Somiglianza

di

     

I novant’anni di De Chirico. Ho davanti un ritratto che ha fatto, a matita, Bruno Caruso. Un ritratto che è un ritratto: non come si usa ormai dire a giustificazione della non somiglianza, un’interpretazione. Il fatto è che la somiglianza, cioè la fedele riproduzione della fisionomia, è già una interpretazione, e la più attendibile. Quando poi la verità fisionomica è colta in espressività, cioè nel momento in cui il soggetto esprime se stesso, in cui tra la luce degli occhi e la piega delle labbra dice di sé quel che già conosciamo della sua vita, delle sue azioni, dei suoi pensieri, della sua opera, il ritratto si fa ancor più somigliante e cioè ancora più attendibile l’interpretazione.

L. Sciascia, Nero su nero (1979)

Sempre, o quasi, fra gli scritti di Sciascia il discorso sul ritratto tira in ballo il concetto di somiglianza. L’ordine delle somiglianze (1967), scoperto dallo scrittore ‘leggendo’ i quadri di Antonello e in particolare il Ritratto di ignoto (che in altra occasione Sciascia non teme di definire in assoluto la sua opera pittorica preferita) alla luce delle pagine di Antonio Castelli, diviene dopo la stesura di quel saggio la costante di ogni interpretazione sull’arte del ritratto. «Il gioco delle somiglianze» è definito come il fondamento gnoseologico della visione del mondo alla quale appartiene l’immaginario di Antonello e anche il suo; esso è infatti «in Sicilia uno scandaglio delicato e sensibilissimo, uno strumento di conoscenza. A chi somiglia il bambino appena nato? A chi il socio, il vicino di casa, il compagno di viaggio? A chi la Madonna che è sull’altare, il Pantocrator di Monreale, il mostro di villa Palagonia? Non c’è ordine senza le somiglianze, non c’è conoscenza, non c’è giudizio. I ritratti di Antonello “somigliano”; sono l’idea stessa, l’archè, della somiglianza». Anche di fronte all’enigmatico sorriso dell’Ignoto, sulla cui identità si sono interrogati i più illustri storici dell’arte e dalla cui effige prende vita il capolavoro di Vincenzo Consolo, il tentativo di dare risposta all’interrogativo ricorrente è destinato a fallire: «A chi somiglia l’ignoto del Museo Mandralisca? Al mafioso della campagna e a quello dei quartieri alti, al deputato che siede su banchi della destra e a quello che siede sui banchi della sinistra, al contadino e al principe del foro; somiglia a chi scrive questa nota (ci è stato detto); e certamente somiglia ad Antonello. E provatevi a stabilire la condizione sociale e la particolare umanità del personaggio. Impossibile. È un nobile o un plebeo? Un notaro o un contadino? Un uomo onesto o un gaglioffo? Un pittore un poeta un sicario?

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Tableau Vivant

di

     

«Ecco, così» disse la contessa. Si vedeva, con la coda dell’occhio, nella grande specchiera; e davanti, sul piano da scrittoio del trumeau, aveva, ridotto a vivida miniatura dentro il coperchio di una tabacchiera, quel quadro di François Boucher che i casanovisti dicono sia il ritratto di mademoiselle O’Murphy. Erano di moda i quadri viventi: e nell’intimità di un convegno d’amore, nel piccolo, delizioso padiglione a boiseries in cui, al marito pretestuando emicranie, amava ritirarsi, la contessa ne componeva uno straordinario, a perfetta imitazione del quadro di Boucher, la tenue luce aiutando a pareggiare a quelli di mademoiselle O’Murphy i suoi anni. Due soli elementi: una dormeuse e la propria nudità. Non si poteva desiderare quadro vivente più splendido, imitazione più precisa.

L. Sciascia, Il consiglio d’Egitto (1963)

Soltanto alcuni dei quadri citati da Sciascia nelle pagine dei suoi romanzi presentano una dinamizzazione tale da farci scoprire in essi dei veri e propri tableaux vivants. I quadri viventi composti allo specchio dalla contessa di Regalpetra negli incontri erotici con l’avvocato Di Blasi nel Consiglio d’Egitto – esempio emblematico di questo tipo di citazione figurativa – alludono attraverso il nome del pittore («boucher, boucherie, vucciria») a una «sfumatura di macelleria, di vucciria» che si intravede oltre la luce sensuale e la gioia di vivere della scena. In altri termini la postura dell’amante di Di Blasi, costruita a imitazione del quadro del pittore francese, con un’associazione verbale che congiunge la Francia alla Sicilia (partendo dal nome di Boucher e giungendo al termine palermitano «vucciria»), tende ad anticipare nel racconto la conclusione violenta della storia dell’altro protagonista del Consiglio d’Egitto. La gioiosa carnalità della scena iniziale lascerà il posto infatti alla degradazione della carne di Di Blasi nelle pagine finali della tortura e della esecuzione della pena capitale. Sciascia sembra interessato non tanto all’animazione del quadro, quanto all’imitazione di esso. E così, allo stesso modo, in altre pagine e in altri romanzi i rimandi figurativi segnalano i continui scambi tra pittura e narrazione, tra la rappresentazione di primo grado del racconto e quella di secondo grado che si insinua attraverso la citazione. Come un tableau vivant, si compone, infatti, una delle prime scene di Todo modo in cui il protagonista, passeggiando nel bosco circostante l’eremo di Zafer, scorge stese al sole le amanti dei notabili democristiani che avrebbero fatto la loro comparsa nel romanzo di lì a poco: «Era un’apparizione. Qualcosa di mitico e di magico. A immaginarle del tutto nude (e non ci voleva molto), tra l’ombra cupa in cui io stavo e la chiazza di sole in cui stavano loro, con quei colori, in quell’assorta immobilità, ne veniva un quadro di Delvaux». L’ordine delle somiglianze permette a Sciascia di prefigurare il contesto all’interno del quale si situa la storia che sta per raccontare, sospesa fra reale e immaginario, fra uno scenario fisico e uno metafisico, dentro un setting al confine con il surreale. L’allusione a Delvaux suggerisce al protagonista «la disposizione, la prospettiva in cui stavano rispetto al suo occhio; e anche quello che non si vedeva e lui sapeva». La voce narrante si riconosce sin dall’inizio dunque come sguardo narrante (non a caso si tratta di un pittore) attraverso cui viene filtrato il racconto e all’interno del quale i numerosi riferimenti figurativi sembrano alludere ad una continua paradossale imitazione dell’opera d’arte da parte della realtà rappresentata. Sarà così per il ritratto di Don Gaetano da vivo, i cui occhiali suggeriscono il riconoscimento della sua figura nella somiglianza con il Diavolo raffigurato nella Tentazione di Sant’Antonio di Rutilio Manetti. E sarà così anche per il suo ritratto da morto: «Le gambe, aperte quasi a squadra, tendevano l’abito talare; che nello scivolare era andato su, scoprendo le calze bianche […]. Distogliendosi dalle calze, l’occhio, […] si fermava poi agli occhiali che, dal cordoncino attaccato al petto, erano scivolati su una radice e vi stavano in curiosa angolazione rispetto a un raggio che, di tra le foglie, vi cadeva. Sembrava il particolare di un quadro di caravaggesco minore». L’ultimo ‘quadro morente’, con l’ekphrasis della figura scomposta di Don Gaetano, segnala il tentativo estremo di esplorazione, attraverso l’ordine delle somiglianze fra reale e immaginario, della soglia della visibilità, a imitazione di un altro pittore (Odilon Redon) citato nelle pagine del romanzo che nella sua arte aveva messo la «logica del visibile […] al servizio dell’invisibile».

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Zattera

di

     

- […] nella forma più diretta, più semplice, mi dica: che cosa è la Chiesa?

- Ecco, un prete buono le risponderebbe che è la comunità convocata da Dio; io, che sono un prete cattivo, le dico: è una zattera, la zattera della Medusa, se vuole; ma una zattera.

L. Sciascia, Todo modo (1974)

All’inizio degli anni Settanta, come in preda a una visione infernale, Leonardo Sciascia fa i conti con la Chiesa cattolica e crea quella che a Pasolini sembra la «metafora degli ultimi trent’anni di potere democristiano, fascista e mafioso». Oltre ad essere uno dei suoi romanzi più dirompenti e riusciti, Todo modo è forse il testo sciasciano a più alto tasso di citazioni artistiche.

Il protagonista è un non meglio identificato pittore di successo, che arriva alla sua verità proprio mentre disegna, perché disegnando i suoi pensieri «si fanno più esatti e lucidi». Gli occhiali scivolati dal cadavere di Don Gaetano gli appaiono come «il particolare di un quadro di caravaggesco minore», un particolare che egli ha visto in mano al diavolo in una copia della Tentazione di Sant’Antonio di Rutilio Manetti, opera del mediocre pittore Nicolò Buttafuoco. Il dipinto è la prima metafora pittorica presente nel romanzo, un’allusione al risvolto demoniaco della vista nitida, in altre parole della conoscenza e del sapere. Era stato il pittore Fabrizio Clerici ad accompagnare Sciascia nella chiesetta della campagna senese dove aveva visto per la prima volta la copia del quadro, scelto per la copertina della prima edizione di Todo modo. Oltre che dal volto del diavolo, i cui tratti aleggiano sinistramente nella figura di Don Gaetano, il protagonista finisce tentato dall’idea di disegnare il volto di Cristo: entrambi i personaggi convergono nell’idea che l’unico artista a riuscire nell’impresa sia stato Odilon Redon. Nella loro lezione di storia dell’arte, i due incarnano verosimilmente la posizione di Sciascia, che al suo capezzale teneva proprio un’incisione dell’artista francese raffigurante il viso di Gesù morente.

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