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Questo articolo si propone di mettere in luce un aspetto della produzione di Stendhal sulle arti visive, facendo leva sull’”Histoire de la peinture en Italie” (1817) e su altri testi. Nello specifico, si nota in Beyle un approccio storicista che lo porta a mettere in guardia il lettore sulle differenti abitudini visive e sui diversi codici culturali del pubblico a lui contemporaneo quando si confronta con opere del passato, legate a contesti completamente diversi. Stendhal sottolinea frequentemente l’abisso che separa l’epoca moderna da quelle antiche, e la necessità per lo spettatore di cercare di avvicinarsi alla mentalità del pubblico delle opere del passato per poterle comprendere in profondità. 

This article aims to tackle a specific aspect of Stendhal’s works on visual arts, taking into account the “Histoire de la peinture en Italie” (1817) and some other texts. In particular, the author highlights Beyle’s historicist approach that leads him to make the reader aware of the different “visual habits” and cultural codes of his contemporaries as they look at works of art of the past, rooted in radically different cultural contexts. Stendhal often points out the gap separating the modern age from the past epochs and hence the need to get closer to the mindset of the ancient public in front of works of the past in order to understand them in depth.

 

1. Introduction

C’est désormais un lieu commun de l’histoire de l’art de même que de la critique littéraire, la nécessité d’étudier non seulement le public auquel une production artistique s’adresse – ce qui permet de mieux en comprendre ce que Jauss[1] définissait l’«horizon d’attente» de l’œuvre – mais aussi sa postérité, voire sa fortune critique,[2] qui évalue la façon par laquelle une œuvre a été connue, perçue et jugée à travers les siècles. Si la ‘réception’ est désormais une partie intégrante de l’histoire de l’art, des recherches sont encore à faire sur les origines d’une telle approche. Je ne me réfère pas, bien sûr, aux bien connues théorisations du XXe siècle,[3] mais à la présence d’une idée de réception dans la critique et l’histoire de l’art des siècles précédents.

Dans cet article, je me propose de montrer que l’un des caractères originaux de Stendhal est justement l’importance qu’il a attribuée aux problèmes de la réception de l’œuvre d’art ou de l’artiste. En effet, l’un des leitmotivs de son Histoire de la peinture en Italie (1817), mais aussi d’autres textes consacrés aux arts visuels, est l’attention qu’il prête au contexte et au public pour lequel une œuvre est produite, à l’écart qu’il y a entre le public contemporain de l’œuvre et le public des époques suivantes, notamment le public de son temps, qui non seulement a perdu certaines habitudes perceptives, mais qui, la société ayant changé, a d’autres idéaux et d’autres valeurs. Enfin je vais illustrer le rôle que les thèmes de la réception et de la postérité de l’œuvre jouent chez Stendhal.

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Ci sono libri che hanno il pregio di essere oggetto di interesse di ambiti di studio diversi; sono libri che per essere compresi fino in fondo richiedono sensibilità e competenze complesse, rivelando quanto la separazione moderna tra le discipline sia limitante.

È questo il caso delle Idées italiennes sur quelques tableaux célèbres, pubblicate a Firenze nel 1840 sotto il nome di Abraham Constantin, un pittore su porcellana che all’epoca godeva di un certa reputazione. Si tratta di un libro enigmatico per vari motivi. In primo luogo perché è un testo a due mani: Constantin e Stendhal. In secondo luogo perché esso ha un aspetto ibrido, a metà tra la monografia su Raffaello, la guida alle maggiori opere pittoriche e scultoree in Roma e il manuale di educazione del gusto. D’altro canto si tratta di un libro ‘prezioso’ per lo storico dell’arte e per lo storico della critica, poiché costituisce un importante capitolo della fortuna critica di Raffaello nell’Ottocento.

Le Idées italiennes hanno posto per più di un secolo e mezzo numerosi interrogativi: sebbene il testo risulti pubblicato sotto il nome di Constantin, è stato in passato ipotizzato che l’autore fosse Stendhal e che comunque lo scrittore vi avesse posto la sua mano, ma senza che venissero distinte le parti attribuibili all’uno o all’altro. Ora questa condizione di incertezza filologica è stata dissipata del tutto grazie all’edizione curata da Sandra Teroni e da Hélène de Jacquelot (Paris, Beaux-Arts de Paris, 2013).

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Dilettante

di

     

Tranchino, stendhalianamente e savinianamente, non lavora […], si diletta: dipinge cioè con diletto, con piacere, come in una prolungata vacanza – tanto prolungata –, continua ed intensa da assorbire interamente la sua vita. E forse appunto da ciò nasce l’attenzione, il sodalizio, l’amicizia che ci lega: dal reciproco riconoscerci dilettanti, proprio nel senso di cui discorreva Savinio per Clerici. E non che il dilettarsi escluda i “latinucci”, la ricerca, l’inquietudine, il travaglio, il guardarsi dentro a volte con sgomento e il guardar fuori con prensile attenzione e a volte avidamente: ma in una sfera, sempre, di “divertimento”, di gioco esistenziale.

L. Sciascia, Dipingere con diletto (1986)

La dimensione ludica e la leggerezza che sembra essere in essa implicita, il gioco esistenziale e il «divertimento» di cui parla Sciascia a proposito della pittura di Gaetano Tranchino non appaiono sempre in modo palese ad una prima lettura delle sue pagine. Invece, proprio nella chiave etimologica suggerita dallo scrittore, l’aggettivo “dilettante” ben si addice alle escursioni sciasciane nel mondo delle arti figurative, all’interno del quale, rivendicando la propria posizione di «appassionato incompetente», egli si sente libero di riconoscere amicizie e sodalizi nati dalla reciproca condivisione del «diletto». La «prolungata vacanza» di Tranchino, e «il piacere di dipingere» che basta a se stesso per Aldo Pecoraino, si incontrano con il piacere di scrivere e di leggere (e di rileggere) di Sciascia (che ha fatto sua la massima di Montaigne «je ne fais rien sans joie») e si pongono sulla stessa linea dello «svagato deambulare di Fabrizio Clerici», identificato inequivocabilmente da Savinio come «indizio sicuro di stendhalismo». Come ha notato giustamente Marco Carapezza (in occasione di un seminario sciasciano dedicato proprio al Piacere di vivere), «è quella di Sciascia e di Clerici un’amicizia tutta interna ad un itinerario saviniano», in cui – aggiungiamo noi – si definisce e viene sempre riproposta quella che potremmo chiamare la ‘funzione Stendhal’. Senza pretendere di sciogliere la complessità e l’importanza che riveste lo scrittore francese per l’opera sciasciana, qui si vuol soltanto sottolineare la dimensione visuale che essa assume e che si specifica accostandosi al mondo figurativo dei pittori più amati dall’autore di Todo modo.

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