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Nota principalmente come cantante, Gabriella Ferri era invece un’artista completa. Donna intensa, irrequieta, profondamente sensibile esprime il suo talento soprattutto nell’interpretazione di canzoni e di sketch brillanti.

Capitolina di nascita (1942), deve al quartiere Testaccio la sua romanità che le darà l’identità artistica. «Il dialetto è la mia lingua» diceva spesso, e difatti non l’abbandonerà mai, rendendolo l’insegna della sua autenticità.

Scopre le canzoni popolari grazie al padre, al quale era profondamente legata, e riesce a dare forma alla sua passione per gli stornelli e la musica folk quando incontra Luisa De Santis, figlia di Giuseppe (regista di Riso Amaro). Insieme danno vita al duo Luisa e Gabriella e vanno a cercare fortuna a Milano dove vengono ribattezzate le Ê»romanineʼ. La fortuna le trova e nel 1964 fanno il loro esordio televisivo nella trasmissione La fiera dei sogni presentata da Mike Bongiorno, cantando La società dei magnaccioni. Nei giorni seguenti all’apparizione televisiva il 45 giri del brano venderà un milione e settecentomila copie. «Non mi piace parlare della mia carriera. È nata per caso e continua per caso», scriverà anni dopo la Ferri. Punto di vista che nel racconto della sua carriera rispettiamo e facciamo nostro, tranne che nell’accendere dei fari sugli incontri tra questa casualità e gli Ê»schermiʼ.

Il primo è il piccolo schermo che, grazie alla suddetta trasmissione di Bongiorno, le dà subito grandissima visibilità. È un mezzo che a malapena ha dieci anni, trasmette le immagini in bianco e nero, ma soprattutto è una vetrina attenta ai giovani.

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Raccontare le donne, in letteratura, in pittura, come in qualunque altro tipo di espressione artistica, sino almeno a buona parte del Novecento, è stato troppo spesso appannaggio degli uomini e quando qualche donna ha trovato le condizioni e il coraggio per raccontarsi e raccontare (cosa che per fortuna è accaduta) lo ha fatto perlopiù con una vena tragica o malinconica, esprimendo con toni drammatici i propri sentimenti a lungo soffocati. Lo ha raccontato anche Virginia Woolf, inventandosi il personaggio di Judith, la sorella di Shakespeare. D’altro canto, a partire dall’età moderna, il mondo del teatro ha avuto la particolarità di annoverare tra le schiere delle proprie artiste anche spiriti energici e ironici, capaci di giocare con le maschere del proprio sé e di sperimentare, con l’ausilio della finzione scenica, una qualche forma di libertà sociale e sessuale, travalicando (non solo con ruoli en travesti) i confini che separano i generi. Ecco che, per restare in ambito italiano, comiche dell’arte, come la ben nota Isabella Andreini, sono alla base della costruzione dell’identità scenica contemporanea, prefigurata dalle caratteriste del teatro dei ruoli ottocentesco (soprattutto all’interno del repertorio shakespeariano e goldoniano), sino ad arrivare alle sperimentatrici di nuove forme comico-popolaresche e dialettali come Dina Galli, Titina De Filippo, Ave Ninchi. Ma raramente queste attrici sono state anche autrici, scrittrici, registe, insomma autonome sia nella creazione del proprio stile recitativo sia nella costruzione delle storie e nella definizione del quadro poetico ed estetico entro cui collocarle. Naturalmente l’ultima nata tra le arti visive ha potuto contare su un numero maggiore di artiste consapevoli del proprio ruolo, non più soltanto mere interpreti, muse ispiratrici di registi affermati o volti Ê»che bucano lo schermoʼ, ma colte esegete della realtà, Ê»poetesseʼ della visione o ancora, col passare del tempo, esperte di ripresa e montaggio, dunque artefici di un processo e di un prodotto audiovisivo che Ê»inquadraʼ il mondo femminile con un occhio diverso, da una nuova prospettiva.

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