Uomo

di

     

Marino ha nel mondo contadino immediate radici. Franco Grasso ha scritto che in lui «gli insegnamenti dell'impressionismo, del cubismo, del neorealismo sono stati assimilati all'aria aperta» e che la campagna nella sua pittura non è mai idillio bucolico ma voce «ascoltata da un uomo che vive a contatto diretto con la realtà umana, con le lotte per la terra e per il progresso della società». E come si possa fondere l'idea dell'uomo che a me pare d'intravvedere nella sua pittura – solitudine e, per dirla con una espressione di Saba «serena disperazione» – con questa sua aspirazione, con questa sua lotta, è problema che non tocca soltanto Marino, ma molti artisti e scrittori siciliani. 

L. Sciascia, Presentazione a Santo Marino (1963)

Ogni qual volta Sciascia si ferma a guardare le opere che i suoi amici artisti gli avevano regalato o che lui stesso aveva comprato nelle bancarelle di anticaglie in giro per il mondo, i suoi occhi si perdono a scrutare i ritratti di uomini. Quella per il ritratto è una passione irresistibile, allo scrittore piace infatti andare oltre il volto per ‘toccare’ le pieghe impresse sul viso, e in queste ritrovare l’uomo. La maggior parte delle volte, i ritratti gli ricordano quelli nati dalla sua penna, oppure capita, come nel caso dei soggetti rappresentati da Santo Marino, che lo scrittore ritrovi in essi i caratteri dell’uomo siciliano. Sono i quadri di Marino, di Fausto Pirandello (per il quale scrive una prefazione al catalogo di una mostra nel 1978), o di Aldo Pecoraino (per cui scrive invece delle brevi recensioni apparse sul «Corriere della Sera» nel 1985) a suggerire allo scrittore alcune delle riflessioni più intense sulla natura dell’uomo. Gli uomini che vede sulla tela gli appaiono come i protagonisti del mondo in cui vive ogni giorno, fatto di siepi e confini, gli ‘eroi’ di quella serena solitudine che, per dirla con Lawrence, faceva acquistare al siciliano «qualcosa della noncuranza ardita dei greci». La chiave per penetrare tali dipinti è appesa all’uscio, e Sciascia la afferra scoprendo che gli uomini soli – dipinti da Marino o Aldo Pecoraino – sono in fondo la proiezione stessa dei pittori, rimasti sempre a contemplare l’estrema solitudine nella loro Sicilia. Qui Sciascia ritrova l’anello che accomuna la propria condizione di intellettuale rimasto per sempre in Sicilia a quella degli artisti che hanno scelto di vivere nella loro «isolitudine». Ad attirarlo particolarmente sono dunque quelle personalità schive, che hanno chiuso la porta alla fama. Tra i tanti, il pensiero dello scrittore corre subito a Fausto Pirandello che, rifiutatosi di rivivere la vita del padre, rimane «uomo solo», preferendo restare un talento nell’ombra e sfuggendo dalla trappola del successo.

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Vetro

di

     

La pittura su vetro è effettualmente una invenzione «materica»: la pennellata, di solito piuttosto povera, si impreziosisce incorporandosi al vetro, acquista luce, riflessi, intensità, smalto; e un che di minerale, quasi che il colore fosse immemorabile secrezione e cristallizzazione; e così, prodigiosamente, l’immagine.

L. Sciascia, Storie su vetro (1968)

Profondamente attratto dal verso anziché dal recto delle cose, Sciascia nutre una passione anche per la pittura su vetro perché questa, come l’incisione, costringe l’artista a lavorare su una lastra dal rovescio. Lo strano procedimento rappresenta per lo scrittore un motivo di profonda curiosità probabilmente perché in questo ‘lavorare al contrario’ egli scorge un’affinità con il suo mestiere di scrittore intento a indagare la realtà dal ‘rovescio’ per poi mostrarne la verità e dunque il recto. Tuttavia, al di là di ciò, l’interesse di Sciascia per questo tipo di pittura appare evidente e comprovato dai due saggi che egli dedica all’argomento: intitolati uno Storie su Vetro (1968, confluito in seguito ne La corda pazza) e l’altro Tra astrazione e realismo (1972), posto in apertura del volume di Antonio Buttitta sulla pittura su vetro in Sicilia. In questo caso, il suo approccio alla materia artistica appare diverso rispetto a quello che egli mostra negli altri scritti d’arte e a riprova di ciò è utile sottolineare che questi sono gli unici casi in cui lo scrittore ci fornisce delle notazioni tecniche sulla pittura entrando con la sua penna nella bottega dell’artista. A interessarlo prima di tutto, oltre alle particolari figurine dipinte con grazia che ricordano da vicino quelle create dai cantastorie, è il supporto: non più tela, né tavola ma vetro. Un materiale profondamente affascinante per Sciascia, lo stesso di cui sono fatti gli occhiali che permettono ad Eugenia Quaglia, la bambina protagonista di un racconto di Anna Maria Ortese che lo scrittore amava particolarmente, di riacquistare la vista e vedere per la prima volta il mondo; gli stessi occhiali grazie ai quali lo scrittore può correggere le distorsioni ottiche e vedere, e quindi interpretare, la realtà e che in Todo modo rappresentano un oggetto di primaria importanza per comprendere la vicenda narrata. Come se non bastasse, ad affascinarlo vi era la particolare genesi del vetro che nasce liquido ma in seguito al processo di raffreddamento va incontro alla cristallizzazione che blocca e conserva per sempre la sua forma. Lo scrittore, che era innamorato di questo vocabolo, individua inoltre, nella pittura su vetro, una seconda cristallizzazione che nasce nel momento in cui il pittore imprime il colore sulla lastra vitrea permettendo così alla pennellata piuttosto povera di acquistare luce e intensità. E così un’arte popolare si trasforma in un’arte preziosa, che tuttavia in Sicilia, come Sciascia tiene a ribadire, durante i primi dell’Ottocento entra solo «nelle case dei borghesi, cioè dei contadini agiati, dei contadini piccoli proprietari; mai in quelle dei contadini poveri, dei braccianti». Dovrà passare quasi un secolo perché il vetro e le cornici diventino prodotti industriali e la pittura su questo materiale entri anche nelle case dei meno abbienti. Sarà allora che le figurazioni subiranno qualche modifica (che Sciascia esemplifica come «il passaggio dal colto al popolare») pur rimanendo invariate nei temi, perché «il mito, le mitiche tragedie, i martirologi, i grandi e i drammatici gesti dettati dall’amore e dall’onore, sono (o almeno erano) nel sentimento popolare come la passione di Cristo per Pascal (e per il sentimento popolare): vivi e presenti, di ogni giorno, di ogni ora».

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Zattera

di

     

- […] nella forma più diretta, più semplice, mi dica: che cosa è la Chiesa?

- Ecco, un prete buono le risponderebbe che è la comunità convocata da Dio; io, che sono un prete cattivo, le dico: è una zattera, la zattera della Medusa, se vuole; ma una zattera.

L. Sciascia, Todo modo (1974)

All’inizio degli anni Settanta, come in preda a una visione infernale, Leonardo Sciascia fa i conti con la Chiesa cattolica e crea quella che a Pasolini sembra la «metafora degli ultimi trent’anni di potere democristiano, fascista e mafioso». Oltre ad essere uno dei suoi romanzi più dirompenti e riusciti, Todo modo è forse il testo sciasciano a più alto tasso di citazioni artistiche.

Il protagonista è un non meglio identificato pittore di successo, che arriva alla sua verità proprio mentre disegna, perché disegnando i suoi pensieri «si fanno più esatti e lucidi». Gli occhiali scivolati dal cadavere di Don Gaetano gli appaiono come «il particolare di un quadro di caravaggesco minore», un particolare che egli ha visto in mano al diavolo in una copia della Tentazione di Sant’Antonio di Rutilio Manetti, opera del mediocre pittore Nicolò Buttafuoco. Il dipinto è la prima metafora pittorica presente nel romanzo, un’allusione al risvolto demoniaco della vista nitida, in altre parole della conoscenza e del sapere. Era stato il pittore Fabrizio Clerici ad accompagnare Sciascia nella chiesetta della campagna senese dove aveva visto per la prima volta la copia del quadro, scelto per la copertina della prima edizione di Todo modo. Oltre che dal volto del diavolo, i cui tratti aleggiano sinistramente nella figura di Don Gaetano, il protagonista finisce tentato dall’idea di disegnare il volto di Cristo: entrambi i personaggi convergono nell’idea che l’unico artista a riuscire nell’impresa sia stato Odilon Redon. Nella loro lezione di storia dell’arte, i due incarnano verosimilmente la posizione di Sciascia, che al suo capezzale teneva proprio un’incisione dell’artista francese raffigurante il viso di Gesù morente.

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Scritti di Leonardo Sciascia sull’arte

Qui di seguito si presenta un elenco degli scritti d’arte citati nelle schede, indicando se si tratta di recensioni presenti in riviste e quotidiani o di prefazioni a cataloghi viene precisato di volta in volta se essi sono stati riproposti nelle raccolte sciasciane o in altri testi. Ai volumi dell’opera omnia, a cura di Claude Ambroise, Opere 1956-1971, Milano, Bompiani, 1987; Opere 1971-1983, Milano, Bompiani, 1989; Opere 1984-1989, Milano, Bompiani, 1991, si farà riferimento con le seguenti abbreviazioni: O1, O2, O3.

Male di vivere” nella scultura di Greco, «Orazio. Diario di Roma», III, 6, giugno 1951, pp. 49-50.

Il Pinocchio di Greco, «Il Raccoglitore», pagina quindicinale delle Lettere e delle Arti de «La Gazzetta di Parma», Parma, 61, 4 marzo 1954, p. 3; ristampato in P. Briganti (a cura di), Il Raccoglitore, 1951-1959. Pagina quindicinale della Gazzetta di Parma, Parma, La Pilotta, 1979, pp. 137-138.

Presentazione a Santo Marino, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia, «I quaderni di Galleria», LX, 1964, pp. 5-10.

L’ordine delle somiglianze, in Antonello da Messina, Milano, Rizzoli, 1967, pp. 5-7; ristampato in Cruciverba [1983], ora in O2, p. 987-993.

Alberi di Bruno Caruso, in I grandi Giardini, Milano, Istituto Litografico Internazionale, 1968; ristampato in La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia [1970], ora in O1, pp. 1196-1201.

Storie su vetro, «Pirelli», XX, 11-12, novembre-dicembre 1968, pp. 40-43.

Presentazione a Disegni di Bruno Caruso. Catalogo della mostra, Galleria d’arte Il Gabbiano, Roma, Carte Segrete, 1968, pp. 9-12; ristampata in «Galleria», fascicolo dedicato a Bruno Caruso, a cura di E. Mercuri, XIX, 1-2, gennaio-aprile 1969, pp. 52-54.

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All’interno dell’opera di Leonardo Sciascia la frequentazione dell’universo delle arti figurative rappresenta un momento importante, anche se per certi versi trascurato dalla critica. Oltre alla presenza continua ed estremamente significativa di citazioni pittoriche nei romanzi, l’interesse dello scrittore siciliano nei confronti del linguaggio figurativo è segnalato da un ampio e variegato corpus di scritti d’arte, di cui solo una minima parte è stata riproposta nelle raccolte curate dall’autore. La Galleria (rubrica il cui nome contiene implicitamente un omaggio anche allo scrittore siciliano e per questo, nel primo numero, a lui dedicata) vorrebbe mostrare, attraverso l’allestimento di un percorso alfabetico virtuale, il fecondo e complesso dialogo fra alcune pagine sciasciane, per lo più poco note, e le immagini a cui esse rimandano.

Riferimenti, immagini, temi e parole chiave descrivono la variegata mappa del dialogo di Sciascia con la pittura e prendono qui la forma (da lui amata) dell’alfabeto, all’interno della quale si è scelto di privilegiare le parole comuni e di escludere, nel rispetto di un equilibrio formale, i nomi propri: ad eccezione di Jean Houel, nessuno dei nomi dei pittori amati e frequentati da Sciascia compare fra i lemmi. Ogni pannello, cioè ogni voce dell’alfabeto, è composto da una citazione delle pagine sciasciane e da un breve commento, posti accanto ad una o a più immagini.

Consapevoli della parzialità del percorso, che potrebbe essere arricchito da molti più nomi e riferimenti artistici, si è voluto porre l’accento sulla eterogeneità e sulla fecondità delle implicazioni estetiche presenti nell’opera di Sciascia, sulle numerose sfaccettature che il suo rapporto con le arti figurative contiene, sulla costante ed evidente dimensione di «appassionato incompetente» che assume nei confronti di ogni aspetto esaminato. In questa prospettiva, appare interessante sottolineare l’atteggiamento di Sciascia nei confronti dell’arte: il suo occhio non è mai quello del critico di professione bensì quello dello scrittore che con i propri mezzi tenta di raccontare e interpretare la realtà. Raramente, infatti, gli scritti d’arte presi in considerazione offrono letture formali delle opere citate, tuttavia in parecchi casi lo scrittore non rinuncia a intervenire sullo statuto della pittura e del disegno, fornendo interpretazioni suggestive e stimolanti con cui anche il critico di professione è costretto a confrontarsi.

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