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  • [Smarginature] Vaghe stelle. Attrici del/nel cinema italiano →

Stella brillante di alterne intermittenze, capace di orbitare dall’algido bianco e nero dei film antonioniani alle sgargianti cromie della commedia, Monica Vitti irradia nello scenario del cinema italiano luci e significati differenti, che aprono a riflessioni continue. Parto dunque da lei e dai film dalla cosiddetta tetralogia dei sentimenti (e in particolare mi soffermerò su L’eclisse, 1962) anzi tutto perché questo corpus offre inesauste occasioni di produrre pensiero (cfr. Cuccu 1997, p. 11), ed anche perché, a mio parere, queste prime interpretazioni di Vitti si offrono come performance profetiche e politiche, testimoniando, in un certo senso sotto pelle, il lavorio e il rovello interiore che ha portato molte donne, per vie oblique, negli anni immediatamente successivi, alla pratica del femminismo.

Intendo il termine ‘politica’ in una accezione precisa, che ha a che fare non con partiti, elezioni, logica dello scambio, ma con l’autenticità delle relazioni fra donne e con la capacità di affermare e insieme accogliere la differenza, l’altro da sé. Intendo politica nel suo senso primo, che non significa meramente cercare soluzioni ma porre gli interrogativi

In altre parole, vuol dire guardare al potenziale rivoluzionario del pensiero femminista, fare i conti con la sua radicalità, che sta altrove rispetto alle battaglie della militanza. Mi riferisco in particolare alle elaborazioni del gruppo di Rivolta Femminile, fondato nei primi anni ’70 da Carla Lonzi, che pone, scandalosamente, i corpi al centro del discorso politico. A portarne il segno spiazzante sugli schermi italiani è, secondo me, la Monica Vitti della tetralogia dei sentimenti; è lei a incarnare il Soggetto imprevisto di cui scrive Lonzi nel celebre Sputiamo su Hegel. È un soggetto che nasce da un doppio movimento: dalla decostruzione puntuale del «momento più alto raggiunto dall’uomo (con l’arte, la religione, la filosofia, esattamente in senso hegeliano)» (Lonzi 1978, p. 40); e dalla riflessione autocoscienziale che mette primariamente a tema la sessualità, luogo sorgivo della colonizzazione maschile che, se pure a caro prezzo, può tramutarsi in uno spazio di libertà per le donne, attraverso lo smascheramento del mito della complementarità della coppia. Dall’interrogarsi su di sé, sul godimento femminile e sulle sue infinite rifrazioni sociali ed esistenziali nasce la «donna clitoridea», che ha coscienza della propria e autonoma sessualità e che osa pensare l’impensato, abbandonando le sponde sicure ma anguste della femminilità consentita, e scommettendo, senza alcuna certezza di riuscita, su inauditi modi di esistenza. Questa soggettività nuova non ha niente a che fare con la donna emancipata, che invero conferma, con una rammodernata disponibilità, l’ordine patriarcale, rendendosi ancor più disponibile al desiderio maschile e rimuovendo il proprio.

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I film di Franco Angeli, realizzati tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, sono ancora poco esplorati. Il loro carattere frammentario e lacune documentative ne rendono difficile la ricostruzione. Questo studio, che attinge ad opere e testi inediti, fa luce sulla complessità della ricerca cinematografica dell’artista inserendola nel più ampio panorama del suo percorso creativo. L’analisi traccia dunque una linea che dalla tecnica della velatura pittorica, che Angeli elabora a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta, arriva a quella della sovraimpressione cinematografica. Se la prima immergeva il simbolo - svastiche, falci e martello, lupi capitoline, ‘mezzi dollari’ - nella densità della storia, la seconda attiva il controtempo della relazione tra soggetto e mondo per aprire a nuove possibilità del reale. Per entrambe si tratta di far emergere i fantasmi che increspano la superficie del presente. L’immagine subisce allora un continuo processo di stratificazione, che è luogo della memoria e spazio di trasformazione e metamorfosi del reale.  

Franco Angeli's films, made between late 1960s and early 1970s, are still unexplored. Their fragmented character and documentary gaps make reconstruction difficult. This study, which draws on unpublished works and documents, sheds light on the complexity of the artist's film research and connects it with the widest picture of his creative path. The analysis thus traces a line that from the technique of veiling, which Angeli develops between 1950s and 1960s, comes to that of cinematic double exposure. If the former plunged symbols - swastikas, sickles and hammer, capitoline wolves, 'half dollars’ - into the density of history, the latter activates the relationship between subject and world opening new possibilities of the real. The image thus makes the phantoms emerge to ripple the surface of the present: a continuous stratification process that is the place of the memory and the space of transformation and metamorphosis of the real.

 

Fare il cinema come atto di ribellione e di liberazione individuale; rigettarlo attraverso il disprezzo per raggiungere la capacità di amarlo. 

Franco Angeli, dattiloscritto inedito[1]

 

 

1. Le lacrime delle cose o la materia della memoria

«Non le cose ma le lacrime delle cose».[2] Così Cesare Vivaldi, nel 1960, descrive le opere monocrome che Franco Angeli presenta nella sua prima personale alla galleria La Salita di Roma, dove strati di bende trasparenti – calze di nylon, garza – [3] s’impongono su un colore di fondo creando un’immagine stratificata, complessa. Il dialogo con Burri, che Angeli aveva conosciuto tramite lo scultore Edgardo Mannucci, è già entrato in un territorio di superamento dell’informale dove la materia si alleggerisce nella trasparenza della velatura e il trauma rivive nella leggerezza di un’eco «innestando», come nota Luca Massimo Berbero, «un nuovo rapporto tra peso della materia e levità della percezione».[4] Ferite o memoria delle ferite? Continua Vivaldi:

Un’assenza che tuttavia torna a turbare il presente, come i simboli comunisti e nazi-fascisti che a partire dai primi anni Sessanta Angeli inserisce nelle sue opere. Per lui, nato in una famiglia di salde convinzioni socialiste e antifasciste, che aveva vissuto da bambino l’occupazione tedesca e la liberazione americana, la strada è lo spazio di una memoria dove trauma, storia e ricordi d’infanzia si mescolano in suggestioni visive:

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Abstract: ITA | ENG

A partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, il tema del corpo ha assunto una posizione centrale nella produzione artistica contemporanea. In tale contesto e tra le diverse discipline anche le tecnologie audiovisive elettroniche hanno contribuito allo sviluppo della rappresentazione del corpo, inizialmente attraverso la documentazione di eventi performativi e incoraggiando pratiche di autoriflessività e, successivamente, grazie allo sviluppo di una grammatica di effetti analogici prima e di una sintassi digitale poi, elaborando una riformulazione genetico-strutturale della fisicità umana come risposta a una problematizzazione dello statuto del soggetto. L’uso creativo del linguaggio elettronico ha così consentito una ricerca basata sulle infrazioni della mimesi e della verosimiglianza, affermando autonomia e indipendenza nella rappresentazione di possibili mondi creativi, utopici. In ambito italiano, Alessandro Amaducci ha sviluppato una intensa ricerca sulla rappresentazione del corpo, in particolare quello femminile, delineando possibili forme de “l’altro” che di fatto popolano un universo “altrove”, fantastico. Adottando alcune prospettive teoriche che spaziano dalle teorie letterarie agli studi psicoanalitici, il saggio vuole evidenziare come l’opera di Amaducci dia vita a figure che mettono in discussione il concetto stesso di identità, attraverso processi di trasformazione che avvengono tra moltiplicazioni, anomalie e trasgressioni.

Starting from the 1960’s, the body theme gained a central position in the contemporary art production. In this context and between the various disciplines, electronic audiovisual technologies have also contributed to the development of body representation: at the beginning documenting performing events and encouraging self-reflexive practices and, therefore, thanks to the development of a grammar of analogue effects and of a digital syntax, by elaborating a genetic-structural reformulation of human physicality as a response to a problematization of the subject's status. The creative use of electronic language has allowed a research based on the violation of mimesis and verisimilitude, asserting autonomy and independence in the representation of possible creative and utopian worlds. In the Italian context, Alessandro Amaducci has developed an intense research into the representation of the body, especially the feminine, outlining possible forms of "the other" that in fact crowd a universe "elsewhere", fantastic. By adopting some theoretical perspectives ranging from literary theories to psychoanalytic studies, this essay wishes to highlight how Amaducci's work gives life to figures that question the very concept of identity through processes of transformation occurring between multiplication, anomalies and transgressions.

 

 

1. Una premessa storica, tra attenzione per il corpo e avvento delle tecnologie audiovisive

In epoca recente e, con maggiore precisione, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, il tema del corpo si è imposto come centrale nella ricerca artistica contemporanea, declinato in una varietà di prospettive di analisi che si sono andate espandendo anche seguendo il ritmo degli sviluppi delle tecnologie audiovisive.

Se da un lato questo tema ha attraversato trasversalmente epoche e discipline, riconfermando il corpo come soggetto d’indagine privilegiato delle pratiche ritrattistiche e autoritrattisiche,[1] col tempo si è passati dalla fissità della contemplazione e della rappresentazione alla concezione di una presenza attiva in performance ed happening, momenti spettacolari fondamentali per la Ê»mostrazioneʼ/esibizione del sé e l’incontro con lo spettatore. In tal senso il movimento Fluxus, fautore di una concezione dell’arte che avrebbe dovuto legarsi maggiormente con la vita quotidiana, non per mettere ordine nel mondo, ma per suggerire «metodi di aggregazione capaci di sviluppare processi di conoscenza interna ed esterna, interiore ed esteriore»,[2] ha messo in primo piano il corpo dell’artista nella strutturazione degli eventi, rendendolo protagonista con la sua libertà fisica nella rottura delle gestualità di routine, attraverso la manifestazione di una fisicità a-funzionale e a-logica, tesa a farsi tramite con le sfere dell’inconscio e a innescare una modificazione delle coscienze a partire dall’esperienza del quotidiano.

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Bob Wilson, Bill Viola, William Kentridge oltre a essere tra i nomi più significativi della sperimentazione artistica internazionale, sono accomunati da un’attenzione alla “classicità”, da loro analizzata e riscoperta in qualità di pluralità di saperi ed esperienze dal valore universale. Per ognuno di loro il termine corrisponde di fatto a un insieme di conoscenze che si sono elevate oltre il tempo e lo spazio e che tendenzialmente possono ripetersi all’infinito senza mai essere identiche. In questo divenire costantemente progressivo e mutante, dove nulla si può riproporre come replica assoluta, ma la reiterazione è una chiave evolutiva, nella dialettica con i media elettronici il corpo appare sia come un delicatissimo strumento di apertura alla conoscenza che come una profonda memoria al servizio della stessa. Dopo un breve inquadramento introduttivo il testo, quindi, si propone di percorrere le valenze espressive del binomio corpo-classici nel lavoro dei tre artisti. 

Bob Wilson, Bill Viola, William Kentridge, as well as being one of the most significant names of international experimentation, share a focus on "classicity", analyzed and rediscovered as a plurality of universal knowledge and experiences. For them the word corresponds in fact to a set of knowledges that has elevated beyond time and space and tend to repeat indefinitely, without ever being identical. In this becoming, constantly progressive and mutant, where nothing can be reproduced as absolute replica, but reiteration is an evolutionary key, in dialectics with the electronic media the body appears both as a delicate instrument of openness to knowledge and as a profound memory at the service of the knowledge itself. Therefore, after a brief introduction, the text aims to examine the expressive values of the body-classical binomial in the three artists’artwork.

 

John Cage, the american composer, said “There is no such things that is songless. Sometimes, when we are very quiet, we become more aware of sound then we make a lot of sound”. Martha Graham, the american choreographer said “sometimes when we are very still, we become more aware of movement then when we make a lot of movement”. Classical architecture is simply buildings and trees. The trees an option to see the buildings, the buildings an option to see the trees. The Avanguarde is redescovering the Classics. Socrates said: baby is born knowing everithing; it’s the uncovering of the knowledge that is a learning process.

Bob Wilson[1]

1. Cage, Graham, Socrate. Il tempo, lo spazio, il corpo; l’avanguardia, i classici

A metà del secolo scorso, durante la revisione estetica messa in atto negli scenari della ricerca artistica europea e d’oltreoceano, maturano due direttrici: da un lato prende piede «l’arte come idea», dall’altro «l’arte come azione».[2] Insieme alla messa in discussione di limiti, media e supporti, in questo periodo si va dunque delineando l’affermazione di un pensiero concettuale e di un approccio Ê»proceduraleʼ – a suo tempo già anticipato da Duchamp – in cui assumono importanza sia un’attenta progettualità che l’improvvisazione gestuale e performativa.

All’interno di questo clima l’immagine elettronica, che comincia ad aprirsi un varco proprio nel corso degli anni Cinquanta, per sua natura fisiologicamente procedurale, effimera, immateriale, simultanea, istantanea e leggera, non tarda a incontrare l’approvazione di una parte della sperimentazione artistica e a diventarne protagonista, introducendo nuove forme di comunicazione e di relazione.

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Nel 2016 con un gruppo di dottorandi di Spettacolo dell’Università la Sapienza di Roma, abbiamo tenuto un seminario che si proponeva di riflettere sulla relazione tra corpo, identità e soggetto nelle pratiche teatrali contemporanee. Le tre categorie sono state infatti ambito di riflessione tanto in campo filosofico quanto in quello teatrale. Il seminario nasce da un’interrogazione intorno al termine ʻcorpoʼ, sopravvenuta a partire dalle questioni che la tesi di Dalila D’amico, Le aporie del corpo eccentrico, sollevavano. Che cosa si intende per corpo, di che cosa si parla quando si parla di corpo? Perché si parla di corpo e non di soggetto? Quali funzioni esplica il corpo-identità-soggetto in scena nel repertorio di spettacoli, ambito delle nostre indagini? Quali autori, studiosi, testi ci sono stati d’aiuto per elaborare le nostre analisi e trovare le risposte ai nostri interrogativi?

 

 

Siamo ripartiti da Mondi, corpi, materie, dal terzo capitolo ʻAttore, Performer, Corpo, Spettatoreʼ:

In questa prospettiva, che coglie le trasformazioni della scena teatrale del secondo Novecento, la dominanza di un Ê»teatro-corpoʼ non configura più soltanto la supremazia di un codice che sottomette la parola, ma segnala un cambiamento di paradigma che porta con sé i suoi specifici modi costruttivi: l’agglutinamento, il continuo vs il discontinuo-discreto, le sconnessioni, le posture del corpo in quanto tali e non un attore che compie le azioni previste dalla fabula.

Il corpo, negli ultimi due decenni del XX secolo, ha coinvolto la speculazione di varie discipline, che ne hanno fatto un oggetto d’indagine specifico e non solo un dispositivo da scagliare contro il logos; ci interessava incominciare a scandagliare le forme che va assumendo questa nuova episte­mologia del corpo come soggetto di rappresentazione, consapevoli che il paradigma non è più l’organicità di mente-corpo (embodiment). Difatti nel testo del 2007 ci si chiedeva come questa trasformazione del soggetto fosse descrivibile non solo in termini di perdita di organicità; sosteneva a tal proposito Giorgio Barberio Corsetti:

Se è vero che la danza non ha rappresentato significati e illustrazioni ma energia e azioni (impulsi, turbolenze, agitazioni), possiamo iniziare a inscrivere il corpo-identità-soggetto in una sfera in cui l’energia è compresa?

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Il coreografo Roberto Zappalà ha più volte affrontato all’interno della sua produzione tematiche estremamente connesse alla sua terra e alla sua gente. Emblematico esempio coreutico e drammaturgico è quello, doppio, dedicato alla figura di Sant’Agata, martire cristiana e patrona della città di Catania. A lei, mito narrativo e non solamente religioso, l’artista ha dedicato due opere estremamente interessanti con testi a cura di Nello Calabrò: Instrument 2 e A. Semu tutti devoti tutti?, entrambe collegate ad un più ampio progetto di 'ri-mappatura' del territorio isolano e delle sue contrastanti dinamiche culturali e popolari, cioè re-mapping sicily. Il saggio si propone di attraversare corpi, danza e immaginari connessi alla lettura che Zappalà sceglie di dare al “fenomeno Agata”, vera e propria commistione di sacro e profano. 

The choreographer Roberto Zappalà has created a lot of works related to his land and his people. Two emblematic, choreographic and dramatic examples are the ones connected to Sant'Agata, a Christian martyr and the Catania’s Patron. The artist has dedicated to her (who’s really a narrative myth, not just a religious one) two extremely interesting works, with texts written by Nello Calabrò: Instrument 2 and A. Semu tutti devoti tutti?, both linked to a wider project of ‘re-mapping Sicily’ and its contrasting cultural and popular dynamics. The essay is about bodies, dance and imagination connected to Zappalà’s point of view about "Agata’s phenomenon", a true mix of sacred and profane.

 

1. Il mito di Agata nella produzione di Roberto Zappalà

Roberto Zappalà, coreografo siciliano tra i più apprezzati del panorama contemporaneo, ha più volte affrontato all’interno della sua produzione le urla silenziose di corpi affranti, denigrati, simbolo di un’umanità problematica e a tratti feroce – proprio come la contraddittoria folla che riempie le strade della sua città natia in occasione della festa di Sant’Agata, cristiana patrona di Catania.

A tale figura femminile, che assurge a mito narrativo, l’artista ha dedicato, seppur in forme differenti, due opere estremamente interessanti con testi a cura di Nello Calabrò: Instrument 2 e A. Semu tutti devoti tutti?, entrambe collegate ad un più ampio progetto di ‘ri-mappatura’ del territorio isolano e delle sue contrastanti dinamiche culturali e popolari, cioè re-mapping sicily.

Se si sceglie di raccontare tradizioni e linguaggi siciliani, a prescindere dal medium artistico di riferimento, la santa catanese appare un argomento assolutamente imprescindibile poiché intimamente radicato nell’immaginario locale.[1] Il corpo di Agata torturato e sfregiato da una tirannica volontà maschile, è il fulcro di questa antica ritualità catanese, una devozione popolare che rende il fercolo, e quindi il simulacro carnale della santa, il centro di una festa complessa, cristiana e pagana insieme, dove potere religioso, istituzionale e popolare si fondono in una miscela non priva d’interessi economici; il “rito” dura tre giorni (tre, quattro e cinque) del mese di febbraio, l’ultimo dei quali ne costituisce l’acme poiché dies natalis della martire, cioè momento di passaggio dalla vita terrena a quella immateriale mediante il proprio sacrificio nel nome di Cristo.[2]

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Il tema della metamorfosi dei corpi nelle rifrazioni della videoarte è al centro di questo dossier che offre, grazie a sguardi eclettici, una mappa di significative occorrenze, declinate con grande rigore e puntualità di metodo. Il gruppo di ricerca che si muove intorno al magistero di Sandra Lischi aggiunge al nostro numero monografico dei bagliori e delle onde elettroniche indispensabili per cogliere fino in fondo le vibrazioni di un linguaggio ibrido e mutante per statuto.

 

 

All’inizio ci sono i monitor con le immagini distorte, nella mostra di Nam June Paik alla galleria Parnass di Wuppertal del 1963; insomma, si sa che Paik col suo Ê»gestoʼ ha scoperto la televisione astratta o come diceva nel titolo della sua mostra, la televisione elettronica, cioè diversa da quella che imitava il cinema, la radio, il teatro. Questione di segnali, di campi di energia: la metamorfosi è l’elemento costitutivo dell’immagine elettronica. Ma ci sono anche i volti distorti da Paik, con le deformazioni del presidente Nixon in TV durante le trasmissioni sulla guerra in Vietnam: da subito, dai primi anni del video, il volto, il corpo, diventano la materia prima per una sperimentazione con le immagini elettroniche, sia che provengano dalla televisione quotidiana sia che derivino dalla ricerca sul corpo stesso dell’autore.

All’inizio, però, ci sono anche le utopie delle avanguardie cinematografiche: il film-corpo, la città-corpo di Dziga Vertov che, come in un catalogo inesauribile di meraviglie, di senso e di sensi, ci mostra le possibili metamorfosi consentite dal cinema; non chiamiamole trucchi, scriveva, ma procedimenti, giacché non si tratta di qualcosa di artificioso e di posticcio, né di un maquillage fatto per ingannare. Il cinema ha dentro di sé dei procedimenti per modificare lo sguardo e il pensiero: usiamoli. La storia del cinema d’avanguardia, si sa, è anche storia delle scoperte di tanti diversi Ê»cine-occhiʼ, storia delle possibili, e talvolta attuate, metamorfosi di immagini ma anche di punti di vista (del filmmaker e dello spettatore) e di schermi (come quantità, come consistenza, come invenzione di superfici per la proiezione). È attraversata anche da utopie di attrezzi mobili e ubiqui, di protesi corporee, di macchine da presa piccole, leggere, volanti, capaci di guardare dentro il corpo, di scorgere l’infinitamente piccolo e l’infinitamente lontano, di vedere l’invisibile per far pensare l’impensabile. Indifferenza per il prodotto ben confezionato a favore del processo, il quale è divenire, è metamorfosi. L’idea di cinepresa, e di medium in genere, come protesi ed estensione del nostro corpo e del nostro sistema nervoso, da visionaria è diventata uno dei pilastri della riflessione di Marshall McLuhan negli anni Sessanta del Novecento, ripresa poi dalla videoarte. Pensiamo a Paik che nei primi tempi del video installa dei monitor sul corpo di Charlotte Moorman a mo’ di reggiseno tecnologico (TV Bra for a living sculpture, 1975); e pensiamo a Moorman che Ê»suonaʼ la schiena di Paik, il quale si tende una corda sul dorso come fosse un violoncello (il pezzo è da una composizione di John Cage).

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In questo saggio l’autrice analizza il tema della ferita in un insieme eterogeneo di testi e immagini della prima guerra mondiale. Il corpus analizzato, che include interventi militanti, testi letterari e giornalistici e prodotti propagandistici veri e propri, mostra una grande varietà di strategie retoriche di rappresentazione della violenza subita. L’ipotesi alla base del saggio è che la rappresentazione del corpo ferito non è semplicemente censurata nella produzione che più apertamente fa propri i fondamenti del discorso pedagogico della nazione in guerra; al contrario, come nel caso esemplare del libro per bambini Il cuore di Pinocchio, l’idea della sovranità assoluta che la patria esercita sul corpo dei soldati è espressa senza alcuna censura.

In this paper, the author analyses the representation of wounded bodies in a diverse corpus of texts and images of WW1 culture. This corpus, which includes literary texts, newspapers articles, and propagandistic materials, showcases a wide variety of rhetorical devices aiming to give shape to suffered violence. The hypothesis underpinning the paper is that the representation of the wounded body is not simply censored within those products that openly endorse the core of the pedagogy of the nation at war; on the contrary, as in the case of the children book Il cuore di Pinocchio, the idea of the absolute sovereignty that the homeland exerts on soldiers’ bodies is expressed with no understatement.

 

1. Ferite e valore d’uso

In una illustrazione pubblicata sul numero 10 della Ghirba, apparso nel giugno del 1918, un militare in licenza – probabilmente un graduato – si ferma a chiacchierare con una ragazza davanti a un teatro improvvisato. Due battute galanti, nello stile leggero della Ghirba, accompagnano l’illustrazione:

Il corpo del soldato, in realtà, appare perfettamente integro, non ci sono fasciature evidenti, né mutilazioni in vista. Un cortocircuito abita la scena: gli effetti della violenza sono appena accennati attraverso il codice verbale ma sono del tutto assenti dall’immagine. Si apre una discrepanza tra ciò che si vede e ciò che si dice, perché mentre per lo spettatore le ferite restano nascoste, per la ragazza corteggiata esse sono il segno – verrebbe da dire il supporto – su cui si innesta l’attrazione verso il soldato: la ferita è la metonimia del coraggio maschile, il residuo tangibile dell’esperienza virilizzante del combattimento, il marchio che ‘erotizza’ il corpo che lo reca e lo rende desiderabile. La risposta del soldato sigilla questo piccolo cerchio di figure: le ferite reali – eppure invisibili all’occhio esterno dello spettatore – producono una ferita metaforica, un vulnus al cuore in cui, in nome del binomio di piacere e sofferenza, il desiderio e il suo doppiofondo masochistico si saldano insieme. I segni della violenza subita parlano di una maschilità compiuta,[2] letteralmente guadagnata sul campo di battaglia e dunque pronta ad essere ricompensata sessualmente. Il dolore della lacerazione della carne non ha posto in questo quadro: se il linguaggio allude alla realtà effettiva di quelle lacerazioni, tutto nella vignetta spinge per cancellarla, trasporla sul piano delle metafore, trasformarla in uno degli enunciati ideologici centrali nel discorso della propaganda bellica: il corpo del soldato ha il suo dover essere in una versione lacerata – o eventualmente distrutta – di sé. È solo in quella lacerazione, il cui dolore non può essere pronunciato, che quei corpi maschili si compiono, svelando la propria disponibilità ad essere usati e liquidati in nome di una rete di enunciati performativi sul sacrificio e la patria che sono alla base del discorso nazional-patriottico moderno.[3] La ferita aumenta il valore d’uso di quel corpo, che diviene attraente, forte e coraggioso proprio in virtù del suo essere lacero. In questa economia paradossale, più il corpo si approssima alla distruzione e più il suo capitale simbolico aumenta. Il corpo inservibile, il cadavere, è quello che vale di più.

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