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Prendendo le mosse dal modo in cui Jacques Derrida, nella propria lettura decostruzionista della Critica della facoltà di giudizio di Kant, pone il disgustante come ciò che, escluso dal sistema dell’estetica, torna protagonista per spezzare davvero il dominio della rappresentazione imperniato sul logocentrismo e sull’analogia, questo saggio ripercorre alcuni degli esiti più decisivi ai quali ha condotto questa ‘contaminazione infettiva’ del disgusto. Dall’idea di ‘differenza’ che irrompe sulla scena dell’estetica novecentesca alle sue declinazioni come ‘impossibile’, ‘simulacro’ e ‘informe’ proposte da Blanchot, Klossowski e Bataille, all’operazionalità che Rosalind Krauss descrive come capace di declassare e mettere in crisi ogni forma e ogni rappresentazione, il disgusto sembra assumere – non tanto nel suo senso letterale ma, come propone Derrida, nell’idea di irrappresentabile che esso incarna – un ruolo fondamentale per rendere conto in modo efficace dell’esperienza e del sentire contemporanei in tutta la loro complessità inafferrabile e nella loro irriducibile differenza.

Jacques Derrida’s deconstructionist reading of Kant’s Critique of the Power of Judgment identifies in the idea of ‘disgusting’, excluded from the aesthetics system, the only thing capable of breaking the domain of representation, its logocentrism and its analogy . This essay retraces some of the most crucial results of this ‘infectious contamination’ of disgust, not in its literal sense, but viewing it as the idea of irrepresentable. From the idea of ‘difference’, which overwhelms twentieth century aesthetics, to its variations as ‘impossible’, ‘simulacrum’ and ‘formless’ proposed by Blanchot, Klossowski and Bataille, getting to Rosalind Krauss’ description of the operations capable of undermining each form and representation, disgust seems to play an essential role in dealing with contemporary experience and feeling, with all their elusive complexity and irreducible difference.

Quando, negli anni ’70 del Novecento, lo studio di Jacques Derrida si trova a delineare una minuziosa analisi dell’opera di Immanuel Kant la parola-chiave che ricorre costantemente è quella di parergon. Si tratta, nello specifico, dei testi che Derrida dedica allo scandaglio di quella tappa fondamentale nella storia dell’estetica che è la Critica della facoltà di giudizio, pubblicata nel 1790, che egli affronta naturalmente attraverso la lente della decostruzione, che sollecita le strutture delle opere «fino a trarre allo scoperto il rimosso sul quale sono state edificate».[1] Decostruzione che mira anzitutto a sovvertire e annientare le gerarchie sulle quali si fonda ogni opposizione di qualsivoglia sistema, per passare successivamente all’emersione di un nuovo concetto che non concilia, non struttura e non gerarchizza ma si pone piuttosto come assolutamente altro, come l’‘indecidibile’ non assimilabile al sistema stesso o all’opposizione binaria. Soprattutto come ciò la cui rimozione ha permesso a quel sistema di strutturarsi e che quindi, riemergendo, permette l’affiorare della différance che dissolve ogni sublimazione o idealizzazione gerarchizzante.

Nel caso del lavoro di Derrida sulla terza Critica kantiana, questi due momenti nei quali è schematizzabile il processo di decostruzione sono riconducibili rispettivamente a Il Parergon e ad Economimesis. Il parergon è la cornice, ciò che segna il confine, che delimita, la linea invalicabile che separa l’interno, il proprio (l’ergon), dall’esterno, dall’estraneo, e che separando dà forma all’ergon stesso, all’oggetto, all’opera. Tuttavia, ci dice Derrida, il parergon ha un ruolo fondante ma al contempo rischioso nei confronti dell’ergon, del sistema, dell’unità che si trova a dover delimitare e delineare: la paradossale caratteristica di non essere né del tutto esterno né del tutto interno all’opera, di isolare ma insieme di mettere in rapporto, di porsi al contempo come frontiera e come luogo di «instabile permeabilità della frontiera»[2] stessa.

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