Luce

di

     

Allo stesso modo che oggi esiste il modo di scegliere e salvare, in ogni letteratura e in tutte le letterature, i libri più importanti o quelli più belli, in tempi di futurismo la mania consisteva nell’estrarre da un’opera una sola frase o un solo verso nel quale si condensasse il significato e la bellezza di tutta l’opera (la maggiore concessione si fece a Dante: tre versi). Se volessimo fare un gioco simile con Il Gattopardo, questa frase, ben analizzata, potrebbe essere la sua sintesi: «sotto una luce cenerina, si agitava il paesaggio, irredimibile». Il fatto fisico dell’agitazione, quando si viaggia in diligenza per le impraticabili strade siciliane, unito alla visione del paesaggio, produce una specie di ritmo ondulante che propizia il sogno: simbolo dell’eterno sonno siciliano; la luce cenerina che è luce di angustia e di espiazione; la irredenzione di una terra arida, aspra, povera di acqua, mal coltivata; irredenzione che da visione si trasforma in giudizio sopra l’uomo siciliano, sopra l’immutabile violenza delle sue passioni, sopra il suo delirante amore di se stesso.

L. Sciascia, Dipinti per “Il gattopardo” (1987)

Sciascia ama i «ladri di luce» (definizione coniata da Gesualdo Bufalino a proposito dei fotografi Ferdinando Scianna e Giuseppe Leone), soprattutto coloro che, dopo averla rubata, la utilizzano per dare vita alla fotografia, particolare forma di ‘scrittura’ che per lui rappresenta una passione irrinunciabile. Per il fotografo la luce equivale alla penna dello scrittore, per il pittore la luce è lo strumento che lo rende demiurgo e gli permette di dare vita a persone e cose sulla tela. Di questo Sciascia è convinto e in quasi tutti gli scritti dedicati all’arte considera il particolare uso che i pittori fanno della luce, a riprova della sua spiccata sensibilità verso questo tema. Spesso muovendosi lungo le assolate campagne siciliane, in compagnia del fotografo Ferdinando Scianna, il pensiero dello scrittore correva veloce ai paesaggi che Guttuso aveva dipinto su tela e ai violenti contrasti cromatici generati da quella pittura. I suoi rossi, i suoi gialli, i suoi verdi nascono dall’imitazione dei rossi dei gialli e dei verdi visti nei mercati rionali di Palermo, dove gli ombrelloni proteggono dalla luce del sole i panieri colmi di frutti messi in bella mostra per creare un mosaico policromo dal sapore barocco. La percezione del paesaggio siciliano negli anni ’60 era condizionata molto da questa pittura e Sciascia non ne rimane di certo immune. Tuttavia, non manca di considerare che Guttuso è un siciliano e come ogni abitante dell’isola deve fare i conti con la luce di un sole abbagliante che schiaccia i colori e sfuma i contorni. «Il sole è la morte» si legge ne Il Gattopardo e Sciascia sembra suffragare quest’affermazione. Nonostante ciò, recensendo una mostra di Cazzaniga, si rende conto che il paesaggio siciliano può essere baciato anche da un’altra luce molto più tenue e soffusa, della quale il pittore lombardo era andato alla ricerca. Negi anni ’80 un altro artista, Piero Guccione, lavorerà al tema del paesaggio illustrando il capolavoro di Tomasi di Lampedusa e dipingendo per la prima volta una Sicilia dai toni spenti e molto più simili a quelli di Cazzaniga. Avviene in questo caso che pastelli e acquerelli accompagnano Sciascia a una seconda e nuova lettura e interpretazione dell’opera, diversa da quella che egli aveva dato all’indomani della pubblicazione del romanzo. La prospettiva di Sciascia, in questo secondo momento, si fa più distesa ed egli sembra trovare, grazie anche all’ausilio delle illustrazioni di Guccione, il senso del libro che viene sintetizzato in una sola frase: «sotto una luce cenerina si agitava un paesaggio irredimibile». Le immagini dell’artista così si legano alla scrittura di Tomasi di Lampedusa e al commento di Sciascia che sembra suggerire una nuova interpretazione: l’unica luce con la quale si può guardare e dipingere il paesaggio siciliano è quella «cenerina» evocata nel romanzo «che è luce di angustia e di espiazione», ma anche simbolo di una terra arida e aspra che volutamente ha cavalcato la storia rimanendo sempre irredenta. La luce dipinta diventa così metafora di una condizione espressa dai colori e dalle parole: quella dell’uomo siciliano.

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Malinconia

di

     

Avaro di parole e di gesti, la sua intensa vita interiore egli non rivela nella «confessione» spesso frenetica e tediosa, ma piuttosto in un cordiale silenzio: e la fisica malinconia propria al siciliano in questo silenzio addolcisce e anima di nitide immagini. […] Crepuscolare, riferendoci ad un tono più che a un contenuto, vorremmo dire la deformazione delle sue figure, soprattutto di quelle femminili. Irregolarità e asimmetrie creano nei volti non sai che assorta malinconia: come una dolcissima attesa, un musicale rapimento.

L. Sciascia, “Male di vivere” nella scultura di Greco (1951)

Con una prosa insolitamente contorta, nel 1951 Leonardo Sciascia abbozza un ritratto dello scultore catanese Emilio Greco. Sul volto dell’artista, così contrastato dalla luce e dal lutto, quasi ricalcato sul tema siciliano – e in particolare brancatiano – dell’apprensione e dell’ansietà, lo scrittore marca due tratti precisi: la malinconia e il silenzio di cui egli stesso dirà in un celebre passo del racconto Il quarantotto. Caratteristiche proprie dei siciliani che non si agitano, che si rodono dentro e soffrono, e che l’Emilio Greco di Sciascia condivide con il colonnello Carini, anch’egli, «sempre così silenzioso e lontano, impastato di malinconia e di noia ma ad ogni momento pronto all’azione: un uomo che pare non abbia molte speranze, eppure è il cuore stesso della speranza, la silenziosa fragile speranza dei siciliani migliori…».

La stessa dilemmatica speranza induce un intellettuale engagé come Sciascia a scegliere l’accidiosa Paresse di Fèlix Vallotton per la copertina dell’edizione Einaudi di Cruciverba. Non si ricorda abbastanza che, accanto allo scrittore impegnato ad agire e rasserenato dai Lumi, ne esiste uno brancatiano, che si arresta malinconicamente davanti al dubbio e accumula quelle polveri barocche a cui Calvino suggeriva di dare fuoco. C’è, quindi, uno Sciascia ascrivibile al ‘barocco’, e in particolare a quello teorizzato da Brancati: il barocco che «uscendo da un ghirigoro per entrare in un altro, corre su una linea retta». E certamente si può inserire l’autore anche in un filone di pensiero e di stile che è appartenuto a Dürer: la melancholia.

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Naîveté

di

     

«Famiglie vi odio». Questo grido di Gide, che in Sicilia sarebbe diventato un urlo, i siciliani lo reprimono e macinano, lo impastano, lo lievitano di amore e religione; e lo offrono come il miglior prodotto del loro antico masochismo. Rosanna Musotto sembra invece che si diverta. «Famiglie mi divertite». Un divertimento franco, aperto, senza complicazioni. E dalla famiglia il suo divertimento trascorre e si allarga al paese e al rione cittadino, cioè ai luoghi in cui tante famiglie ne fanno una; alle feste paesane e di quartiere, col santo patrono, le luminarie, la banda; all’opera dei pupi e ai concerti lirici; ai battesimi, i matrimoni, le visite di condoglianza e le scampagnate. E tutto è colto nelle declinazioni comiche; a tal punto che direi la sua «naîveté» consistere, prima che nel modo di dipingere, nella capacità di scoprire in leggerezza e allegria una realtà oggettivamente greve e sgradevole; votata ai luttuosi fasti dell’amor proprio. Di sorprenderla insomma.

L. Sciascia, Famiglie mi divertite! (1975)

Sciascia amava i pittori ‘ingenui’ perché nei loro dipinti intravedeva quasi un’amara serenità e scorgeva, dietro le forme solo apparentemente semplici che questi dipingevano, la rappresentazione di una realtà greve e pesante simile a quella che lui stesso si adoperava a mettere in scena nei suoi libri. Nonostante lo scrittore amasse i giochi complicati, gli intrighi e i labirinti (entro cui spesso faceva perdere i lettori senza fornire loro nessun filo di Arianna) lo divertivano le incursioni nei territori fantastici che vedeva rappresentati sulle tele e lo incuriosiva quel modo semplice di mostrare il reale depurandolo da ogni ruga e da ogni crepa. A scorrere le tante pagine che Sciascia dedica all’arte, si ritrovano molti apprezzamenti verso la pittura dei naïf. Probabilmente perché ogni qual volta che lo scrittore guardava uno di quei dipinti era sedotto dalla leggerezza di quelle figure, che volevano prendere vita e per le quali il rettangolo di una cornice appariva troppo stretto. Girovagando per le gallerie d’arte palermitane, Sciascia sembra andare alla ricerca di pittori naïf di cui la sua Sicilia era terra ricca. Durante una di queste passeggiate, incontra, quasi per caso, il pittore Crescenzio Cane, autore della parola «sicilitudine» che in seguito sarà tanto cara allo scrittore, e si innamora dei galli, dei cavalli e di quelle piccole figure che Cane dipingeva con colori talmente abbaglianti da disturbare l’iride. Tuttavia, all’occhio vigile di uno scrittore che è anche «poliziotto di Dio» non basta fermarsi dinanzi alle prime impressioni; indaga e scopre che dietro quell’impasto di vernici, al di là del ritratto giocoso e quasi paradisiaco di cui quei quadri sembrano essere portavoce, si nasconde un riso amaro che soffoca il pianto. I dipinti diventano così lo specchio di una maschera, quasi una rappresentazione in figure dell’umorismo di Pirandello. Considerazioni simili verranno proposte dinanzi ad altre tele che all’apparenza potrebbero sembrare canovacci per fiabe felici come quelle di Rosanna Musotto Piazza o di Maurilio Catalano, il quale amava ricreare il blu del mare siciliano che nella sua immaginazione era abitato da coralli rossi o polipi giganti.

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Occhio

di

     

L’occhio di Redon (che non è solo l’occhio di Redon) è invece dentro le architetture, dentro le costruzioni che non cantano ma imprigionano, senza una precisa collocazione: come un pipistrello volteggia e batte da una parete all’altra; da un angolo all’altro, da questo a quell’oggetto […]. E diciamo l’occhio, qui, non solo per dire il punto di vista, ma propriamente l’occhio, il bulbo oculare, la pupilla, il cristallino, la cornea, il nervo, i muscoli, le ciglia… In Clerici avviene come uno sdoppiamento e una metamorfosi: c’è l’occhio-punto di vista di Piero della Francesca e di Magritte, un occhio che irraggia e che raccoglie le più minuziose e ossessionanti prospettive; e c’è l’occhio-pipistrello di Redon: a volte scoperto e sezionato come una tavola anatomica; a volte mimetizzato, pietrificato, che si finge pietra tra le pietre delle rovine; altre volte ancora che si accende come carbonchio, sprigionando un dritto raggio di morte, che va ad esplodere e accecare un altro occhio, nelle teste di quei simulacri di animali mitici e sacri che stanno in una specie di «conversazione» indecifrabile e senza tempo.

L. Sciascia, Clerici e l’occhio di Redon (1973)

Nella poesia che apre la raccolta poetica di Sciascia, in quell’unica occasione di confronto col genere lirico da parte dello scrittore siciliano, faceva già la sua prima comparsa un occhio ‘pittorico’. Si tratta dell’iride del bue dipinto da Chagall («Come Chagall vorrei cogliere questa terra / dentro l’immobile occhio del bue»), metafora perfetta del legame ancestrale con il proprio villaggio. In quel «carosello di immagini» tratteggiate ne La Sicilia, il suo cuore (1952), il giovane Sciascia evoca, alla maniera del pittore russo, il carosello figurativo di cui è composta la sua memoria visuale, e al tempo stesso dichiara implicitamente la prospettiva del suo sguardo, interno al gioco della rappresentazione.

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Passione

di

     

Ecco un testo brevissimo ma essenziale: «Tutta la scienza nella vita sta nel semplificare le umane passioni». È di Verga; e si trova in Eros, un romanzo in cui c’è poco di tale scienza. Ma aveva già scritto Verga la novella Nedda [...]. Ed è un caso ma come la storia del Verga grande comincia da quella fattoria del Pino alle falde dell’Etna, la storia della pittura di Guttuso comincia da quella Fuga dall’Etna durante un’eruzione che Natale Tedesco ha chiamato «la Guernica siciliana» [...]. Un caso: ma Savinio ci ha appreso che bisogna far caso al caso nella vita di uno scrittore, di un artista – che c’è del metodo nella follia del caso, come in quella d’Amleto. E un tale metodo ci porta alla fiamma – «troppo vicina forse» – da cui sorge, con la dolente figura di Nedda, la poetica di Giovanni Verga; alla fiamma da cui erompe, con la fuga di una popolazione – eterna e atroce fuga dalla natura, dalla storia, da se stessa – la poetica di Renato Guttuso. La poetica è per entrambi quella di «semplificare le umane passioni»; ma quella di Verga prende avvio da un ritorno, quella di Guttuso da una fuga.

L. Sciascia, La semplificazione delle passioni (1971)

Se gli fosse stata data la possibilità di scegliere un mestiere, Sciascia avrebbe scelto ancora una volta il mestiere di scrittore perché gli piaceva vedere le sue mani sporche di inchiostro e sentire le sue dita battere intensamente sui tasti di una macchina da scrivere. Si divertiva a rappresentare la realtà umana con le parole e a scrutarne le pieghe e le ambiguità. Allo stesso tempo però lo seducevano i disegni, le chine, i pennelli e le sfumature cromatiche con le quali i suoi amici artisti lavoravano ogni giorno. Immancabili compagni di strada, pittori come Bruno Caruso, Fabrizio Clerici e Renato Guttuso accolsero lo scrittore nei loro studi, nei quali egli entrava sempre in punta di piedi. Per loro scrisse alcune delle pagine più incisive ma accostandosi alle tele non con l’occhio del critico d’arte ma con quello di «un appassionato incompetente». Fu negli atelier degli artisti che Sciascia segretamente coltivò la sua passione per l’arte, convinto com’era che ogni volta che nel cinema, nel disegno, nella pittura si tentava di esprimere ciò che l’uomo aveva dentro sogno, incubo, segreto o ricordo si faceva letteratura. Per questo amava circondarsi delle tele che gli artisti gli regalavano, gran parte delle quali andavano ad arricchire la sua collezione di ritratti e spesso, soffermandosi a guardarli, ne traeva un piacere intenso, «quasi un aiuto a vivere». A sedurlo maggiormente non erano tanto i colori forti quanto i bianchi e i neri che gli ricordavano più da vicino le linee virtuose dell’incisore, anche se non poteva rimanere indifferente dinanzi al rosso intenso utilizzato da Guttuso. Sicuramente Sciascia concordava con Pasolini, che vedeva in quel colore «il rosso di tutta la Storia» e senza dubbio per lui quei dipinti riassumevano il racconto di una passione. Di passioni comuni Sciascia e Guttuso ne condividevano parecchie, destinate a consolidare il loro rapporto di amicizia rimasto saldo fino al 1979 (anno in cui, per motivi politici, si consumò la rottura). A riprova della profonda stima che lo scrittore nutriva nei confronti del pittore rimangono i tanti scritti, datati tra il 1971 e il 1975, che Sciascia dedicò all’amico. Guardando le tele di Guttuso, egli aveva modo di ammirare l’approccio del pittore alla materia artistica ed era profondamente affascinato dalla prospettiva attraverso cui l’artista guardava e interpretava il mondo. Il suo privilegio, secondo Sciascia, risiedeva nell’essere appassionato della vita e nel riuscire con la stessa passione e lo stesso furore a rappresentarla sulla tela. Fuga dall’Etna durante un’eruzione, il primo grande quadro di figure del bagherese, colpisce più di ogni altro l’immaginario dello scrittore. Di fronte ad esso egli trova l’occasione per sviluppare acute riflessioni sulla pittura del conterraneo, affidate ad un saggio posto in apertura del catalogo di una mostra antologica, tenutasi nel 1971, sull’opera del pittore. In questo dipinto Sciascia scorge corpi di donne dai fianchi enormi, maschere deformi, occhi sgranati, un cavallo imbizzarrito più simile alla carogna di Baudelaire che al cavallo del Chisciotte. Il suo occhio si sofferma poi sulla popolazione martirizzata e in fuga, di cui il pennello di Guttuso aveva saputo cogliere il lamento. Per questa ragione le immagini sulla tela richiamano nella sua mente le pagine e le parole di un grande scrittore siciliano (Verga) che in altre forme si era fatto cantore di quel mondo da cui entrambi erano partiti per «semplificare le umane passioni».

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Quadro

di

     

Ma la bella pittura deve essere piatta, come voleva Degas (che la faceva); e la piattezza è divina – cioè peculiare alla pittura, essenza, necessità ineffabilità – come commentava Valéry (che se ne intendeva). E qui vien fatto di dire che la parola «tableau» rende meglio, a connaturare la pittura alla piattezza, della parola «quadro»: quasi che allo «empâtement» sia impossibile sfuggire di fronte a una tavola, mentre è possibile attraversare un quadro, che è poi un perimetro, una cornice.

L. Sciascia, Presentazione a P. Guccione, Catalogo della mostra (1973-1974)

Negli scritti sulla pittura, la scultura o il disegno, rare volte Sciascia interviene nel merito dello statuto delle arti, preferendo alle vesti del critico quelle di un uomo che con altri mezzi si adopera a rappresentare la realtà. Tuttavia, anche se raramente, in alcune delle note dedicate agli amici, è chiara l’intenzione di un approccio ‘estetico’, e in tali occasioni i punti di riferimento sono Alain, Diderot, Baudelaire, ma anche Savinio e Degas, chiamati a suffragare le sue riflessioni. Spesso le pagine teoriche scaturiscono dalla visione di opere che lo colpiscono particolarmente. È quel che accade di fronte ai dipinti di Piero Guccione; proprio in uno scritto destinato ad accompagnare una sua mostra Sciascia utilizza il termine «quadro» e così il primo incontro con le tele dell’artista di Scicli induce lo scrittore a riflettere sull’essenza stessa della «bella pittura che deve essere piatta, come voleva Degas». Riga dopo riga, il discorso si fa estremamente complesso, e riflessione estetica e letteratura sembrano tenersi per mano. Nella prospettiva di Sciascia il miglior supporto per raggiungere la piattezza (carattere che rende divina la pittura) è la tavola, volutamente distinta dal quadro che invece chiude il dipinto dentro una cornice.

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Ritratto

di

     

[…] Si riconosceranno?: domanda goyesca.

Risposta siciliana: no, non si riconosceranno.

Caruso lo sa bene come siamo, come viviamo, come moriamo. La morte non è, finalmente, uno specchio in cui riconoscersi ma ancora una menzogna in cui nasconderci. L’ultima menzogna. E la prepariamo, la lievitiamo, la custodiamo. E perciò vorremmo morire «prima». Prima di morire. Per vederci morti in anteprima, in prova generale: ché lo spettacolo fili, ché la menzogna funzioni oltre la morte. E quasi sempre funziona.

Restiamo in due a riconoscerci: Renato Guttuso (quando si è qualcuno: la stanchezza, il tedio, l’angoscia) e io. In quella specie di morte che è un ritratto.

L. Sciascia, Al modo di D’Ors: glossario sui disegni siciliani di Bruno Caruso (1972)

Piaceva molto a Sciascia l’Autoritratto da finto morto di Luigi Capuana, forse proprio perché esemplificava perfettamente quelle osservazioni che nascono a margine della lettura dei ritratti di Bruno Caruso: il ritratto come «anteprima», come «prova generale» dell’ultima ed estrema menzogna. L’equazione quasi perfetta fra ritratto e morte, che Sciascia trova nel serrato e ammiccante dialogo ekphrastico con le opere esposte da Caruso alla Galleria La Tavolozza nel 1972, congiunge del resto le sporadiche riflessioni sciasciane dedicate al ritratto figurativo (si ricordi in primo luogo il saggio L’ordine delle somiglianze, 1967; ma anche il breve commento ai Ritratti scultorei di Mario Pecoraino, 1978) alla più compiuta analisi condotta sul Ritratto fotografico come entelechia (1987). Prescindendo – inevitabilmente in questa sede – dall’evidenziare le intertestualità presenti nell’opera narrativa, non si può però non pensare a Sciascia collezionista di ritratti di scrittori, ma anche soggetto accondiscendente di ritratti pittorici, scultorei, fotografici, nonché promotore della mostra Ignoto a me stesso, allestita presso la Mole Antonelliana con gli scatti dei volti di molti autori (da Edgar Alla Poe a Jorge Luis Borges). L’esposizione dei pezzi della collezione raccolti da Sciascia con cura e passione da amateur d’estampes (allestita a Racalmuto nel 2008 e ora divenuta permanente), ancora con il titolo Ignoto a me stesso, rappresenta chiaramente la naturale prosecuzione di quella ideata nel 1987 e conferma inequivocabilmente l’ossessiva presenza dell’oggetto ‘ritratto’ nell’immaginario dello scrittore.

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Somiglianza

di

     

I novant’anni di De Chirico. Ho davanti un ritratto che ha fatto, a matita, Bruno Caruso. Un ritratto che è un ritratto: non come si usa ormai dire a giustificazione della non somiglianza, un’interpretazione. Il fatto è che la somiglianza, cioè la fedele riproduzione della fisionomia, è già una interpretazione, e la più attendibile. Quando poi la verità fisionomica è colta in espressività, cioè nel momento in cui il soggetto esprime se stesso, in cui tra la luce degli occhi e la piega delle labbra dice di sé quel che già conosciamo della sua vita, delle sue azioni, dei suoi pensieri, della sua opera, il ritratto si fa ancor più somigliante e cioè ancora più attendibile l’interpretazione.

L. Sciascia, Nero su nero (1979)

Sempre, o quasi, fra gli scritti di Sciascia il discorso sul ritratto tira in ballo il concetto di somiglianza. L’ordine delle somiglianze (1967), scoperto dallo scrittore ‘leggendo’ i quadri di Antonello e in particolare il Ritratto di ignoto (che in altra occasione Sciascia non teme di definire in assoluto la sua opera pittorica preferita) alla luce delle pagine di Antonio Castelli, diviene dopo la stesura di quel saggio la costante di ogni interpretazione sull’arte del ritratto. «Il gioco delle somiglianze» è definito come il fondamento gnoseologico della visione del mondo alla quale appartiene l’immaginario di Antonello e anche il suo; esso è infatti «in Sicilia uno scandaglio delicato e sensibilissimo, uno strumento di conoscenza. A chi somiglia il bambino appena nato? A chi il socio, il vicino di casa, il compagno di viaggio? A chi la Madonna che è sull’altare, il Pantocrator di Monreale, il mostro di villa Palagonia? Non c’è ordine senza le somiglianze, non c’è conoscenza, non c’è giudizio. I ritratti di Antonello “somigliano”; sono l’idea stessa, l’archè, della somiglianza». Anche di fronte all’enigmatico sorriso dell’Ignoto, sulla cui identità si sono interrogati i più illustri storici dell’arte e dalla cui effige prende vita il capolavoro di Vincenzo Consolo, il tentativo di dare risposta all’interrogativo ricorrente è destinato a fallire: «A chi somiglia l’ignoto del Museo Mandralisca? Al mafioso della campagna e a quello dei quartieri alti, al deputato che siede su banchi della destra e a quello che siede sui banchi della sinistra, al contadino e al principe del foro; somiglia a chi scrive questa nota (ci è stato detto); e certamente somiglia ad Antonello. E provatevi a stabilire la condizione sociale e la particolare umanità del personaggio. Impossibile. È un nobile o un plebeo? Un notaro o un contadino? Un uomo onesto o un gaglioffo? Un pittore un poeta un sicario?

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Tableau Vivant

di

     

«Ecco, così» disse la contessa. Si vedeva, con la coda dell’occhio, nella grande specchiera; e davanti, sul piano da scrittoio del trumeau, aveva, ridotto a vivida miniatura dentro il coperchio di una tabacchiera, quel quadro di François Boucher che i casanovisti dicono sia il ritratto di mademoiselle O’Murphy. Erano di moda i quadri viventi: e nell’intimità di un convegno d’amore, nel piccolo, delizioso padiglione a boiseries in cui, al marito pretestuando emicranie, amava ritirarsi, la contessa ne componeva uno straordinario, a perfetta imitazione del quadro di Boucher, la tenue luce aiutando a pareggiare a quelli di mademoiselle O’Murphy i suoi anni. Due soli elementi: una dormeuse e la propria nudità. Non si poteva desiderare quadro vivente più splendido, imitazione più precisa.

L. Sciascia, Il consiglio d’Egitto (1963)

Soltanto alcuni dei quadri citati da Sciascia nelle pagine dei suoi romanzi presentano una dinamizzazione tale da farci scoprire in essi dei veri e propri tableaux vivants. I quadri viventi composti allo specchio dalla contessa di Regalpetra negli incontri erotici con l’avvocato Di Blasi nel Consiglio d’Egitto – esempio emblematico di questo tipo di citazione figurativa – alludono attraverso il nome del pittore («boucher, boucherie, vucciria») a una «sfumatura di macelleria, di vucciria» che si intravede oltre la luce sensuale e la gioia di vivere della scena. In altri termini la postura dell’amante di Di Blasi, costruita a imitazione del quadro del pittore francese, con un’associazione verbale che congiunge la Francia alla Sicilia (partendo dal nome di Boucher e giungendo al termine palermitano «vucciria»), tende ad anticipare nel racconto la conclusione violenta della storia dell’altro protagonista del Consiglio d’Egitto. La gioiosa carnalità della scena iniziale lascerà il posto infatti alla degradazione della carne di Di Blasi nelle pagine finali della tortura e della esecuzione della pena capitale. Sciascia sembra interessato non tanto all’animazione del quadro, quanto all’imitazione di esso. E così, allo stesso modo, in altre pagine e in altri romanzi i rimandi figurativi segnalano i continui scambi tra pittura e narrazione, tra la rappresentazione di primo grado del racconto e quella di secondo grado che si insinua attraverso la citazione. Come un tableau vivant, si compone, infatti, una delle prime scene di Todo modo in cui il protagonista, passeggiando nel bosco circostante l’eremo di Zafer, scorge stese al sole le amanti dei notabili democristiani che avrebbero fatto la loro comparsa nel romanzo di lì a poco: «Era un’apparizione. Qualcosa di mitico e di magico. A immaginarle del tutto nude (e non ci voleva molto), tra l’ombra cupa in cui io stavo e la chiazza di sole in cui stavano loro, con quei colori, in quell’assorta immobilità, ne veniva un quadro di Delvaux». L’ordine delle somiglianze permette a Sciascia di prefigurare il contesto all’interno del quale si situa la storia che sta per raccontare, sospesa fra reale e immaginario, fra uno scenario fisico e uno metafisico, dentro un setting al confine con il surreale. L’allusione a Delvaux suggerisce al protagonista «la disposizione, la prospettiva in cui stavano rispetto al suo occhio; e anche quello che non si vedeva e lui sapeva». La voce narrante si riconosce sin dall’inizio dunque come sguardo narrante (non a caso si tratta di un pittore) attraverso cui viene filtrato il racconto e all’interno del quale i numerosi riferimenti figurativi sembrano alludere ad una continua paradossale imitazione dell’opera d’arte da parte della realtà rappresentata. Sarà così per il ritratto di Don Gaetano da vivo, i cui occhiali suggeriscono il riconoscimento della sua figura nella somiglianza con il Diavolo raffigurato nella Tentazione di Sant’Antonio di Rutilio Manetti. E sarà così anche per il suo ritratto da morto: «Le gambe, aperte quasi a squadra, tendevano l’abito talare; che nello scivolare era andato su, scoprendo le calze bianche […]. Distogliendosi dalle calze, l’occhio, […] si fermava poi agli occhiali che, dal cordoncino attaccato al petto, erano scivolati su una radice e vi stavano in curiosa angolazione rispetto a un raggio che, di tra le foglie, vi cadeva. Sembrava il particolare di un quadro di caravaggesco minore». L’ultimo ‘quadro morente’, con l’ekphrasis della figura scomposta di Don Gaetano, segnala il tentativo estremo di esplorazione, attraverso l’ordine delle somiglianze fra reale e immaginario, della soglia della visibilità, a imitazione di un altro pittore (Odilon Redon) citato nelle pagine del romanzo che nella sua arte aveva messo la «logica del visibile […] al servizio dell’invisibile».

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