In una sequenza famosa di Il sorpasso di Dino Risi (1962), i protagonisti Bruno (Vittorio Gassman) e Roberto (Jean-Louis Trintignant) corrono in auto lungo la via Aurelia e ascoltano Vecchio frac di Domenico Modugno. Bruno commenta: «A me ‘sto Vecchio frac me fa impazzi’. Perché pare una cosa da gnente e invece aho’, c’è tutto. La solitudine, l’incomunicabilità, e poi quell’altra cosa, che va de moda oggi… la… l’alienazione, come nei film de Antonioni. L’hai visto L’eclisse?». Roberto inizia ad abbozzare una risposta, ma Bruno riprende deciso: «Io c’ho dormito, ‘na bella pennichella. Bel regista, Antonioni. C’ha una Flaminia Zagato. Una volta sulla fettuccia di Terracina m’ha fatto allunga’ il collo». La tentazione di leggere in questo dialogo una sorta di gioco post-moderno ante litteram tra cultura alta e cultura bassa è forte, ma muoverebbe in una direzione diversa da quella suggerita dal saggio di Simona Busni (Roma, Edizioni Ente dello Spettacolo, 2019) del quale vorrei scrivere. E dunque, mi limito a notare come nello spazio breve di poche battute Risi e gli sceneggiatori Ettore Scola e Ruggero Maccari abbiano saputo condensare i luoghi comuni che più spesso circolavano – e ancora si ascoltano – sul cinema del regista ferrarese: la crisi dei sentimenti come atmosfera narrativa pervasiva e asfissiante, la cupa pesantezza dei dialoghi, e più di tutti l’alienazione.
Conoscevo alcuni lavori del coreografo e della compagnia Karas, e insieme a colleghi e colleghe del corso DAMS di Padova avevamo individuato nel suo lavoro una possibile tappa di un progetto pluriennale e interdisciplinare.[1] E difatti Teshigawara, che inizia il suo percorso artistico come artista visivo, si confronta via via con una molteplicità di linguaggi e generi: dalla danza alle installazioni, dal cinema al teatro d’Opera, oltre a portare avanti una importantissima attività pedagogica; ha fondato a Tokyo Karas Apparatus,[2] centro di creazione artistica e trasmissione.
Non sorprende che nelle sue opere per la scena rifluiscano pratiche e linguaggi diversi: ne cura costumi, scenografie, luci, scelte musicali.[3] La luce, senza dubbio insieme al gesto motivo portante del suo processo creativo, costituisce spesso anche la zona osmotica tra i vari linguaggi; pensiamo alla scena di Kazahana (2004, Fiore nel vento grossomodo la traduzione): una struttura di elementi verticali che diventa una sorta di sipario di luce[4] simile ad una installazione.
Teshigawara enumerando i suoi interessi fa riferimento anche alle peculiarità dei singoli linguaggi. Al ‘restare’ della scultura (cita Rodin) compara l’inarrestabile movimento del corpo vivente. Nel suo lavoro coreografico in più occasioni la velocità con la quale si susseguono i movimenti ci è apparsa come sfarfallio dell’immagine nella luce, nell’impossibilità per il nostro sguardo di fermarla.