Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] Sperimentali. Cinema videoarte e nuovi media →

 

 

 

Le radici della nostra individualità ci sfuggono;

altri le hanno coltivate per noi, a nostra insaputa.

Elena Gianini Belotti

 

Il corpo è uno spazio aperto,

un campo di battaglia dei conflitti.

Julia Kristeva

 

Sperimentale riguarda qualcosa creato grazie all’esperienza e che si fonda e che procede grazie ad un esperimento. Nella sua accezione più ampia, quindi, la sperimentazione riguarda la ricerca. Nello specifico dei linguaggi audiovisivi, la sperimentazione si riferisce a quelle opere di ricerca che vengono concepite quasi sempre da un’insoddisfazione nei confronti della rappresentazione offerta dai media mainstream, dal desiderio di sperimentare un procedimento e di applicarlo ad una specifica questione come, ad esempio, la messa in discussione degli immaginari sessisti. Non a caso, negli ultimi venti - trent’anni la riflessione sui gender studies riguarda sia l’analisi delle differenze di genere sia quelle relative ad altri tipi di differenze, fra cui quelle generazionali, di razza, di classe ecc. Sono state le studiose afroamericane – da Bell Hooks in poi – a farci ragionare sulla molteplicità delle donne invitandoci ad abbandonare le concezioni di univocità delle cosiddette ‘minoranze’. Tra gli obiettivi più urgenti negli studi socio antropologici sul genere persiste quello di scardinare gli stereotipi patriarcali e gerarchizzanti sulle donne.Ad un rapido e generico sguardo, nel corso della storia dell’umanità, le donne sono state raccontate attraverso il filtro della maternità e della femminilità. Rarissimi sono gli studi che capovolgono questi dispositivi culturali e che si rivolgono ad altre possibilità. Come ha sottolineato l’antropologa Alessandra Gribaldo:

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] Sperimentali. Cinema videoarte e nuovi media →

 

Fin dalla sua fondazione nel 2013 da parte di tre attiviste, il movimento Black Lives Matter ha visto la capacità organizzativa e comunicativa delle donne al centro di un’onda che oggi riempie le piazze di tutto il mondo. Molte delle immagini che hanno ampiamente circolato durante le recenti proteste, dentro e fuori la rete, avevano la stessa origine: provengono dal flusso di Instagram, create proprio da artiste e illustratrici già attive da tempo sulla piattaforma. Dalle illustrazioni colorate di Laci Jordan (https://www.instagram.com/solacilike/) e Naimah Thomas

(https://www.instagram.com/naimah_creates/) dedicate alle vittime, ai poster queer diUnapologetic Street Series (https://www.instagram.com/theunapologeticstreetseries/) [fig. 1], alle visualizzazioni di dati con protagoniste donne nere di Mona Chalabi (https://www.instagram.com/monachalabi/).

Come sottolinea Victoria Esteves, è ormai innegabile che questo tipo di immagini – e gli immaginari che le sottendono – abbiano ormai travalicato i confini del web per entrare a pieno titolo nel discorso pubblico.

Alcune di queste donne sono artiste più ‘tradizionali’, altre artiste ‘digitali’, alcune sono streetartist, altre sono giornaliste, altre ancora grafiche e designer. Quello che le accomuna è l’aver scelto questa piattaforma per sperimentare un linguaggio visuale nuovo, e anche un nuovo tipo di connessione tra di loro e con il pubblico. E averlo fatto a partire da un sentire comune: la necessità di presa di parola e di creazione di un immaginario in cui l’identità e la lotta politica delle donne nere, fossero, finalmente, al centro, insieme ai loro corpi.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] Sperimentali. Cinema videoarte e nuovi media →

 

L’utilizzo di Internet e dei social media è diventato progressivamente centrale per le pratiche di attivismo, soprattutto dal punto di vista della circolazione di istanze politiche ignorate dai media mainstream. In particolare, ai social media e agli spazi digitali può essere attribuito un doppio ruolo: da un lato aiutano a connettere realtà diverse, a innescare reti, e in casi specifici permettono di coordinarsi e dare supporto nei momenti critici della mobilitazione, come hanno dimostrato gli hashtag riferiti alle proteste di Black Lives Matter all’indomani dell’omicidio di George Floyd; dall’altro sono a loro volta strumenti di creazione, a cui affidare l’espressione della propria soggettività politica.

Tenendo presente che «Internet è uno spazio relazionale ambivalente, si configura al tempo stesso come strumento per la sperimentazione di identità e relazioni, e come luogo di controllo e di normalizzazione» (Cossutta et al. 2018, p. 17), si possono attraversare le «tensioni e contraddizioni» della cultura digitale valorizzando la consapevolezza che dietro agli account e ai profili si trovano soggetti socialmente incarnati e situati (Fotopoulou 2016, p. 1). In questo senso i social media sono spazi privilegiati di convergenza tra declinazionifisiche e digitali dell’attivismo, la qualesi manifesta da una parte nel tracimare online delle pratiche offline, dalla condivisione di percorsi alla creazione di reti che oltrepassano i confini fisici, geografici, economico-sociali e diventano potenzialmente globali; dall’altra nella moltiplicazione e circolazione a volte imprevista dei contenuti prodotti dai soggetti che si riconoscono in queste reti e in queste istanze.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] Sperimentali. Cinema videoarte e nuovi media →

 

Instagram è un social network proprietario collegato al gruppo Facebook, che marchi e celebrities usano come vetrina a livello globale, e che vede un continuo ricorrere di immagini di corpi basati sui canoni dominanti. La condivisione di selfie e altre immagini corporee, spesso pubblica e aperta, e il confronto continuo con le regole della communitysono fra gli elementi che sottolineano come questa piattaforma si configuri come dispositivo di controllo e pattugliamento dei confini per le performance soggettive. Esemplare è la questione relativa al confine della ‘nudità’ su Instagram, che ha portato al movimento #freethenipple e alla necessità di non confinare i corpi privi di vestiti nella sola pornografia.

In molte reclamano il bisogno di ‘normalizzare’ lo sguardo sui corpi che abitiamo come strumento di lotta ed empowerment: scegliere di mostrare il proprio corpo diviene essenziale per riappropriarsi del proprio diritto ad occupare spazio e possedere una agency sia individuale che collettiva (per un esempio, si veda il rapporto fra immagine e testo in questo post dell’autrice ed attivista Carlotta Vagnoli: https://www.instagram.com/p/CEi-OKElj95/). Troppo spesso invece il discorso pubblico si scaglia violentemente contro la messa in scena di posizionamenti che non si conformino agli scenari della normatività estetica, secondo cui solo ciò che appartiene alla cultura del ‘bello’ è mostrabile senza necessità di giustificazioni o spiegazioni.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] Sperimentali. Cinema videoarte e nuovi media →

 

Scorrendo l’elenco dei diplomati del corso di regia del Centro Sperimentale di Cinematografia, all’anno 1964 spicca il nome diuna studentessa di origine spagnola, Helena Lumbreras (1935-1995). Dopo un lungo oblio storiografico, Lumbreras è stata al centro di iniziative – come la mostraal Moma di New York dedicata al cinema radicale catalano (2018) e la messa on-line dei suoi film da parte della Filmo Tecade Catalunya – che ne hanno fatto conoscere l’opera al pubblico internazionale. Quest’opera di divulgazione si è accompagnata a una crescente attenzione accademica, con studi che ne hanno indagato il contributo specifico nella cinematografia spagnola. L’attività cinematografica di Lumbreras, infatti, s’intensifica in un periodo molto delicato per la Spagna, ovvero gli anni immediatamente precedenti alla morte del dittatore Francisco Franco e quelli della transizione democratica.Nel 1970, infatti,lascia l’Italiaper stabilirsi a Barcellona, città dove incontrerà il suo compagno di vita Mariano Lisa, con cui fonderà il Colectivo Cine de Clase (Collettivo Cinema di Classe) [fig. 1]. Il Colectivo firmerà una serie di film militanti, caratterizzatida un metodo di regia collettivo ecentrato sulla partecipazionedei soggetti filmati.Tra questi ricordiamoEl campo para elhombre(1975), dedicato alle condizioni di sfruttamento dei lavoratori nelle aree rurali, e i due O todos o ninguno (1976) e A la vuelta del grito (1977-78) centrati sulle lotte del movimento operaio catalano.Sul legame tra la regia sperimentale di Lumbreras e il suo attivismo anti-franchista sono stati recentemente pubblicati diversi contributi, che nesottolineano leinfluenze transnazionali, in particolare del Nuovo Cinema Latinoamericano (Ledesma, 2014), e del cinema d’impegno italiano (Mirizio, 2017).Non ultimo, la sua figura ha suscitato un certo interesse anche tra le studiose femministe (Cami-Vela, 2009; Martin-Marquez, 2012; Zecchi, 2019), che ne hanno indagato la biografia e l’operada due prospettive che interessano da vicino anche questo breve contributo:il ruolo dell’autorialità femminile nella storia del cinema, e la relazione tra genere e cinema militante. Tuttavia, anziché focalizzarci sui suoi lavori del periodo spagnolo, guarderemo alla sua traiettoria in Italia, quella iniziata nel 1961 con l’ammissione al Centro Sperimentale e idealmente terminata nel 1970 con El cuarto poder. Focalizzarsi su questo periodo aiuta atessere una genealogia transnazionale tra la storia del cinema spagnolo e quella del cinema italiano. Allo stesso tempo, dato che questo scrittoha come obiettivo il recupero di una regista dall’oblio storiografico (italiano), il mio contributo porrà un accento particolare sui temi della precarietà e della mobilità, comesfumature storiche dell’autorialità femminilecapace di attivare una forma di ‘anacronismo strategico’, tra noi e una pioniera del cinema militante.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] Sperimentali. Cinema videoarte e nuovi media →

 

L’intento di questo contributo è quello di inquadrare il lavoro artistico di Cecilia Mangini entro un contesto più ampio rispetto al ventennio del boom economico, in cui la sua figura di regista donna solo con fatica è riuscita ad emergere dai sodalizi creativi che caratterizzavano lo stile produttivo del tempo. Pur considerata una pioniera capace di garantire originali spazi di visibilità al femminile, è stata relegata ai margini della storia del cinema sperimentale mentre il suo lavoro è stato spesso valutato all’ombra delle importanti collaborazioni con registi uomini più autorevolmente riconosciuti.

Solo recentemente, attraverso una interessante operazione di recupero della sua produzione dispersa, si è provato a valorizzare le originali forme espressive che hanno caratterizzato il suo cinema sperimentale, ma anche a restituirle una autonomia autoriale che le garantisse uno statuto di indipendenza e autodeterminazione. È assai interessante come questo processo di rivalutazione, cui lei stessa ha partecipato attraverso una lucida campagna di autopromozione, sia iniziato con il nuovo millennio, vedendola, ottantenne, protagonista di una formidabile primavera di successi e rinnovati stimoli creativi.

Cecilia Mangini è nata a Mola di Bari, in Puglia, nel 1927 ed è cresciuta durante gli anni del regime fascista nella Firenze dei Cineguf. Da subito il cinema è stato per lei salvifico consentendole, attraverso l’affezione alle immagini del neorealismo, di operare una riflessione critica sulla realtà del suo tempo. La stessa che ha iniziato a raccontare attraverso l’obiettivo Tassar di una Super Ikonta Zeiss acquistata con i soldi regalatele per Natale dalla famiglia. È iniziata così, nei primi anni Cinquanta, la documentazione del dramma dei lavoratori nei loro contesti sociali e familiari, attraverso un atto creativo che le ha consentito di coniugare il suo dirompente desiderio di indipendenza con la passione politica.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] Sperimentali. Cinema videoarte e nuovi media →

Nel lavoro di Renata Boero (Genova, 1936) si individua una specifica attrazione per l’immagine in movimentoche si definisce in prima istanzanella ricerca di unadimensione di spazio, di tempo e di ritmo, oltre la superficie.

Partire dalla superficie per analizzare la sua pittura si rivela pertanto riduttivo. Rischia di disseminare letture formali che sollecitano genealogie, in un’oscillazione continua tra gestualità e dimensione concettuale, e forzail suo lavoro all’interno delle differenti declinazioni del ritorno alla pittura degli anni Settanta. Questi indirizziinterpretativivaporizzano il senso profondo della processualità della sua ricercae allo stesso modo offuscano la complessità mediale in cui è immersa la sua operatività, dove fotografia e cinema, come dichiara l’artista, sono un ‘a priori della pittura’; mezzi che scardinano la formalizzazione dell’atto pittorico e ne riattivano il senso in un divenire performativo che coinvolge il corpo e la natura.

Identificando una prospettiva di analisi transmediale non ancora esplorata dagli studi a lei dedicati, questo intervento si propone di riflettere altresì sullaspecifica politicità del suo lavoro. Boero hasempre rifiutato di considerare la sua praticaattraverso una codificazione di genere néha mai voluto definirsi artista femminista, per quanto la sua ricerca, riletta in una costellazioni di gesti e relazioni, faccia emergerel’essenza diun fare domestico e rituale, al di fuori di una visione definibile genericamente intimista che, all’opposto, manifesta la radicalità e il potere trasformativo del suo agire pittorico. Il femminismo per Boero è una ‘pratica di esistenza’. Si inquadra in una più ampia idea di libertà dell’individuo contro le ideologie dominanti, nelrinnovato incontro con la natura e la dimensione spirituale. Dopo il trionfo della civiltà dei consumi, Boero riscopre il gesto dell’uomo in sintonia con i ritmi della natura e all’emergenza di una coscienza ecologica. Un’inversione di rotta e di velocità; un ritorno alle radici, al mito ancestrale, in cui si riverberano letture psicoanalitiche e antropologiche, di Jung e Lévi-Strauss in primis, nonchéla fascinazione per le culture extraeuropee conosciute da lei all’epocatramite pubblicazioni e in una dimensione di viaggio immaginario che si farà reale solo a partire dagli anni Ottanta.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] Sperimentali. Cinema videoarte e nuovi media →

 

 

I didn’t wake up one morning feeling dissatisfied.

These feelings just became more and more intense,

until by the time the sixties ended I’d look in the mirror

and see two faces, knowing that on the one hand I loved

being black and being a woman, and that on the other it was

my colour and sex which had fucked me up in the first place.

Nina Simone

 

Stati Uniti, fine anni Sessanta, essere donna e nera. Nina Simone scrive Four Women, quattro donne, generazioni diverse, dalla schiavitù di Aunt Sara (My back is strongenough to take the pain) alla pelle schiarita (my skin is yellow) della mulatta Sofronia, nata dalla violenza dell’uomo bianco, alla prostituta Sweet Thing (My hips invite you) fino a Peaches, fiera e intransigente, trasfigurazione dell’autrice (I'll kill the first mother I see / my life has been too rough/I'm awfully bitter these days / because my parents were slaves). Pubblicato nel 1966 nell’album Wild is the Wind, Four women anticipa in qualche modo nel campo artistico quella pratica della genealogia femminile che sarà poi introdotta dalla psicanalista femminista Luce Irigaray a partire dalla conferenza di Montreal Le corps à corps avec la mère del 1980. La genealogia individuata da Irigaray è duplice: una basata sulla procreazione, che lega direttamente alla madre e alle generazioni di donne precedenti, seguendo la linea della maternità; l’altra basata sulla parola, sulla produzione culturale femminile del passato.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] Sperimentali. Cinema videoarte e nuovi media →

 

 

1. E Kazan creò la donna… perché Barbara la distruggesse

Adagiato sulla sponda di una piscina, un uomo di mezza età ‒ la volitiva mascella è quella inconfondibile di Kirk Douglas ‒ avvicina allo specchio dell’acqua un grappolo d’uva. Subito, come una sirena richiamata in superficie da un dono inaspettato, una giovane donna emerge col capo per addentare il frutto. Evidente materializzazione di una fantasia erotica del maschio, la splendida figura femminile mostra i lineamenti alteri di Faye Dunaway. Nulla in lei è casuale, ma tutto si conforma alla più implacabile legge del glamour hollywoodiano. Non hanno forse i suoi capelli bagnati la luminosa compattezza di un elmo dorato? Non sono forse in perfetto contrasto con la scura frangia di ciglia finte che ‒ addendo obbligato del make-up anni Sessanta ‒ le contorna gli occhi? Perfino l’uva è gustata con una voluttà talmente artificiosa da far presagire un bacio con l’uomo che, dal bordo della vasca, la contempla estasiato. Eppure, all’ultimo, la femme fatale si sottrae capricciosa alla bocca dell’amante per scomparire nuovamente sott’acqua [fig. 1].

Scandita da un enfatico rallenti, si compie così la più memorabile apparizione del personaggio di Gwen Hunt ne Il compromesso (The Arrangement) di Elia Kazan. Diretto nel 1969 e ispirato a un omonimo romanzo pubblicato dallo stesso regista due anni prima, questo debordante melodramma è fondamentalmente la storia di una crisi esistenziale. Il film segue infatti il tellurico impatto che la liaison adulterina fra il pubblicitario Eddie Anderson e l’irresistibile Gwen finirà per avere sulla placidità borghese del primo. Come osserva caustico Richard Schickel dalle colonne di «Life», il risultato è un’opera perigliosamente in bilico tra una desueta estetica da studio system e un fin troppo conscio tentativo di assecondare certe arditezze della nascente New Hollywood, specie la sua disinvoltura nel trattamento della sessualità (cfr. Schickel 1969). Ma al di là di qualsiasi giudizio, Il compromesso tradisce un afflato autobiografico di notevole interesse. È indubbio infatti come il protagonista, self-made man di origine greca, sia proiezione di quella che Kazan riteneva essere la sua esperienza di artista «condizionato dal matrimonio, dal Partito comunista, dalla HUAC e dai capi degli studios» (Briley 2016). Di contro Gwen, bionda bellezza in grado di scuotere Eddie dalla palude di compromessi in cui è precipitato, nasconde l’ombra assai più misteriosa e sfuggente dell’attrice Barbara Loden.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

1 2 3 4 5