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L’articolo riguarda l’esordio cinematografico del regista franco-canadese Robert Lepage e si focalizza sulla forma particolare in cui è strutturato. Le confessionnal (1995), questo il titolo, si svolge su due piani temporali, uno dei quali rievoca il periodo in cui Hitchcock stava girando I Confess (1953) a Québec City. A questa rievocazione si affianca, interagendovi, la narrazione di eventi semi-biografici relativi alla famiglia del protagonista del film, Pierre Lamontaigne, che torna nella città nel 1989, in occasione della morte del padre. Quella del padre è una figura che il film rielabora anche in chiave cinematografica e autoriflessiva, sia nel doppio che copre il ruolo del regista di I Confess sia nel film di Hitchcock che diventa testo di rilettura attraverso l’innesto con la storia privata. Nel risultato l’articolo riscontra una nuova tipologia di adattamento cinematografico.

The essay is about Robert Lepage’s cinematographic debut  in a peculiar film, called The Confessional (1995) where he shows the dramatic interplay between two different sets of time. The former is in the year when Hitchcock was shooting I Confess in Québec City. Lepage uses the same chronological frame to tell the story of a family trouble that somehow dovetails the Hitchcock film, while the present time is represented by Pierre’s coming back to the city on occasion of his father’s death. The father figure is tackled also in selfreflexive ways in the film as Hitchcock’s double stands as a model for Lepage as director and also as Hitchcock’s movie becomes itself a text to be rewritten through the agency of the family’s plot. In the essay I tried to outline in The Confessional a diiferent kind of film adaptation. 

 

Siamo entrati, insieme agli altri spettatori finzionalmente reali, in una sala cinematografica, dove sta per iniziare la proiezione di un film di Hitchcock. Scorrono i titoli d’inizio e scopriamo che si tratta di I confess di Alfred Hitchcock, presentato in prima assoluta al pubblico della città dove è stato girato, Québec City, nel 1953. La macchina da presa ci presenta, più da vicino, tre personaggi, di cui due saranno poi al centro delle vicende narrate, intessute su due diversi piani temporali, che s’intersecano continuamente nel corso del film; non dobbiamo aspettare per capirlo, ne troviamo subito traccia audiovisiva nella scena che sto descrivendo. Dopo aver ripreso l’ingresso nel cinema della folla, visibilmente eccitata per la mondanità dell’occasione, insieme a Hitchcock, la macchina da presa entra in sala quando stanno scorrendo i titoli d’inizio del film e scende tra le file del pubblico fino a inquadrare più da vicino due donne, su indicazione della voce fuori campo che le presenta come zia e madre, quest’ultima incinta. Siamo chiamati, così, a testimonianza di questo battesimo cinematografico che tanta influenza ha nella ricomposizione dei ricordi di Pierre Lamontagne, protagonista del film, e altrettanta sulla prima scrittura cinematografica del regista, Robert Lepage, in una chiave reciprocamente autobiografica.

Per il suo esordio nel cinema, Robert Lepage, all’epoca – siamo nel 1995 – già affermato autore e regista di teatro nel panorama quebecchese, con produzioni soprattutto in lingua francese, sceglie Hitchcock come nume tutelare. Le confessionnal, questo il titolo dell’opera prima, si apre con un omaggio citazionistico al film di Hitchcock, che, tanto per la sua posizione quanto per l’elaboratezza della cornice che l’ospita, fa presumere un rapporto più complesso e approfondito fra i due testi.

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Giornali inzuppati che scorrono nell’acqua. E poi borse, ombrelli: tanti, tantissimi ombrelli rotti, con i manici spezzati, ridotti a scheletro. Immagini feticcio che sembrano schegge di un film di Tarkowsij e suggeriscono lo scandalo di una giornata come tante, stravolta da un’ondata di violenza. Pioveva quella mattina a Brescia e i manifestanti accorsi a Piazza della Loggia per protestare contro il terrorismo neofascista avevano aperto l’ombrello. Gli altri, quelli che non l’avevano, si erano riparati sotto i portici, pochi istanti prima che una bomba, piazzata nel cestino dei rifiuti, esplodesse uccidendo otto persone e ferendone oltre cento.

A quarant’anni dalla strage di Piazza della Loggia, la città di Brescia rinnova la memoria tragica di quell’atto criminoso con Il sogno di una cosa, opera lirica composta da Mauro Montalbetti, con testo e regia di Marco Baliani, qui anche attore, e la regia video di Alina Marazzi.

Lo spettacolo si apre con gli oggetti dei morti e dei feriti proiettati su un sipario di cellophane. L’acqua in cui sembrano galleggiare non è soltanto quella della pioggia del 28 maggio 1974, ma anche quella degli idranti che meno di due ore dopo spazzarono via tutti gli indizi, obbedendo a un ordine misterioso.

In scena, oltre a Marco Baliani, al soprano Alda Caiello e al musicista performer Roberto Dani, ci sono gli allievi del corso di teatro danza della scuola Paolo Grassi di Milano nei panni ora dei carnefici, burattini patetici e inquietanti, ora delle vittime, non solo di Brescia ma di tutte le stragi che insanguinarono quegli anni.

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Sappiamo infatti che la legge è spirituale mentre io sono di carne.

Paolo, Romani 7,14

 

Possedere un corpo è ciò che fanno o piuttosto ciò che sono le persone.

Ricœur, Soi-même comme un autre, primo studio

 

Se tutti i grandi scrittori sono «geometri del desiderio» (Girard), ciò è tanto più vero per Luigi Pirandello, laborioso rabdomante alla ricerca di segrete vene d’acqua nell’abisso del cuore umano, mosso dall’ambizione di censire i fiumi e i rigagnoli che – come scrive Qoèlet – sfociano in un mare che «non è mai pieno».

Un fiume alquanto carico di connotazioni simboliche è menzionato, non a caso, nella prima didascalia di Non si sa come, testo scritto nel ’34 dal drammaturgo agrigentino e messo in scena dalla Compagnia Lombardi-Tiezzi in una tournée che ha collegato ben sedici teatri, dallo Storchi di Modena al Grassi di Milano, dalla Pergola di Firenze al Manzoni di Pistoia. Nella evocativa descrizione della casa di uno dei personaggi, Giorgio Vanzi, si legge infatti come sotto il lungo terrazzo «scorra un fiume, che non si vede», immagine icastica di quel grumo di passioni che alla fine della pièce romperà ogni argine, sancendo ancora una volta l’indissolubile legame tra eros e thanatos.

Non si sa come è una drammaturgia composita, frutto dell’innesto di tre novelle già pubblicate che, secondo il dramaturg Fabrizio Sinisi, costruiscono la struttura di riferimento: «Nel Gorgo dipana orizzontalmente la vicenda, le fornisce impostazione e struttura; La realtà del sogno ne costituisce la diagonale, l’angolatura drammatica; Cinci scava verticalmente il personaggio e ne carica la tragicità illuminandone tutta l’oscurità retroattiva». L’esito è un palinsesto narrativo straordinariamente complesso, non già per il dinamismo d’azione quanto per l’audace squarcio sull’intimità dell’uomo. Nel protagonista Romeo Daddi (Sandro Lombardi) si tratta del ventre della sua coscienza, sconvolta per aver ceduto a un fugace amplesso con Ginevra (Elena Ghiaurov), moglie dell’amico Giorgio Vanzi (Francesco Colella); «delitti innocenti» è l’ossimoro che Romeo utilizza per consegnare alla moglie Bice (Pia Lanciotti), a sua volta insidiata da Respi (Marco Brinzi), tutto il suo sgomento per un corpo che si sveglia da sé «non si sa come», per un «gorgo improvviso», per un «terremoto» inatteso. Disegno imperscrutabile di un Dio che si ostina ad «accecare gli uomini, ogni volta, perché la vita nasca», che si diletta a far crollare «tutte le costruzioni perché la vita si muova».

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At the end of 2012, Robert Lepage started working on a new theatre project (Jeux de Cartes) consisting of four shows, each performed on the same mechanical and central-plan stage design and devoted to a suit. All shows share a collective script and the stage design provided with an intermediate floor from which characters and objects enter. The first episode, Spades, deals with four interwoven war stories, which show two places, albeit geographically distant, connected by the experiences of the characters and by the desert as a common landscape: Las Vegas and Baghdad at the time of the American invasion of Iraq during G. W. Bush Administration. The essay analyses the debut of Lepage’s work in France, in Chalons en Champagne (December 2012).

Jeux De Cartes è il titolo del nuovo spettacolo del regista canadese Robert Lepage[1] che ha debuttato in Francia, a Chalons en Champagne a La Cométe, nel dicembre 2012 con Pique a cui si è aggiunto di recente Cœrs, andato in scena a Essen in ottobre all’interno del Festival curato da Goebbels.[2] Come le carte da gioco hanno quattro semi (picche, cuori, quadri e fiori; nella variante spagnola o nei tarocchi: spade, coppe, danari e bastoni) anche lo spettacolo vedrà, entro il 2015, quattro versioni che si genereranno a partire dalle simbologie ad essi collegati. Il plot prevede quattro storie che si intrecciano in una sfavillante Las Vegas, regno dello show business e del gioco d’azzardo, della finzione e del kitsch, dove ciascun protagonista si misura con un mazziere e si trova a giocare la propria partita con la vita. Anche i personaggi, infatti, ‘incarnano’ uno dei quattro semi:

le spade (picche) sono collegate alla storia di alcuni militari omosessuali che all’epoca dell’invasione dell’Iraq da parte degli States, durante il governo Bush, decidono di disertare;

le coppe (cuori) si riferiscono alla coppia che si sposa a Las Vegas con un rito celebrato da un sosia di Elvis Presley, rovinandosi poi tra giocate al casinò e atti di sessualità spinta;

i denari (quadri) sono legati all’imprenditore che soffre di gioco compulsivo e di alcolismo, dalle cui spirali riesce a uscire grazie al salvifico intervento di uno sciamano del deserto;

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