. Pur mantenendo i principi compositivi che ne caratterizzano da sempre il lavoro, a partire da Patatutopia – questo il titolo della videoinstallazione – i tratti della multimedialità interverranno nella scrittura di Agnès Varda consentendole di ampliare, strutturalmente, le declinazioni dei dispositivi di ripresa e i modi della rappresentazione del racconto. O, della ex-peau-sizione, per dirla con il neologismo di Jean-Luc Nancy, subentrato proprio al termine Ê»rappresentazioneʼ, peraltro con un rinvigorimento di senso dato dalla sostituzione, al suo interno, della sillaba Ê»poʼ con la parola omofona peau, pelle.

A fondamento dell’intero lavoro di Varda c’è, infatti, un Ê»discorsoʼ aperto allo sguardo, alla presentazione del racconto più che alla sua rappresentazione, attraverso uno s-velamento progressivo operato dai mezzi di ripresa prima e poi di montaggio, che va di pari passo, autoalimentandosi, con la creazione-rivelazione di immagini e suoni da condividere. Un togliere i veli alla realtà, andando oltre la pura documentazione della stessa, per far affiorare un mondo-corpo fatto di Ê»piccole coseʼ; e forse, proprio per questo, maggiormente incisivo.

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Pelle, pellicola, messa in scena del corpo, autorappresentazione. Performatività. Materialità di schermi, superfici. Tempo che consuma e si consuma, tempo da ricostruire. Bellezza della consunzione e dell’imperfezione. Abitare il tempo e abitare il cinema, indossare il tempo, indossare il cinema.

Il percorso di Agnès Varda, oggi novantenne, è un percorso nelle immagini: fortemente ispirata dalla pittura, dalla fotografia (lei stessa è fotografa), protagonista di un cinema noncurante di etichette e steccati, documentitore (Documenteur, 1981) e con una impronta – uso questo termine quasi in senso letterale – fortemente e consapevolmente autobiografica.

«La vecchia cineasta si è trasformata in giovane artista plastica», ha affermato commentando questa fase del suo lavoro. E in effetti non solo Varda ha concepito per le proprie opere percorsi installativi (come del resto hanno fatto altri cineasti della sua generazione, da Godard a Marker), ma si è dedicata a vere e proprie installazioni in cui le immagini in movimento non sono l’unico elemento, perché ne fanno parte oggetti, materiali diversi, fotografie. Inoltre, ha costruito film, in particolare il mirabile Les Plages d’Agnès, 2008, come percorsi installativi. Non solo: Varda ha trasformato se stessa in opera d’arte, con un’attitudine performativa basata in gran parte su costumi e travestimenti, sia nei film (ancora e soprattutto Les Plages d’Agnès) sia in esposizioni d’arte, come quando si è presentata alla 50° Biennale d’arte di Venezia nel 2003 (padiglione Ê»Utopia Stationʼ) trasformata in patata gigante, in occasione della sua prima installazione video Patatutopia. Un trittico (forma che ricorre spesso nelle sue installazioni) in cui si mostrano le patate scartate perché non conformi alle leggi di mercato. Patate difformi, in modo anche poetiche – come quella a forma di cuore – o commoventi (rugose, germoglianti). Imperfette. Patate (e qui si arriva all’elemento tattile, così presente nel cinema di Varda) da accarezzare, ripulire dalle tracce di terra, disporre e preparare per la messa in scena della loro bellezza.

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Negli anni Trenta, a Hollywood, legare il lancio di un film alla promozione di un altro tipo di bene di consumo era una pratica abituale. L’industria americana si lasciava volentieri coinvolgere in iniziative di questo genere, nella consapevolezza che il cinema potesse ottenere un effetto trainante sui consumi. Anche in Italia, tra le due guerre, nonostante le potenzialità del sistema industriale fossero più limitate, ci fu qualche tentativo di legare l’uscita in sala alla vendita di altre merci. Spesso erano le stesse agenzie americane a organizzare la promozione dei film. Ad essere maggiormente sfruttate erano le immagini delle star diffuse sulla stampa femminile, che le mostravano in pose sorridenti pubblicizzare prodotti di bellezza, come il sapone Lux o la crema Ponds. Nel 1936 in occasione della distribuzione in Italia di un film con Shirley Temple, i magazzini Rinascente ospitarono una linea di vestiti per bambine ispirata al look della piccola star (Gundle 2006, pp. 175-96). Il tema dello sfruttamento del cinema a fini promozionali non è stato ancora del tutto affrontato. È stato Stephen Gundel ad offrire un rilevante contributo alla riflessione sulle dinamiche di produzione della Ê»pubblicità del cinemaʼ, indagando i meccanismi di promozione dei film, come le campagne di lancio e le pubblicità. Eppure il discorso andrebbe esteso anche alla rilevanza della pubblicità Ê»attraverso il cinemaʼ, ossia all’apporto che l’apparato audiovisivo ha dato al sistema industriale promuovendo nuovi modelli identitari e stili di vita, dunque nuovi desideri e bisogni indotti. In Italia, per la prima volta proprio negli anni Trenta, alcune attrici iniziarono a dare il loro sostegno personale alle case di moda o a promuovere prodotti fabbricati nel Paese, come accadde a Silvia Jachino, ritratta sulle pagine di Cinema a bordo di una Fiat 500, Ê»la vettura delle stelleʼ. L’intenzione autarchica del fascismo, alla fine del decennio, non riuscì ad esprimersi a pieno nel campo della moda e del design, poiché questi settori anche grazie alla funzione assolta dalla cultura cinematografica nell’economia discorsiva dei messaggi pubblicitari, si rivolgevano ad un pubblico d’élite le cui aspirazioni si proiettavano verso stili di vita eleganti, la ricchezza e l’agio, piuttosto che verso la gloria della nazione fascista. L’economia italiana non era sufficientemente dinamica per permettere al cinema di agire a fondo sull’immaginario collettivo, a differenza di quanto accadrà nel secondo dopoguerra. Eppure fu proprio in quegli anni, e attraverso il coinvolgimento di gruppi ristretti di spettatori, che il cinema iniziò ad agire come orientatore di gusti e desideri.

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A ricordarci che le Ê»questioni di pelleʼ hanno una rilevanza di genere, una testata come Ê»BellaWeb.itʼ allorquando si preoccupa non solo di fornire alle sue lettrici – e ai suoi eventuali lettori – opportune indicazioni sulla cura dell’epidermide femminile ma anche di informare sulle locuzioni correlate. Nel riportare il significato della formula «non sto più nella pelle», sulla scorta del Dizionario dei modi di dire Hoepli, ne riconduce la genealogia alla nota favola di Fedro «dove la rana per diventare più grossa si gonfia fino a scoppiare» [fig. 1].

L’apologo, nella sua componente pedagogico-punitiva, non sembrerebbe in linea con la definizione data invece dell’«attesa frenetica di qualcosa di piacevole con grande gioia e impazienza», oppure della «manifestazione di una tale eccitazione da sembrar sul punto di schizzare fuori dalla pelle, incapaci di trattenersi». L’accostamento è però funzionale a rilevare il portato stratificato dell’espressione, facendoci muovere così tra le pieghe delle parole come tra le pieghe della pelle, invece che schiacciarci nella chiusura perentoria della definizione. Da un lato si richiama infatti la valenza identitaria connessa al binomio essere/apparire, dove la muta è riconducibile tanto a una condizione di costrizione che porta a Ê»scoppiareʼ, quanto a un cambiamento espressamente ricercato, volto a lacerare la pellicola che dà forma e quindi anche riconoscibilità in un ordine simbolico; dall’altro, si espone il ventaglio emozionale che induce o accompagna tale muta, dal momento che le pelli, tutt’altro che materiale inerte, vibrano e respirano.

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Che cosa ci aspettiamo dalla figura della ragazza sullo schermo? Se l’immagine della donna nel cinema italiano tradizionalmente rappresenta il corpo politico-nazionale (Marcus 2000), quella della ragazza nel cinema italiano contemporaneo offre proprio una specie di anticorpo, promettendo la cura della nazione con la sua presenza. Come osserva Dana Renga (2014, p. 329), la produzione cinematografica più recente di alcune registe italiane mette in scena giovani eroine che dimostrano il «fallimento della metafora paterna». Inoltre, dal 2012, numerosi film con ragazze come protagoniste dimostrano che anche registi uomini hanno interesse ad approfondire le «potenzialità per la resistenza» (Projansky 2014) insite nella figura della ragazza.

Come mai quest’ultima si presta così spesso a questo significato di resistenza nel cinema maschile degli ultimi dieci anni? Catherine Driscoll sostiene che la figlia nella società non capitalista è «una specie di denaro» e che, anche in un contesto capitalista, offre «sistemi di valutazione di prestigio e ricchezza o rappresenta la continuità del lavoro riproduttivo e domestico» (Driscoll 2002, p. 109). La riflessione di Driscoll sui processi di mercificazione legati alla figlia è importante ai fini del mio discorso, in quanto è proprio attraverso tali processi che la figura della ragazza si dimostra capace di resistere. A livello simbolico, la sua resistenza può valere per ognuno di noi in qualità di spettatrici e spettatori, soggetti a processi di disumanazione simili. Spesso in queste rappresentazioni il legame dell’amicizia femminile costituisce una falsariga utopica per la gioia della collettività (Swindle 2011), e anche dalla sua fisicità ludica scaturisce la sua ‘potenzialità per la resistenza’. Però, la resistenza quasi sovraumana che il corpo della ragazza promette è anche una fantasia di ‘resilienza’, proprio nel senso di ‘amazing bounce-backable woman’ che Gill e Orgad identificano nel loro studio sui periodici femminili, sulla letteratura self-help e sulle app per lo smartphone (2018). Nel caso della ragazza, l’enfasi sulla necessità di ‘confidence building’ nei media popolari si esprime soprattutto attraverso il corpo (Banet-Weiser 2017). Così il corpo della ragazza diventa proprio l’anticorpo essenziale alla salute della società odierna, perché la sua capacità di resilience offre la rassicurazione che l’individuo può sempre sopravvivere se s’impegna abbastanza.

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1. Il racconto

A dare spessore umano al film è una profonda relazione tra il movimento del plot e lo sviluppo interiore del personaggio a partire da una Ê»ferita inconsciaʼ che affligge il protagonista all’inizio del suo percorso, scrive la sceneggiatrice hollywoodiana Dara Marks. La ferita di Viola e Dasy non è inconscia, ma fisica. La superficie del corpo doppio, un’anomalia genetica che porta con sé un’indefinita identità di genere, si incarica di rendere visibile ed esteriore lo sviluppo interiore delle coprotagoniste. L’incidente scatenante che consente il loro Ê»risveglioʼ coincide con la rivelazione che il padre mente per sottometterle e guadagnare dalle loro esibizioni canore: al contrario di quanto i genitori avevano sempre affermato separarsi è possibile, serve solo del denaro. Per procurarselo avrà inizio la fuga. Ma soltanto una di loro, Dasy, desidera scindersi dal corpo della gemella, e soltanto il gesto d’amore di Viola permetterà al personaggio doppio di rinnovarsi [fig. 1].

Il viaggio interiore inizia quando la doppia protagonista intraprende il percorso che la porterà a rigenerare corpo e voce della creatura multipla. Secondo quanto teorizzato da Maureen Murdock, l’avventura di questa singolare eroina dal doppio corpo ha inizio con il rifiuto della madre, appendice passiva paterna. Viola e Dasy scappano su un motorino e partono alla ricerca della loro nuova identità [fig. 2]. Ma è solo l’inizio del viaggio: un gommone le porta verso un’esperienza traumatizzante di seduzione maschile su un panfilo, da cui le due fuggono tuffandosi in mare. Così perdono il denaro, sottratto a un sedicente discografico di nome Marco Ferreri, necessario per sostenere l’operazione di divisione dei loro corpi. È in questo momento che ha inizio il ribaltamento dei ruoli fra le due coprotagoniste, dentro un’acqua scura dove le banconote si disperdono in mare: Dasy, la leader che si scontra con il padre, cede il ruolo attivo a Viola, la gemella remissiva che decide di sfidare la sorte gettandosi in mare. È la prima esperienza di morte. Quando padre e sacerdote le ricatturano dopo il naufragio, durante una cerimonia rituale religiosa, anzi pagana, Dasy torna motore dell’azione pugnalandosi. La seconda esperienza di morte conduce il racconto al suo punto di svolta, cioè al rinnovamento dell’eroina doppia. La macrosequenza conclusiva è un happy end affidato ai corpi e alle voci delle due sorelle ormai separate. Nella discesa della parabola che coincide con la liberazione dalla Ê»ferita fisicaʼ delle coprotagoniste, tutto avviene in un’unica scena di una decina di minuti narrativamente reticente: momento di trasformazione, climax e risoluzione finiscono quasi per coincidere.

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1. La metafora animale

Tutto il cinema di Ferreri può essere letto come una sorta di grande bestiario grottesco sulle disavventure del corpo nello scenario della contemporaneità; i suoi film sembrano illustrazioni quasi ‘fumettistiche’ (per la loro paradossalità e paradigmaticità) delle teorie sul potere biopolitico che Foucault elabora soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni settanta. I dispositivi economico-sociali-tecnologici-culturali vengono indicati come strumenti alla base dell’assoggettamento, della subordinazione e della disciplina dei corpi, senza distinzioni di genere. Per Ferreri le dinamiche della storia comportano l’allontanamento dell’essere umano dalla propria costituzione animale, la costrizione e la perdita progressiva della dimensione corporea, identificata come l’unico luogo autentico di una conoscenza strettamente connessa all’esperienza e al suo tessuto multiforme di materie, bisogni, desideri, sogni.

Nel configurare le devastazioni operate dalla storia sul corpo, l’autore rappresenta il soggetto maschile come un’entità instabile e disperata. Se, da una parte, l’uomo continua a forgiare il corpo della donna in quanto superficie di segni perfettamente rispondente all’esigenza di un controllo e di una dominazione – facendone di volta in volta una macchina feticistica, un manichino (Marcia nuziale, 1966), una cosa inerte (Dillinger è morto, 1969), un simulacro sostitutivo (I Love You, 1986), una carne di consumo (La carne, 1991) – dall’altra è anch’egli vittima del sistema che autorizza il suo ruolo di carnefice; è, in definitiva, un soggetto sopraffattore e allo stesso tempo sopraffatto dagli stessi dispositivi di relazioni e di dominio che tenta di amministrare.

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1955. Tosca, Mafalda, Gina, Silvana, Loretta: le ragazze di San Frediano corrono intorno a Bob e, senza saperlo ancora, corrono verso il boom [fig. 1]. Quando, negli anni dei Pane e amore, la commedia si appresta a spostarsi in città, queste povere ma belle della Firenze popolare e corale di Pratolini, interpretate da Rossana Podestà, Giovanna Ralli, Marcella Mariani, Giulia Rubini e Luciana Liberati, con la loro esuberante vivacità anticipano nel lungometraggio d’esordio di Zurlini i ruoli di Marisa Allasio e di Alessandra Panaro, e inaugurano l’interesse del regista per le figure femminili. Se il film è Ê»dedicatoʼ al giovane rubacuori dalle presunte fattezze del divo hollywoodiano e agli altri Bob come lui, sono queste donne poco più che adolescenti, con i loro corpi snelli, i loro desideri confusi e l’unica certezza di voler conquistare l’amore di Andrea, a tessere un racconto che ne metterà piuttosto in luce le menzogne, i facili inganni, l’inettitudine. Ma nessun matrimonio allieterà il finale di questa unica commedia di Zurlini, che termina davanti a un treno e in una stazione, uno dei luoghi più cari al regista bolognese, segnato dall’impossibilità dei rapporti e dalla ineluttabilità del commiato: Bob non partirà con la facoltosa stilista e, forse, non lascerà mai il vicolo e la sua officina, mentre, forse ancora, una di quelle ragazze ha già preso in mano la valigia con la speranza di mutare il suo destino. Anche in Italia, intanto, sono arrivati i 45 giri, sta per arrivare il juke-box e i bar diventano un’altra cosa: Guendalina dell’omonimo film (1957) e i suoi amici ci passano i pomeriggi, e la spiaggia è ormai il luogo delle vacanze, delle canzoni e degli incontri. Zurlini avrebbe dato molto a questo suo ritratto di adolescente, che Ponti preferì invece affidare a Lattuada. Il Ê»noiʼ dei giovani di cui scrive Capussotti si declina qui in un conflitto che non è solo generazionale ma di classe, passando attraverso i corpi e il corpo, poi a lungo amato, di Jacqueline Sassard. Come le altre giovani straniere del cinema italiano del decennio a venire, Sassard vestirà ruoli inconsueti e ribelli in una modalità ritenuta meno offensiva rispetto a quelle norme patriarcali ormai troppo strette per le ragazze della Ê»prima generazioneʼ, indicando piuttosto nuovi modelli di indipendenza e libertà per le giovani spettatrici. Nel film che Zurlini riesce a girare soltanto cinque anni dopo, Sassard-Rossana è una delle ragazze di una comitiva in vacanza a Riccione. In quell’estate del ʼ43 che racconta Estate violenta (1959), primo capitolo della Ê»trilogia adriaticaʼ, e che era stata anche del regista, i giovani, scrive Morreale, somigliano a quelli degli anni Sessanta e di un filone balneare che proprio in quegli anni riprende vigore, ma il registro zurliniano è, come sempre e per sua stessa ammissione, disperato. Se Rossana, che vorrebbe le attenzioni di Carlo – un ventenne figlio di un gerarca che come i suoi amici è riuscito a tenersi a distanza da una guerra che qui sembra lontana, ma che non manca di apparire in tutta la sua violenza –, è una ragazza spigliata e di carattere che crede di sapere cosa significhi Ê»fumare una sigaretta in dueʼ [fig. 2], la Roberta di Eleonora Rossi Drago (una delle ex-ragazze di Miss Italia), vedova di una medaglia d’oro, madre di una bambina e figlia di una donna tirannica e austera (come non ricordare Perdutamente tua?), scopre per la prima volta nei suoi trent’anni la passione e l’amore. In questo melodramma borghese e d’autore, che intreccia il familiare e il materno, il bellico e il noir e che sembrerebbe privilegiare il protagonista maschile in un racconto di formazione dove, come accadrà nei film successivi, l’impossibilità dell’incontro tra i soggetti, condannati, come dice Canova, a non poter sperare, si misura sul piano dell’età e/o anche della classe sociale (La ragazza con la valigia, 1961) e dove la sfera privata non sfugge dal misurarsi con gli imperativi del sociale e della storia, è la figura sensuale e altera di Roberta ad acquistare un rilievo inatteso. Così la sequenza del ballo, un momento ricorrente e decisivo nella filmografia del regista, non è in realtà che il punto di implosione, sulle note di Temptation e poi di Mario Nascimbene, di un racconto di rumore e furore che ha inizio con gli esiti devastanti di una guerra osservata prima che vissuta, e che diviene elemento intrusivo e scatenante già nel corso del primo incontro sulla spiaggia. In questa storia tracciata dagli sguardi il paesaggio, San Marino e la progettata visita al Castello di Gradara che fu di Paolo e Francesca, è il teatro necessario alla messa in scena di un crescendo di emozioni leggibile sulla pelle. Un teatro scarno, deserto, vuoto come nelle inquadrature di Antonioni, a sottolineare lo spaesamento e la solitudine dei personaggi, ma che, come le marine ricorrenti nella trilogia, risuona della nostalgia di qualcosa di originario e di irrimediabilmente perduto. Qui gli occhi rivolti al cielo come nei film del maestro Rossellini non scoprono i miracoli delle stelle ma i bengala che illuminano la notte, pietrificando come in un incantesimo i giovani spettatori. E in questa ri-creazione di una relazione d’incanto, la notte, una notte che appartiene alla guerra e alla luna, si premura di nascondere e rivelare, affidando agli occhi di Roberta e al suo scambio di sguardi con Carlo che balla con Rossana [fig. 3], poi ai morbidi movimenti del suo corpo e delle sua braccia quando balla con lui, la regia del segmento che si conclude con l’atteso bacio in giardino sorpreso dall’arrivo della ragazza. Così la spiaggia deserta, divisa tra la notte e l’alba, diviene il luogo di incontri sempre più scandalosi e inaccettabili e Rossi Drago (già protagonista di Le amiche) può ricordare la Vitti di L’avventura con la sabbia tra i capelli [fig. 4]. Piste di sabbia, come le chiama Borri, a disegnare il percorso di Zurlini e del regista ferrarese, ma, nel caso del Nostro, esse riconducono al punto di partenza, a un ritorno spettrale che mai sarà così esplicito come nella Rimini di La prima notte di quiete (1972). Il 25 luglio manda per aria, insieme alla Casa del Fascio e alla carriera di Caremoli padre, l’inerzia vacanziera di Riccione e di un’intera classe sociale. La fuga in treno della coppia verso la villa di Rovigo e una presunta libertà naufraga sotto un rumore di bombe più violento del furore della passione. Se Roberta rinuncia al suo voler essere qualcos’altro oltre che madre [fig. 5], Carlo si avvia lungo i binari dell’incertezza, per raggiungere il Ê»brancoʼ o, futuro Dominici del terzo capitolo della trilogia, per starne fuori per sempre, straniero nella sua stessa casa, nella sua stessa terra. Addii.

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Studiare il corpo (e i corpi) al cinema significa anzitutto considerare due distinte, sebbene interrelate, dimensioni. Da una parte, i film (e in generale i prodotti audiovisivi) rappresentano i corpi: li traducono, cioè, in immagini visive e sonore costruite attraverso molteplici forme di sguardo, caricandoli di significati di volta in volta differenti, e proiettandoli fuori dal mondo fisico e carnale e dentro un universo di fantasie, modelli e repertori immaginari. Dall’altra, i corpi sono anche (e soprattutto) una delle materie principali attraverso cui il cinema, la televisione e le arti elettroniche formano e sviluppano il loro discorso, la loro “parola audiovisiva”: pensiamo, ad esempio, a come i gesti e le voci degli attori e delle attrici partecipino alla produzione e alla messa in forma del racconto nel cinema narrativo, a come la performance corporea stia spesso alla base delle sperimentazioni videoartistiche; o ancora alla centralità assoluta del corpo (parlante, danzante, cantante, in ogni caso “presente”) che ha caratterizzato la comunicazione televisiva fin dalle sue origini.

Pensare il corpo negli scenari mediali obbliga a misurarsi con un oggetto visibilissimo ma intimamente sfuggente. Allo stesso tempo portatore e produttore di senso, il corpo cinematografico si impone come rappresentazione (e, dunque, come incarnazione di una pluralità di significati sociali, culturali, autoriali, e così via) e insieme come entità performativa, capace di creare significati attraverso la propria fisicità.

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