Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
Abstract: ITA | ENG

Nasty Women (=donne sgradevoli) è la definizione che un piccolo gruppo di studiose, storiche del cinema e archiviste cinetecarie hanno dato alle protagoniste non convenzionali di film comici muti per proporne una valorizzazione nell’ambito dei festival cinematografici di settore, nonché una chiave di lettura più determinante nella stratificazione delle dinamiche sociali legate alle prospettive di genere. Infatti, le studiose Maggie Hennefeld (University of Minnesota, Minneapolis), Laura Horak (Carleton University, Ottawa) ed Elif Rongen-Kaynakçi (EYE Filmmuseum, Amsterdam) si riferivano esplicitamente a quello che è diventato una sorta di grido di battaglia femminista dall’ottobre 2016, quando durante la campagna elettorale di Donald Trump, in un dibattito televisivo tra i candidati alla presidenza degli Stati Uniti, Trump ha interrotto Hillary Clinton sibilando nel microfono «such a nasty woman» («che donna odiosa»). Figure comiche come Léontine, Rosalie, Cunégonde, Lea, Gigetta, Tilly e Sally hanno interpretato ruoli in grado di smascherare il potere patriarcale, smarcandosi dalla rigidità delle norme sociali primonovecentesche, travolgendole insieme con noncuranza distruttiva e allegra incoscienza, per scardinare gli assunti sul decoro fisico femminile. L’idea della deflagrazione dello spazio domestico, come il leitmotiv della catastrofe in cucina, si basa sulla convenzione dell’ambiente casalingo come luogo in cui i confini tra le sfere del pubblico e del privato, separate sulla base dell’identità di genere, vengono messi in discussione, nel potere irriverente della vis comica. La Nasty Woman è una burlona da slapstick, il cui spirito distruttivo è incontenibile e demolisce le griglie delle norme istituzionali del proprio tempo in una fisicità gioiosa e alternativa.

«Nasty Women» is the definition that a small group of scholars, film historians and film archivists have given to unconventional female protagonists of silent comedy films in order to propose an appreciation of them in the context of industry film festivals, as well as a more decisive key in the layering of social dynamics related to gender perspectives. In fact, scholars Maggie Hennefeld (University of Minnesota, Minneapolis), Laura Horak (Carleton University, Ottawa) and Elif Rongen-Kaynakçi (EYE Filmmuseum, Amsterdam) were explicitly referring to what has become something of a feminist battle cry since October 2016, when during Donald Trump's election campaign, in a televised debate between the candidates for the U.S. presidency, Trump interrupted Hillary Clinton by hissing into the microphone «such a nasty woman». Comic figures such as Léontine, Rosalie, Cunégonde, Lea, Gigetta, Tilly, and Sally have played roles that unmask patriarchal power, untangling themselves from the rigidity of early 20th-century social norms, sweeping them together with destructive nonchalance and cheerful recklessness to unhinge assumptions about female physical decorum. The idea of the deflagration of domestic space, like the leitmotiv of catastrophe in the kitchen, is based on the convention of the home environment as a place where the boundaries between the spheres of public and private, separated on the basis of gender identity, are challenged, in the irreverent power of the vis comica. The «Nasty Woman» is a slapstick prankster whose destructive spirit is irrepressible and demolishes the grids of the institutional norms of her time in a joyful and alternative physicality.

 

1. ‘Nasty Women’: dal patriarcato contemporaneo alle figure femminili del patrimonio cinematografico comico del primo Novecento

Le studiose e curatrici Maggie Hennefeld (University of Minnesota, Minneapolis), Laura Horak (Carleton University, Ottawa) ed Elif Rongen-Kaynakçi (EYE Filmmuseum, Amsterdam) [fig. 1] si riferivano esplicitamente a quello che è diventato una sorta di grido di battaglia femminista dall’ottobre 2016, quando durante la campagna elettorale di Donald Trump, in un dibattito televisivo tra i candidati alla presidenza degli Stati Uniti, Trump ha interrotto Hillary Clinton sibilando nel microfono «such a nasty woman» («che donna odiosa»). «Nasty Woman» è dunque diventato virale sui social network in una direzione e significato opposto all’insulto di Trump: è diventato un simbolo femminista, di rifiuto della discriminazione e dell’abuso patriarcale verso un nuovo movimento politico femminista.

È in questo contesto che le studiose sopra citate propongono una presa di posizione dichiaratamente femminista nell’analisi storiografica e nel processo di valorizzazione di figure comiche del cinema muto: figure come Léontine, Rosalie, Cunégonde, Lea, Gigetta, Tilly e Sally hanno interpretato ruoli in grado di rivelare il potere patriarcale, smarcandosi dalla rigidità delle norme sociali primonovecentesche, travolgendole insieme con noncuranza distruttiva e allegra incoscienza, per scardinare gli assunti sul decoro fisico femminile. Le ‘Nasty Women’ mettono alla prova i confini e ribaltano gli stereotipi di genere, compresi quelli poi riprodotti dal cinema commerciale, all’opposto delle immagini hollywoodiane delle donne all'inizio del XX secolo, le quali invece si ponevano molto spesso sulla falsariga dell’immaginario stilnovista che ha caratterizzato la rappresentazione delle donne per secoli.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

Abstract: ITA | ENG

Il presente saggio è dedicato al caso di studio dell’adattamento Incendies (2010), film di Denis Villeneuve (presentato in Italia con il titolo La donna che canta), tratto dalla omonima pièce di Wajdi Mouawad. Si tratta di un esempio in cui è necessario intrecciare e sovrapporre gli apporti diversi provenienti dalla mitocritica e dagli studi sull’intermedialità, al fine di evidenziare le variazioni intersemiotiche, le costanti e le metamorfosi di un mito che mostra ancora, a dispetto della millenaria storia ricettiva, la sua profonda vitalità e la sua persistenza nel nostro immaginario. I due testi infatti lasciano emergere nella loro complessa stratificazione intertestuale, insieme a diversi riferimenti al mito classico, evidenti rimandi alla tragedia edipica, riscritti e riletti in un contesto di dislocazione complessiva, che investe personaggi, spazi, temi e struttura. Puntando lo sguardo soprattutto su due aspetti, quello della costruzione drammaturgica e quello del motivo della cecità, si intende evidenziare l’originale scambio dialogico che i due testi intrattengono con la fonte classica.

This essay is dedicated to the case study on the adaptation of Incendies (2010), a movie by Denis Villeneuve (presented in Italy under the title La donna che canta), based on the homonymous piece by Wajdi Mouawad. It is an example which requires to interweave and overlap the various approaches derived from myth criticism and from the studies on intermediality, in order to highlight the intersemiotic variations, the constants and the metamorphoses of a myth which – despite its thousand years history of reception – still offers a profound vitality, and persists in our imagination. From the two texts, in their complex intertextual stratification, together with several references to classical mythology emerge clear echoes of the oedipic tragedy, albeit rewritten and filtered in a context of overall dislocation which affects characters, places, themes and structure. The specific focus on two aspects – the construction of the dramaturgy and the theme of blindness – intends to shed light on the original dialogical exchange both texts cultivate with their classical source.

 

Il film Incendies (2010) di Denis Villeneuve (presentato in Italia con il titolo La donna che canta), nato dall’adattamento per il grande schermo della omonima pièce di Wajdi Mouawad, mostra nella sua complessa stratificazione intertestuale e intermediale, insieme a diversi riferimenti al mito classico, evidenti rimandi alla tragedia edipica, riscritti e riletti in un contesto di dislocazione complessiva, che investe personaggi, spazi, temi e struttura drammaturgica. La pièce dell’acclamato artista libano-canadese, Incendies (2003), secondo atto della quadrilogia scenica Le sang des promesses (che comprende Littoral, 1999; Forêts, 2006 e Ciels, 2011) lascia emergere echi molto evidenti rispetto al testo sofocleo e alla sua tradizione e ricezione, echi che vengono ripresi e rideclinati nella trasposizione cinematografica in modo a volte originale a volte fedele alla scrittura di Mouawad. Il presente studio propone dunque un caso in cui è necessario intrecciare e sovrapporre gli apporti diversi provenienti dalla mitocritica e dagli studi sull’adattamento, al fine di evidenziare le escursioni transmediali e le variazioni intersemiotiche, le costanti e le metamorfosi di un mito che mostra ancora la sua profonda vitalità e la sua persistenza nel nostro immaginario.

La prospettiva di indagine che si intende adottare è volta, in altri termini, a evidenziare la complessità della relazione fra i due testi: Incendies di Villeneuve non viene scelto cioè come semplice caso di adattamento, ma come esempio della dimensione intertestuale che investe a vari livelli qualsiasi trasposizione da un testo ad un altro e qualsiasi traduzione intersemiotica. Nell’analisi del processo di riscrittura da cui deriva il film ciò che si vuole rilevare in questa sede è il confronto con lo strato più profondo del palinsesto, con la fonte sofoclea e con la memoria mitica rispetto alla quale l’Edipo re rappresenta a sua volta una versione (seppur la più nota), nonché con la sua ponderosa tradizione ricettiva. La natura «multistrato»[1] dell’adattamento, messa in evidenza da Linda Hutcheon richiamandosi ai numi tutelari delle teorie della intertestualità (da Kristeva, a Genette a Barthes),[2] appare in questo caso in tutta la sua più feconda luminosità. Il rapporto fra il film e la pièce rende visibile (in senso letterale, come si mostrerà più avanti) in maniera emblematica l’«incrocio di superfici testuali», il «dialogo tra parecchie scritture», il «mosaico di citazioni» per cui «ogni testo è assorbimento e trasformazione di un altro testo»[3] e dunque la paradigmatica struttura a palinsesto di ogni adattamento. Per quanto ci si concentrerà sulle tracce del fantasma edipico presenti nel film e nella pièce, il focus del discorso rimane però il passaggio dall’uno all’altro ‘incendio’ e la considerazione del film come prodotto di una transcodificazione e come processo ermeneutico e creativo.[4]

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] Vaghe stelle. Attrici del/nel cinema italiano →

Nel corso degli ultimi anni, la circolazione del cinema italiano neorealista negli Stati Uniti è stata al centro dell’interesse di diversi studiosi. La fama del neorealismo fu consacrata in parte grazie al successo critico e di botteghino, e con le nomination all’Oscar per Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica. In particolare, il successo clamoroso di Roma città aperta di Rossellini, che rimase in programma al World Theater a New York per cento settimane di fila, stimolò l’appetito del pubblico di New York e altrove per i film stranieri, e diede il via nel dopoguerra al movimento degli arthouse negli Stati Uniti.

New York era nel dopoguerra una città molto importante per lo spettacolo cinematografico: i film stranieri costituivano fino all’80% delle pellicole proiettate nelle sale arthouse, e nel 1958 la metropoli occupava il 60% del mercato nazionale per la cinematografia straniera. Il mutamento di prospettiva teorica nei film studies degli ultimi anni verso la storiografia ha comportato una crescita di attenzione verso il pubblico e la ricezione, e insieme l’interesse nei confronti dello studio della distribuzione e dell’esercizio basato sulla ricerca archivistica. La storiografia del cinema, analizzando questo periodo, ha avanzato due ipotesi principali: la prima, che esisteva in quel periodo una distinzione netta tra sale arthouse (frequentate dalla ‘intelligentsia’ urbana) e i cosiddetti ‘ethnic theaters’, che si trovavano nei quartieri per gli immigrati, e che programmavano film in lingua straniera, spesso senza sottotitoli inglesi. Questa vulgata storica, secondo la quale il cinema d’autore europeo, con in cima il neorealismo italiano, avrebbe offerto al pubblico più esigente un prodotto esclusivo, ci è stata resa familiare da studiosi come Gomery (1992), Wilinsky (2001) e Balio (2010). Le fonti a cui questi hanno attinto sono le riviste specializzate di cinema tipo Variety, e le recensioni pubblicate da giornali come The New York Times.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

1 2