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L’articolo esplora il ruolo del fuoco come elemento visivo fondamentale per la costruzione di una mitologia dello sviluppo industriale nella cultura visuale dell’Italia del ‘miracolo economico’. Attraverso le sue diverse rappresentazioni si configura infatti un’immagine stabile che sintetizza l’idea di progresso del tempo: la ciminiera che svetta contro il cielo azzurro con una fiamma alla sua sommità, che diventa una vera e propria icona di questo periodo. Partendo dai lavori della Panaria Film realizzati nell’immediato secondo dopoguerra, dove il fuoco è incluso dentro un tempo arcaico e mitico prima di Prometeo, il saggio affronta le trasformazioni di questa icona in alcuni casi di studio esemplari che riguardano sia il nord sia il sud Italia, per analizzare infine alcuni esempi che propongono invece una lettura critica del mito del progresso industriale attraverso un lavoro di decostruzione iconografica del fuoco. Con questo percorso il saggio intende mostrare la rilevanza di una prospettiva elementale per sviluppare un’analisi storico-culturale nella cornice della nuova teoria dei media. 

This paper explores the role of fire as a fundamental visual element for the construction of a mythology of industrial development in the Italian visual culture of the ‘economic miracle’. In fact, through its different representations a stable image is configured that summarizes the idea of progress of the time: the chimney standing out against the blue sky with a red flame at its top, which becomes an icon of this period. Starting from the works of Panaria Film produced immediately after the Second World War, where fire is included in an archaic and mythical time before Prometheus, the essay addresses the transformations of this icon in some exemplary case studies that concern both Northern and Southern Italy, to finally analyse some examples that propose a critical reading of the myth of industrial progress through the iconographic deconstruction of fire. Through these stages, the essay aims to show the relevance of an elemental perspective to develop a historical-cultural analysis in the framework of the new media theory.

3.3. Il mito del fuoco. Media elementali e modernizzazione italiana

di Giacomo Tagliani

Immersa in un paesaggio fuori dal tempo, una ragazza si incammina sulla battigia con un pentolino di coccio e un paio d’uova. Inginocchiatasi in riva al mare, appoggia il tegame sulla sabbia tra i fumi sulfurei che sgorgano dal sottosuolo per cucinarsi un pranzo frugale [fig. 1]. Una languida melodia d’archi lascia improvvisamente il posto all’allegro fraseggio di un flauto suonato da un giovane pastore che ha abbandonato il gregge attratto dalla ragazza. La voce fuori campo, piuttosto parsimoniosa nel concedersi, commenta ora compiaciuta: «Sulla petraia che ribolle e si scuote ardente, terra impastata di fuoco, tra le gialle rovine di montagne esplose, nascono fauneschi amori. È un mondo umano e mitico assieme». La scena è un momento cruciale di Isole di cenere (1947), uno dei cortometraggi prodotti dalla Panaria Film del Principe Francesco Alliata di Villafranca che ritraggono le Isole Eolie nell’immediato secondo dopoguerra: dopo aver mostrato le difficili – ma tutto sommato felici – condizioni sull’isola di Vulcano, questo amore pronto a sbocciare è infatti interrotto dal risveglio dello Stromboli, «furibonda e fiammeggiante montagna», che ricorda come la vita, in questo lembo del Tirreno, sia sempre contigua alla morte.

I film della Panaria non sono certo un caso isolato nel panorama documentaristico italiano per quanto riguarda il racconto di un’Italia dove l’arcaicità sopravvive a fianco del desiderio di modernità, ma qui il richiamo alla dimensione mitologica – anche in termini ironici e caricaturali – ha un peso decisivo nel rappresentare un mondo originario nel cuore del Ventesimo Secolo, anche perché è la Sicilia stessa a riattivare il «tempo divino» dei propri vulcani «nel pieno dell’epoca contemporanea» (Di Girolamo, Rimini 2023, p. 89). Effettivamente, la realtà di cui fa esperienza l’anonima protagonista della storia si riduce a pochi tratti essenziali, il padre, l’umile casa, un solo possibile amore, sino alla scena descritta inizialmente, nella quale il mondo si riduce ai quattro elementi fondamentali: acqua, terra, aria, fuoco. Un fuoco, però, non ancora addomesticato, espressione di una condizione pre-prometeica che la nuova epica della nascente modernità industriale stava per spazzare via, mostrando come sia proprio la sottomissione della materia al volere umano a costituire uno degli aspetti fondamentali di quell’ingente coacervo di trasformazioni sociali e culturali meglio conosciuto come ‘Miracolo economico’ (Palmieri 2019, pp. 120-123). Di fatto, una nuova origine dell’umanità, pienamente conforme alla retorica dello sviluppo, che necessita di mitologie adeguate per poter essere inquadrata dentro schemi di senso comprensibili e condivisi.

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Il cinema di Michelangelo Antonioni è pieno di indagini fallimentari votate alla scomposizione: interminabili e inconcludenti esercizi di blow-up finalizzati all’affermazione del cosiddetto ‘mistero dell’immagine’. E se fosse possibile applicare il blow-up ai paesaggi dei suoi film allo scopo di ridurli allo stato elementare (acqua, aria, terra, fuoco)? Quale elemento risulterebbe predominante? E, soprattutto, in che modo lo sguardo del regista-scrittore-pittore si rapporta al fuoco e, in particolare, al vulcano come ultimo enigma simbolico della dimensione meridiana? Dalle isole vulcaniche di L’avventura alle montagne incantate, passando per i numerosi deserti (realistici, emozionali, metropolitani, industriali) del suo cinema – L’eclisse (1962), Il deserto rosso (1964), Zabriskie Point (1970), Professione: reporter (1974) –, l’obiettivo è quello di rintracciare i segni del fuoco e le loro più significative manifestazioni.

 

 

Questa idea si colloca in un posto imprecisato. Qualsiasi riferimento con la realtà è casuale.

Michelangelo Antonioni

 

Una volta le isole Eolie erano tanti vulcani…

Giulia (Dominique Blanchar), L’avventura (M. Antonioni, 1960)

 

Nel 1966 Michelangelo Antonioni gira Blow-Up, il film che traduce più fedelmente i termini del suo scetticismo nei confronti della realtà. Oltre a comprovare l’irrilevanza narrativa della detection (come topos emblematicamente atopico), l’indagine fallimentare del fotografo protagonista raddoppia a livello del contenuto l’ossessione formale nutrita dell’autore per il cosiddetto ‘mistero dell’immagine’:

 

 

Quello che vi propongo in questa scheda non è altro che un innocente esperimento critico di blow-up, messo in atto nel tentativo di scomporre una porzione di paesaggio rappresentato nel cinema antonioniano fino a ridurlo alla sua dimensione elementare. Qual è l’elemento, in assoluto, più presente?

Essendo il suo sguardo registico contaminato da potentissime infestazioni memoriali, una risposta plausibile potrebbe riguardare la natura selvaggia del Delta (felicemente eternata nel finale di Gente del Po, 1963-67, prim’ancora di diventare prerogativa neorealista per Visconti e Rossellini): le acque del fiume e del mare, fuse in un aggiogante enigma materico, che include anche lo strato uniforme, setoso, del cielo e quello screziato della sabbia [fig. 1]. Acqua, aria e terra, dunque, come elementi riconvocati negli anni da Antonioni in una combinatoria visionaria di climatescapes, tendenzialmente, autunnali, freddi e nebbiosi (Nowell-Smith 2015) – ben poco meridiani, come testimoniano le immagini tratte da film quali Cronaca di un amore (1950), La signora senza camelie (1953), Le amiche (1955), Il grido (1957), La notte (1961), Identificazione di una donna (1982), Al di là delle nuvole (1995).

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Sebbene La Montagne infidèle (1923) nasca come reportage, ci si rende subito conto che più che soddisfare il bisogno d’informazione e di istruzione previsto da questo genere di film, il lavoro di Epstein presenta una portata di valore teorico e non è un caso se di lì a qualche anno il cineasta pubblicherà il fondamentale Il cinematografo visto dall’Etna (1926). Si è qui scelto, in particolare, di strutturare in sette voci la riflessione sul paesaggio che attraversa il film e che si rivela coerente con la visione epsteiniana del rapporto tra il cinema e il mondo naturale poi espressa e sviluppata dal teorico francese negli scritti degli anni successivi. La voce ‘Paesaggio-teoria’ apre la nostra analisi ricordando come per Epstein il concetto di paesaggio conservi una matrice romantica filtrata però dal modernismo degli anni Venti e soprattutto sia connesso alla ricerca fotogenica nelle sue diverse articolazioni. Le altre voci entrano quindi nel dettaglio della fotogenia del paesaggio abbinandolo a termini tematici e formali salienti nel film e nella teoria del cinema di Epstein: ‘Paesaggio-primo piano’, ‘Paesaggio-personaggio’, ‘Personaggio-metamorfosi’, ‘Paesaggio-corpo’, ‘Paesaggio-suono’, ‘Paesaggio-storia’.

Although La Montagne infidèle (1923) was created as a reportage, one soon realises that more than satisfying the need for information and education expected of this kind of film, Epstein’s work has a theoretical value and it is no coincidence that a few years later the filmmaker would publish the seminal The Cinema Seen from Etna (1926). We have chosen here, in particular, to structure in seven headings the reflection on the landscape that runs through the film and which proves to be coherent with the Epsteinian vision of the relationship between cinema and the natural world later expressed and developed by the French theorist in his writings of the following years. The heading ‘Landscape-Theory’ opens our analysis by recalling how for Epstein the concept of landscape has its roots in Romanticism filtered however by the modernism of the 1920s and above all is connected to photogenic research in its various articulations. The other entries then go into detail about the photogénie of the landscape by matching it with thematic and formal issues in Epstein's film and film theory: ‘Landscape-close-up’, ‘Landscape-character’, ‘Landscape-metamorphosis’, ‘Landscape-body’, ‘Landscape-sound’, ‘Landscape-history’.

 

*Il testo è stato concepito congiuntamente dalle due autrici in tutte le sue parti. A fini pratici, Laura Vichi ha redatto le voci numero: 1. Paesaggio-teoria, 2. Paesaggio-primo piano, 6. Paesaggio-suono e 7. Paesaggio-storia. Chiara Tognolotti ha curato le voci numero: 3. Paesaggio-personaggio, 4. Paesaggio-metamorfosi e 5. Paesaggio-corpo. Un caloroso ringraziamento va alla Filmoteca de Catalunya per i fotogrammi de La Montagne infidèle (variante Pathé-KOK).

 

Per me, il luogo per pensare la più amata macchina vivente

fu quella zona di morte quasi assoluta che circondava,

a uno o due chilometri di distanza, i primi crateri.

Jean Epstein

Paesaggio-teoria [fig. 1]

Sin dai suoi primissimi film e scritti, Jean Epstein dedica un’attenzione particolare al paesaggio e al suo trattamento. Il cineasta, mutuando da Blaise Cendrars il concetto di ‘danza del paesaggio’ (Epstein [1921] 2019a, p. 236, traduzione nostra), individua in quest’ultima una soluzione eminentemente cinematografica legata a una visione modernista: il paesaggio, rilavorato dal cinema e reso fotogenico soprattutto grazie al movimento che le riprese e il montaggio gli conferiscono, provoca sensazioni fisiche e associazioni mentali che lo rendono interessante e coinvolgono lo spettatore (Branca, Busni, Vichi 2024). Nello stesso tempo, Epstein recupera la concezione romantica del paesaggio come «stato d’animo» (Epstein [1921] 2000, p. 92) e come proiezione dell’interiorità, integrandola alla visione determinata dal dispositivo cinematografico. In tal modo, l’esperienza romantica del sublime scaturita dall’esperienza dell’eruzione vulcanica diviene, grazie al cinema, un «sublime tecnologico» (Wild 2012, p. 121, traduzione nostra) che può essere visto, nell’unione delle sue componenti oggettiva e soggettiva, come una declinazione della fotogenia. A La Montagne infidèle (1923), che risponde alla richiesta di Pathé di mostrare l’Etna attraverso il cinema, Epstein sovrappone dunque la propria visione e aggiunge una dimensione teorica invertendo i termini della sua missione e firmando l’atto di nascita de Il cinematografo visto dall’Etna.

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Nel film Banditi a Orgosolo (1961), ambientato nel cuore della Sardegna, nel Supramonte in Barbagia, Vittorio De Seta costruisce un racconto in cui i personaggi entrano costantemente in rapporto con l’ambiente circostante creando una interazione intensa che permette l’evolversi della storia narrata. Il paesaggio è inizialmente interlocutore e benevolo compagno di viaggio dei due protagonisti, ma nella seconda parte del film diventa antagonista quando le forze dell’ambiente, secondo un concetto di Deleuze, agiscono su di loro imponendo una reazione che non sarà vincente: la natura del luogo, intesa in senso mitico, ha il sopravvento sul tentativo di sfuggire alla legge dello Stato e a quella non scritta di quel preciso mondo in cui vivono.

In the film Banditi a Orgosolo (1961), set in the heart of Sardinia, in the Supramonte in Barbagia, Vittorio De Seta constructs a tale in which the characters constantly enter into a relationship with their surroundings, creating an intense interaction that allows the narrated story to evolve. The landscape is initially the interlocutor and benevolent travelling companion of the two protagonists, but in the second part of the film it becomes antagonistic at the moment when the forces of the environment, according to a concept by Gilles Deleuze, act on them, imposing a reaction that will not be successful: the nature of the place, understood in a mythical sense, has the upper hand over the attempt to escape the law of the State and the unwritten law of that precise world in which they live.

Sulla vetta di Punta Sulitta i corpi di Michele e di Peppeddu, i protagonisti di Banditi a Orgosolo (1961), si stagliano sul cielo terso e grigio, spruzzato di qualche nuvoletta. Il Supramonte barbaricino è tutto intorno e sullo sfondo il massiccio calcareo del Corrasi, bianco, quasi un deserto, fa pendant con il cielo [fig. 1]. In questo paesaggio immenso è proprio lo spazio aperto, quasi un ossimoro visivo, a segnare confini insuperabili che isolano i due fratelli in una intimità austera. Il tono cinereo, con una dominante grigia dovuta in primis alla pellicola in bianco e nero che non valorizza il consueto splendore del cielo sopra la Sardegna, segna l’atmosfera che regna fra i due fratelli: pacata e allo stesso tempo amara. È uno dei rari momenti di intimità in cui il carattere burbero e schivo di Michele non condiziona il rapporto con il ragazzino. I due parlano fra loro di rapporti familiari, del padre che è morto cadendo in un precipizio molti anni prima mentre seguiva le capre, dell’inscindibile legame che unisce il lavoro con la vita quotidiana tanto da identificare l’uno nell’altra. D’altronde la vita del pastore identificata con il proprio lavoro è un filo rosso che attraversa tutto il film, il mestiere è la natura della propria vita, di padre in figlio senza possibilità di interruzione.

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L’articolo analizza il film di Vittorio De Seta I dimenticati del 1959 sulle feste dell'Abete e di Sant’Alessandro in Calabria. L’analisi si focalizza in particolare sul rapporto tra il paesaggio ripreso, le attività rituali e le modalità di ripresa della comunità. La cifra dell’operazione di De Seta risiede nella rivendicazione della ‘dignità della cultura’ attraverso una ‘drammaturgia creativa’ dell’esistenza di un paese del meridione di Italia allora senza strade e lasciato indietro rispetto al miracolo economico.

The article analyses Vittorio De Seta's 1959 film I dimenticati on the festivities of Abete and Sant’Alessandro in Calabria. The analysis focuses in particular on the relationship between the depicted landscape, the ritual activities and the way the community is filmed. The essence of De Seta’s work lies in the claim of the ‘dignity of culture’ through a ‘creative dramaturgy’ of the existence of a town in southern Italy that was then without roads and left behind by the economic miracle.

 

 

Nel 1959 De Seta realizza I dimenticati, cortometraggio che documenta le feste dell’Abete e di Sant’Alessandro con cui Alessandria del Carretto, paese dell’alto Ionio cosentino, celebra l’inizio della primavera (Fofi, Volpi 1999). In una prima fase, un gruppo di abitanti si reca in altura, dove un grosso abete viene abbattuto e trasportato fino al paese, mentre altri approntano cesti di libagioni. Viene poi predisposto un mercato per finanziare la festa del santo attraverso la vendita dei prodotti locali. L’abete viene infine issato nella piazza di fronte alla chiesa e la sua cima addobbata come una cuccagna. Si dà il via a una gara di arrampicata, che vedrà vincitore – come documenta De Seta – chi riuscirà a scalare il tronco fin su in cima. Al termine del rito annuale, la comunità farà ritorno alla vita di ogni giorno.

I dimenticati ha per oggetto la festa, dimensione che spezza l’andamento quotidiano del tempo, sebbene celebri proprio l’operare comune e durevole di una comunità. È infatti la vita collettiva e quotidiana a sostenere il rito, versione drammaturgica di un patto comunitario (Peirano 2000; Turner 1975). La festa afferma dunque una cosmologia e una struttura sociale nel mettere in scena una narrazione: in questo caso, quella della conquista del limen arboreo del mondo naturale, forse il nucleo tematico più evidente de I dimenticati.

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