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In più occasioni Calvino insiste sull’ispirazione visiva dei tre racconti fantastici che compongono i Nostri antenati. Lo scrittore ligure non ammette però che accomuna le tre immagini di partenza la stessa sfera metaforica, ovvero la corporeità e le limitazioni alle quali è sottoposta. L’intervento intende esaminare le declinazioni di questa scrittura per immagini che ruota intorno all’idea di superamento dei limiti della corporeità, quale metafora del «realizzarsi come esseri umani». Le metamorfosi a cui è sottoposto il corpo nel Cavaliere inesistente e la loro rappresentazione vengono analizzate come caso esemplare di questo processo creativo che sta alla base della trilogia di Calvino.

Italo Calvino has often pointed out that the three novels of the trilogy Our Ancestors have their primary inspiration in specific images. He, however, has never remarked that the three visual sources belong to the same metaphorical field: the body and its limits. The article examines how Calvino’s literary development of those images revolves around the central issue of overcoming physical limitations as a metaphor for “self-realisation as human beings”. The metamorphoses of the body in The Nonexistent Knight and their literary representation are here investigated as a foremost example of this pivotal process at the core of Calvino’s trilogy.

 

1. Il volto degli antenati

L’attività di autoriflessione di artisti e scrittori è fenomeno ben noto e prezioso per la critica letteraria, dal momento che negli spazi di autocommento spesso si annidano rivelazioni illuminanti sui testi e la loro genesi.[1] Se in molti casi gli autori sono stati parchi nel fornire commenti alle proprie opere, Italo Calvino, per contro, si è dedicato a tale attività in modo potremmo dire sistematico e cospicuo. L’autore ligure non soltanto ha frequentato in modo estensivo la forma saggio, autoinvestigando attraverso gli strumenti della saggistica le proprie scelte poetiche, ma in più occasioni ha dichiarato intenti e significati dei suoi scritti in introduzioni e prefazioni prodighe di dettagli e spiegazioni sui testi che accompagnavano.

La Prefazione del 1964 al Sentiero dei nidi di ragno è forse lo scritto più noto della produzione calviniana di autocommento. Non meno rilevanti e illuminanti, però, sono altri testi prefatori, come ad esempio i due scritti, uno edito e l’altro emerso grazie ai Meridiani mondadoriani, che illustrano genesi e significati della trilogia araldica dei Nostri antenati.

Nel 1960, in occasione della pubblicazione dei tre romanzi in un volume complessivo, Calvino sente infatti la necessità di illustrare le ragioni che fanno di queste opere un ciclo unitario e compiuto. I volumi che compongono i Nostri antenati, benché nati in momenti lievemente differenti (’52, ’57, ’59) – e fortemente ancorati alle circostanze storiche in cui vennero concepiti –, condividono una matrice genetica comune, sulla quale Calvino insiste sia nella versione edita della Postfazione sia nello scritto che non venne pubblicato: questi romanzi – come molte altre opere calviniane – non sono nati da concetti ben distinti e chiari per l’autore, che attraverso la trasfigurazione fantastica li ha voluti descrivere, sono sorti invece da tre immagini, dalle quali poi hanno preso forma delle questioni che in seguito rimangono sempre centrali per Calvino.

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Io sono la tua carne,

la carne eletta del tuo spirito.

Non potrai mai visitarmi nel giorno

prima che il puro lavacro del sogno

mi abbia incenerita

per restituirmi a te in pagine di poesia,

in sospiri di lunga attesa.

Alda Merini, La carne e il sospiro

 

 

Schermata dietro una vetrina in plexiglas, isolata ma (sovra)esposta allo sguardo del pubblico, la regina Erodiàs pare svegliarsi di soprassalto da un sonno senza tempo, scossa dalla propria voce fuori campo che erompe in un grido viscerale «Jokan!», per poi modularsi in gioco di parole, in vibrante catena di metaplasmi: «Lan, Lanjokaan, Jokaslaan, Slanjokaan…».

Il ritmo ipnotico delle variazioni onomastiche con cui la «tragica reina» appella l’oggetto del suo desiderio, il profeta Giovanni il Battista, apre lo spettacolo Erodiàs diretto da Renzo Martinelli e con protagonista Federica Fracassi, basato sul monologo di Giovanni Testori parte del suo ultimo capolavoro Tre lai. Cleopatràs, Erodiàs, Mater Strangosciàs (1994).

Già dalle primissime battute del dramma è impossibile non riconoscere il registro linguistico-espressivo forgiato dal grande autore lombardo, quell’idioletto capace di contorcere il Ê»corpoʼ delle parole attraverso stranianti acrobazie sintattiche, plasmando l’ardore dei personaggi col fervore espressionistico del suo moto continuo. La lingua testoriana è il primo elemento che emerge nello spettacolo di Martinelli, travolgendo da subito lo spettatore nella bufera affabulatoria della sua protagonista: la celebre concubina di Erode alla quale Testori attribuisce una qualità anfibologica e contraddittoria, immaginandola divisa tra una femminilità gravida di passione per il Battista, e un mascolino impulso alla violenza e alla vendetta, suscitato dal netto rifiuto del profeta alle sue continue profferte d’amore.

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Emma Dante ha ormai una intensa esperienza nel campo della regia d’opera e con Macbeth (2017) conferma la vocazione verso uno stile visivo di grande impatto e una recitazione fortemente corporea. Il saggio esplora tre livelli della composizione registica dell’opera – il livello fisico-gestuale, il livello rituale, la commistione fra tragico e comico – e concorre a restituire l’ampiezza di rimandi figurativi e simbolici.

Con il Macbeth co-prodotto dal Regio di Torino, dal Massimo di Palermo e dallo Sferisterio di Macerata (2017), e presentato al Festival di Edimburgo dove ha ottenuto l’Angel Herald Award, Emma Dante si confronta anche inevitabilmente con il genere della tragedia, e con una delle sue realizzazioni più radicali. La sua radicalità scaturisce dall’empatia negativa per il protagonista in preda a conflitti e ossessioni dilaceranti: è un viaggio mentale negli strati più oscuri e notturni della psiche. Non è un caso che questo spettacolo abbia punti di contatto con un’altra esperienza della regista palermitana in ambito tragico, la Medea, un testo altrettanto ricco di empatia negativa e di conflittualità psichica ed etnica.

Anche in questo caso, come nelle regie d’opera precedenti, Emma Dante integra il cast operistico con un gruppo di attori e danzatori, provenienti in parte dalla sua Compagnia, in parte dalla Scuola dei mestieri dello spettacolo del Teatro Biondo di Palermo. Crea così un altro testo parallelo, che si incrocia con quello primario, potenziandone e sviluppandone alcuni nuclei tematici che ora ripercorreremo. Ne scaturisce uno spettacolo corale, potente e dinamico, ricco di registri stilistici poliedrici.

Il primo nucleo è la presenza corporea: quella fisicità degli attori che il teatro di Emma Dante sfrutta fino ai limiti estremi. È infatti un Macbeth strettamente legato alla sfera del sangue, della generazione, del corpo grottesco, e quindi di quell’immaginario popolare ed atavico messo in luce da Michael Bachtin. Tutto ciò risalta soprattutto nelle due grandi scene dedicate alle streghe, rappresentate incinte e accompagnate da uomini con grossi falli con cui si uniscono sessualmente in modo frenetico.

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Riprese audio-video: Francesco Pellegrino, Ana Duque; fotografia: Francesco Pellegrino; foto di scena: Salvo Grasso; montaggio: Ana Duque.

Qui di seguito la trascrizione integrale dell’intervista.

 

D: Il numero di Arabeschi che ospita questo ‘videoincontro’ è incentrato principalmente sull’idea di trasformazioni fisiche, di metamorfosi del corpo. A questo proposito, schematizzando, si potrebbe forse distinguere tra un tipo di trasformazioni corporee che potremmo definire ‘di oppressione’, di tipo verticale, subìte dal corpo (un esempio su tutti è il Salò di Pasolini), e un altro tipo di trasformazioni corporee che potremmo invece definire ‘di liberazione’, dunque non subìte ma agite dal corpo stesso (pensiamo magari all’idea della peste in Artaud). Tale polarità potrebbe essere una delle chiavi del tuo teatro, cioè mi sembra che queste due forze di trasformazione fisica e di azione sui corpi e dei corpi sia costantemente presente sulle tue scene. In che modo pensi che questo avvenga nel tuo teatro, sia nel risultato dei tuoi spettacoli che, si potrebbe aggiungere, nel processo creativo, ossia nel rapporto tra azione coercitiva della regia che permette l’azione liberatoria del corpo dell’attore?

R: Ci sono sicuramente due processi che sono legati anche al tempo in cui si protrae l’intenzione di far vivere gli spettacoli. Due tempi: il tempo della creazione e il tempo della vita dello spettacolo. Io faccio un teatro di repertorio, quindi quando nascono i miei spettacoli mi auguro che vivano per almeno dieci anni e così in alcuni casi è stato. Questo cosa significa? Che nel corso di dieci anni i corpi degli attori che li fanno cambiano, quindi non è soltanto un cambiamento legato alla creazione di quello spettacolo ma anche alla vita, al processo di invecchiamento di quello spettacolo, perché il corpo in quel tempo invecchia, quindi la qualità del movimento cambia. Non dico che peggiora, anzi a volte si affina, si mette a punto, diventa ancora più incisiva. Sicuramente quando io lavoro con i miei attori chiedo sempre loro un grande sforzo, legato proprio alla ricerca di un gesto non naturale, che però deve diventare naturale. Questo è molto difficile, forse li mette in una condizione di ‘prigione’ del corpo: sicuramente per arrivare a questa naturalezza è necessario stare dentro dei paletti, dentro un recinto. Però poi, dopo, risulta ‘liberatorio’, quindi alla fine del processo di creazione loro sono liberi. Eppure non lo sono stati durante la creazione, durante la genesi.

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La realtà di Pinocchio è popolata di forme mutevoli, instabili, in continuo divenire. I personaggi che il burattino incontra nella sua quête assumono, nei reiterati incontri fra le pagine del romanzo, sembianze differenti, di volta in volta rinnovate – complice anche la genesi dell’opera – per opera di magia (come nel caso delle simboliche apparizioni della Fata) o di travestimento (la Volpe e il Gatto, mascherati da assassini), per dissolvimento dell’involucro corporeo (l’ombra del Grillo parlante) o per gli effetti di un destino luttuoso (Lucignolo). Lo stesso Pinocchio, soprattutto, è soggetto a continue trasformazioni: ‘animale da fuga’, come scrive Manganelli, fin dall’esordio il burattino trascende la condizione di pezzo di legno da catasta per affacciarsi alle soglie dell’umanità, ed è esposto lungo la narrazione alla forza attrattiva o repulsiva di altre possibilità e condizioni di esistenza. Una volta allontanatosi da casa, Pinocchio viene riconosciuto come fratello dalla compagnia ‘drammatico-vegetale’ del teatro di Mangiafoco, è costretto a fare il cane da guardia, subisce la metamorfosi asinina destinata a chi soggiorna nel Paese dei Balocchi, si sveste della propria pelle animalesca per ritornare burattino grazie all’aiuto della Fata, viene scambiato per un granchio e per un pesce-burattino dal pescatore verde, e infine, dopo un’ulteriore degradazione bestiale al servizio di un ortolano, abbandona le proprie spoglie legnose per rinascere bambino. Nel corso delle Avventure il suo corpo si definisce come forma plurale, aperta al desiderio ma anche esposta all’asservimento. Diventare appare così un termine chiave nel romanzo, che ricorre a più riprese in relazione sia alle membra di Pinocchio (il naso, che «diventò in pochi minuti un nasone che non finiva mai», i piedi, che dopo aver preso fuoco «diventarono cenere», le orecchie che, crescendo, «diventavano pelose verso la cima», le braccia e il volto che, durante la trasformazione in asino, «diventarono zampe [...] e muso»), sia al suo status («Perché io oggi sono diventato un gran signore»; «il povero Pinocchio [...] sentì che era destinato a diventare un tamburo»), sia agli oggetti che potrebbero giovargli e che invece gli sfuggono di mano (gli zecchini, che si immagina «potrebbero diventare mille e duemila», o il battente sulla porta della casa della Fata, che «diventò a un tratto un’anguilla»). E via via che le Avventure si approssimano alla loro conclusione, la frequenza del termine aumenta, così nel testo come negli argomenti premessi ai singoli capitoli, a segnalare la duplice e compendiosa polarità della metamorfosi asinina e del raggiungimento della condizione umana, e a scandire la progressione inesorabile verso la comparsa finale, più volte prefigurata, del Pinocchio-bambino e la definitiva stasi del suo alter ego ligneo.

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 Il cuore di Pinocchio, pubblicato da Bemporad per la prima volta nel 1917 e poi riedito, in forma ampliata, nel 1923, è parte della ricca produzione di letteratura per l’infanzia a tema bellico che si diffuse negli anni del primo conflitto mondiale. Scritto dal nipote di Collodi – così figura l’autore Paolo Lorenzini sulla copertina del libro – e illustrato da Carlo Chiostri, già autore dei disegni dell’edizione del 1901 del Pinocchio maggiore, questa nuova riscrittura a tema delle avventure del burattino di legno si presenta anzitutto come un testo vicino alla produzione propagandistica vera e propria. Invece di puntare su una generica celebrazione della nazione in guerra, Lorenzini sceglie di affrontare un tema di grande presa sull’opinione pubblica, ovvero quello della mutilazione. Quella raccontata, infatti, è la storia di come Pinocchio, ormai bambino in carne e ossa, si trasformi in un congegno fatto di parti meccaniche assemblate a causa delle numerose ferite riportate combattendo al fronte.

Le innovazioni tecnologiche apportate agli armamenti, così come le modalità di combattimento tipiche della guerra di posizione, avevano determinato la comparsa di nuove forme di ferimento e mutilazione, che spesso producevano effetti devastanti – e inediti – sul corpo dei soldati. Il personaggio inventato da Collodi, col suo corpo metamorfico, al confine tra l’umano e il non umano, si prestava bene a illustrare in maniera didascalica uno dei contenuti centrali della pedagogia della nazione in guerra: il corpo del soldato è una materia malleabile sulla quale, in nome della patria, si incidono i segni della violenza subita al fronte e si possono, di conseguenza, compiere manipolazioni. L’idea che il corpo sia duttile, trasformabile e adatto a essere integrato da protesi artificiali è la premessa alla base di questa reincarnazione di Pinocchio.

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 «Ciò che deve avvenire è già. Ogni albero si riconosce dal frutto»: con queste parole pronunciate da Mastro Ciliegia con fattezze da Fata turchina si apre il Pinocchio di Antonio Latella, enucleando subito il tema portante dell’intero spettacolo: il rapporto padre/figlio, più archetipicamente individuato come la questione della discendenza (e dello scontro generazionale). Perché il mito edipico – ben lontano da costituire solamente la complicazione di un percorso di crescita individuale all’interno del nucleo famigliare (questo almeno nella chiave psicoanalitica che ha gettato luce retrospettiva sulle opere del passato) – rappresentava invece un punto dolente nella costituzione della società civile del mondo antico e non solo, incarnando mimeticamente sulla scena le incognite della successione e dell’eredità. È chiaro dunque, sin dall’esordio, che la gigantesca falegnameria avvolta nell’oscurità in cui si svolge la prima parte dell’azione scenica [fig. 1] inscrive la vicenda del famoso burattino in un orizzonte tragico, ben lontano dai colori da cartone animato della celebre produzione Disney.

Latella non tradisce comunque lo spirito della scrittura originaria, se il romanzo di Carlo Lorenzini (in arte Collodi) era nato per essere pubblicato a puntate su un giornale per ragazzi, concludendosi, nelle intenzioni dell’autore, con la morte del burattino stesso, che penzolava impiccato dalla Quercia, per mano del Gatto e della Volpe. Un macabro finale che Collodi fu costretto a cambiare sotto l’insistenza dei piccoli lettori desiderosi di una sorte migliore per il loro beniamino. Così, lo scrittore toscano diede seguito a quella che, con probabilità, inizialmente non era una fiaba per l’infanzia e inserì nuove peripezie nella vita dell’irrequieto protagonista, coronandole con un lieto-fine centrato sulla sua metamorfosi da bambino di legno a bambino in carne ed ossa.

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1. «Prima la donna»

Entriamo subito nel cuore della recensione: la mostra Lyda Borelli primadonna del Novecento, attualmente in corso presso la Galleria di Palazzo Cini a Venezia (chiuderà i battenti tra pochissimo, il 15 novembre), merita di essere visitata perché ci restituisce il profilo di una donna e di una artista del «nostro tempo», che non è solo quello dei primi anni Dieci del secolo scorso, secondo quanto ricorda Mario Carli nella citazione in esergo tratta da una dedica presente nel romanzo Retroscena del 1915, ma è anche quello del nostro presente, ovvero degli anni Dieci del nuovo secolo. Certo l’immagine e la fama di Lyda Borelli sono indissolubilmente legate all’Italia che si preparava e poi affrontava la Grande Guerra, che era attraversata da sussulti modernisti e iniziava a conoscere grandi trasformazioni negli stili di vita, nell’organizzazione urbana, nelle manifestazioni artistiche. Si tratta tuttavia di aspetti che altre mostre e altri libri si sono già presi il compito di rammentare in precedenti circostanze.

Il merito della personale curata da Maria Ida Biggi, e fortemente voluta dall’Istituto per il Teatro e per il Melodramma della Fondazione Giorgio Cini, è invece quello di aver cercato di compiere un passo in avanti, valorizzando gli aspetti della vita dell’attrice spezzina che parlano anche agli spettatori e alle spettatrici di oggi. Già conoscevamo Borelli per essere stata la più celebre Salomè dei palcoscenici italiani e, forse ancor di più, per essere stata, con Francesca Bertini ed Eleonora Duse, una delle più famose dive del cinema muto internazionale; l’allestimento della Galleria di Palazzo Cini ci restituisce invece una donna a tutto tondo, dove accanto a preziosi materiali dell’epoca che ne documentano il successo professionale (stampe, locandine, recensioni, fotografie di scena) ne emergono altri, altrettanto eterogenei (quadri, costumi, fotografie, vetrini, sculture e molto altro), che esaltano invece la sua straordinaria consapevolezza, contemporanea appunto, nei modi di essere e di apparire, nelle condotte sociali da adottare e nelle passioni da coltivare, fuori e dentro i teatri di posa o i palcoscenici teatrali.

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L’origine della capacità di costruire storie dell’Homo sapiens, a partire dalle teorie darwiniane, ha dato vita a diverse ipotesi che provano a spiegare come il comportamento narrativo possa avere avvantaggiato il genere umano tra tutte le specie, fino a farne l’indiscusso signore del pianeta. Il libro di Michele Cometa, Perché le storie ci aiutano a vivere. La letteratura necessaria (Milano, Raffaello Cortina Editore, 2017), nasce in primo luogo dunque nel tentativo di dare una risposta all’interrogativo posto dal titolo, cioè indagare sulle condizioni e le modalità attraverso le quali la narrazione, la fiction e la letteratura possono essere collocate e comprese entro i paradigmi della teoria dell’evoluzione e delle scienze cognitive, prendendo le mosse da recenti acquisizioni dell’archeologia cognitiva che mettono in relazione la produzione di utensili e lo sviluppo di capacità narrative.

L’innovativa prospettiva dello studio di Cometa propone, inoltre, una riflessione sul perché la narrazione abbia un ruolo decisivo nella costituzione del Sé e delle sue protesi esterne, e sulle possibili risposte che a questa domanda danno i teorici della mente estesa e della cognizione incarnata, mettendo in evidenza il ruolo fondamentale del corpo nello sviluppo del comportamento narrativo. Un contributo importante riguarda inoltre la dimensione necessaria della letteratura come straordinario dispositivo di contenimento dell’ansia, che è alla base della strategia di sopravvivenza della specie umana.

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