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Lo scorso Gennaio, tra l’8 e il 9, sono scomparsi nella medesima notte un autorevole accademico e un incollocabile outsider. Entrambi rispondevano al nome di Mario Perniola. Un’intera vita, quella di Perniola – fin dagli anni ’60 una delle voci più interessanti e originali in assoluto del dibattito sull’estetica e sulle arti contemporanee – vissuta perennemente in bilico tra questi due modi d’essere, con la rara e straordinaria capacità di far sì che si alimentassero costantemente a vicenda. Era andato da pochi anni in pensione dal suo trentennale ruolo di docente all’Università di Roma “Tor Vergata” – seguìto a più di dieci anni di insegnamento all’Università di Salerno –, ma il suo percorso istituzionale s’era da sempre mosso in modo assolutamente anticonvenzionale, lontano dalle ‘parrocchie’ politiche e accademiche, votato a un’eterodossia che lo ha sempre portato a tendere l’orecchio alle realtà artistiche e speculative meno scontate, tra le avanguardie e le posizioni più inconsuete: dalla sua vicinanza con il movimento situazionista e dall’amicizia con Guy Debord, fino ad arrivare alle più estreme speculazioni sul post-umano e sull’inorganico, passando per le vertigini delle riflessioni sulla letteratura (e sulla metaletteratura) e sul pensiero di Georges Bataille, che egli, fra i primissimi, fece conoscere al pubblico italiano.

E sembra quasi che, con le sue ultime due pubblicazioni, Perniola abbia voluto tentare il lascito di una sorta di estremo testamento. Con il sottotitolo Storiette, esce nel 2016, per i tipi di Mimesis, Del terrorismo come una delle belle arti e le storiette del sottotitolo erano, appunto, brevi racconti che, fondendo la finzione letteraria all’autobiografia, ripercorrevano le tappe cruciali che hanno intrecciato, nel fitto ordito della sua vita, la riflessione filosofica agli avvenimenti politici, sociali e culturali che ha attraversato.

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