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Comme l’a bien montré Peter Brooks, le mélodrame produit ses excès narratifs de manière progressive, à travers des scènes très visuelles: une suite d’images-repère qui servent à exhiber le déroulement du récit.

Le goût de l’image fixe et le caractère stéréotypé du geste proviennent de l’héritage du tableau théâtral, qui répondait à l’exigence du mélodrame de communiquer un message clair en représentant l’instant prégnant de la narration. Le genre a besoin de telles images qui restent dans la mémoire du spectateur. Des images où se dépose le récit et où l’on assiste à une mise en espace du temps psychologique des personnages, rendu visible par la posture et la place des protagonistes à l’intérieur d’un cadre. Un tel instant prégnant ne coïncide pas avec le point culminant de l’action mais il est capable de suggérer à la fois son début et sa fin, de manière à stimuler les inférences du spectateur.

Le mélodrame comme le roman-photo présentent souvent une femme déchirée entre Agapè (l’amour chrétien, le foyer domestique) et Éros (l’amour absolu, le désir sans fin), soit les deux versants de l’amour comme analysés par Denis de Rougemont. L’héroïne du roman-photo, héritière du roman-feuilleton le plus sombre, rêve avant tout d’une vie en famille et elle est prête à sacrifier ses propres rêves d’amour pour accéder à cet idéal. Mais Éros est toujours aux aguets, il surgit souvent du passé pour détruire l’équilibre familial et renverser le décorum d’Agapè à travers le cliché mélodramatique de la fête perturbée.

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Qui di seguito la trascrizione integrale dell’intervista.

Riprese audio-video e montaggio: Salvo Arcidiacono, Gaetano Tribulato; Grafica e animazioni: Gaetano Tribulato.

 

D: Il suo rapporto con la letteratura è stato da sempre molto intenso già a partire dall’esordio in collaborazione con Leonardo Sciascia: come si gioca per lei questa scommessa della relazione fra fotografia e narrazione?

R: Io ho avuto grande fortuna nel rapporto con la letteratura ma anche una grande difficoltà nel rapporto con la scrittura. Il rapporto con la letteratura nasce dalla mia storia di fotografo, che trova in Leonardo Sciascia il mio interlocutore fondamentale. Quando ho avuto la fortuna di cercarlo e di incrociarlo lui ha avuto nei confronti di quello che io stavo già facendo da un paio d’anni, quello che io chiamo un ‘effetto retroattivo’, perché mi ha fatto capire che io non stavo facendo un lavoro di tipo antropologico-documentaristico ma, bontà sua, diceva: «di racconto, narrazione». Poi c’è stata la costruzione di quel primo libretto, libretto che quando era piccolo era più grande di quello grande. [Feste religiose in Sicilia, Leonardo, 1965]

La struttura di quel libro l’abbiamo fatta insieme. Veniva naturale, perché si trattava di fare un libro nel quale mettevamo insieme dei piccoli reportage su varie feste, quindi era come fosse un’antologia di racconti visivi. E c’era il testo di Sciascia, prima. Però col tempo io, e anche altri, ci siamo resi conto che quel testo non era una prefazione, era consustanziale al libro. Era in un certo senso, per me che avevo vent’anni, addirittura al di sopra delle mie possibilità di gestione di questa visione delle cose, perché la mia enciclopedica ignoranza, che ancora impera, allora era ancora più ciclopica. Ma, per esempio, nella struttura del libro Sciascia aveva fatto precedere ciascuna delle serie sulle feste da un ‘gesto letterario’, per cui c’era un piccolo poema popolare, il retro di un santino, una citazione, a parte quel bellissimo finale con Pascal: quindi il libro si strutturava come un libro letterario. Era come se fosse un libro di racconti che poteva anche essere visto come un libro di antropologia, in definitiva. Così, però, non era, perché la mia scelta snobistica – io sono riuscito ad essere snob prima ancora di avere gli strumenti per esercitare dello snobismo – era quella di non andare a certe feste importanti come il festino di Palermo, la festa di Sant’Agata, i misteri di Trapani, perché erano turistiche. Solo qualche asino che sbagliava strada passava da quelle parti, però io cercavo proprio l’autenticità. Quindi questo libro si presentava come un libro di racconti.

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Ferdinando Scianna è sempre stato «un fotografo che scrive», ma se in un primo momento parole e immagini sono state da lui utilizzate parallelamente nell’attività fotografica e in quella giornalistica, con Quelli di Bagheria (2002), con La geometria e la passione (2009) e soprattutto con i suoi libri più recenti, ha scelto di coniugare in un’unica sintassi l’espressione verbale e quella visuale, confermando le sue indubitabili doti di doppiotalento. Nel saggio vengono analizzate proprio quelle opere in cui, a partire da Quelli di Bagheria fino ai Ti mangio con gli occhi (2013) e Visti&Scritti (2014), dalla sovrapposizione e dall’accostamento della «scrittura di luce» a quella d’inchiostro nascono straordinari esempi di narrazione fototestuale.

Ferdinando Scianna’s always been «un fotografo che scrive». At the first time he used separately words and images both in photography as in the journalism; in recent years he reveals his ‘doubletalent’, making use of verbality and visuality in the same format.  The aim of this paper is to analyze the books, from Quelli di Bagheria to Ti mangio con gli occhi (2013) and Visti&Scritti (2014), which represent typical examples of phototexts, origined by unusual combination of «light writing» and ink writing.

 

Sin da quel primo straordinario libro d’esordio, che resta forse ancora dopo cinquant’anni il suo testo più affascinante, Ferdinando Scianna ha sempre sentito il bisogno di accompagnare le sue fotografie con le parole. Feste religiose in Sicilia (1965), infatti, oltre ad essere introdotto dal saggio di Leonardo Sciascia Una candela al santo una al serpente e oltre le epigrafi scelte dallo scrittore siciliano in un repertorio vasto che va dai testi letterari alle immaginette votive, presenta nella prima edizione, in appendice, delle brevi didascalie narrative di pugno del fotografo (scomparse poi nella più elegante seconda edizione dell’87) che raccontano le feste rappresentate negli scatti.[1]

Del resto, che fosse «un fotografo che scrive»[2] Ferdinando Scianna lo lascia intuire chiaramente con Quelli di Bagheria (2002) e La geometria e la passione (2009), e in più lo dichiara lui stesso nell’Autoritratto di un fotografo (2011), scritto par lui-même qualche anno fa, mentre continua a ricordarcelo ogni tanto con quelle straordinarie cartoline che appaiono sul portale di Doppiozero. Sembrano proprio queste ultime a suggerire la formula più congeniale a Scianna per far dialogare alla perfezione i suoi scatti e le sue parole e per dar voce ad un racconto che – confermandoci ormai le sue indubitabili doti di doppiotalento – coniuga in un’unica sintassi l’espressione verbale e quella visuale.

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Ferdinando Scianna nasce a Bagheria nel 1943. Alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo frequenta le lezioni di Cesare Brandi, ma non completa gli studi. Nel 1963 conosce Leonardo Sciascia e, insieme con lui, pubblica il primo dei numerosi libri che sarebbero nati dal loro sodalizio: Feste religiose in Sicilia (1965), con il quale vince il Premio Nadar. Subito dopo lascia la Sicilia e si trasferisce a Milano. Nel 1967 viene assunto dall’Europeo come fotoreporter e inviato speciale. In seguito si trasferisce a Parigi dove vive per dieci anni e continua a lavorare per lo stesso settimanale come corrispondente.

Nel 1982 è il primo fotografo italiano ad essere ammesso alla Magnum, grazie alla presentazione di Henri Cartier-Bresson. Nel 1987 inizia una collaborazione con l’allora esordienti Dolce e Gabbana, che lo introducono nel mondo della moda: lavora con successo internazionale per una decina d’anni. Continua in quegli stessi anni l’attività fotogiornalistica e scrive per diverse testate italiane e francesi articoli di critica fotografica. Una raccolta di questi articoli viene pubblicata nel 2001 da Rizzoli con il titolo di Obiettivo ambiguo.

I più di trenta libri pubblicati in circa cinquant’anni di attività disegnano la mappa delle sue scorribande nel mondo reale ed editoriale, attraversando con disinvoltura con la sua macchiana fotografica e la sua penna continenti come generi e forme di scrittura, dalla Sicilia (La villa dei mostri e Les Siciliens, 1977; Sicilia ricordata, 2001) ai suoi «dintorni» – come scrive Sciascia (Kami: minatori sulle Ande boliviane, La scoperta dell’America, Ore di Spagna, 1988; Viaggio a Lourdes, 1996); dal fotogiornalismo all’inchiesta antropologica fino ai cataloghi di moda (Marpessa, un racconto, 1993; Altrove, reportage di moda, 1995); dai libri tematici, «repertorio» delle sue ossessioni (Città del mondo, 1988; Dormire, forse sognare, 1997; Mondo bambino, 2002) a quelli antologici (Le forme del caos, 1989; La geometria e la passione, 2009); dalle altre «chiacchiere sulla fotografia» – è lui stesso a definirle così –, che fanno seguito a quelle raccolte in Obiettivo ambiguo (Baaria, Bagheria. Dialogo sulla memoria, il cinema, la fotografia, con Giuseppe Tornatore, 2009; Etica e fotogiornalismo, 2010) all’autobiografia (Autoritratto di un fotografo, 2011). La voglia di «raccontare i tatti propri» e, insieme, della grande famiglia allargata delle sue amicizie si è rivelata negli ultimi anni l’istanza più forte, soprattutto nella trilogia fototestuale il cui primo capitolo è costituito dallo straordinario ‘romanzo della memoria’ Quelli di Bagheria (2002), seguito dalle due puntate più recenti di Ti mangio con gli occhi (2013) e Visti&Scritti (2014).

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Nel dicembre del 1953 esce in Italia la settima edizione di Conversazione in Sicilia pubblicata da Elio Vittorini per Bompiani: frutto di un vero e proprio viaggio di reportage nella Sicilia dei primi anni Cinquanta, essa presenta un corredo fotografico di 188 scatti, la maggior parte dei quali a firma del fotografo marchigiano Luigi Crocenzi. Nel processo di riscoperta che ha interessato il fototesto vittoriniano negli ultimi anni, un aspetto su cui non ci si è ancora soffermati a sufficienza riguarda il ‘prequel’, la preistoria testuale da cui Conversazione illustrata scaturisce. Quest’articolo si propone di ricostruire brevemente quali testi possano aver influenzato Vittorini durante la composizione di Conversazione illustrata e come tra questi testi possano aver giocato un ruolo fondamentale quelli appartenenti al genere fototestuale americano del documentary book.

In December 1953, it has been released in Italy the seventh edition of In Sicily by Elio Vittorini, published by Valentino Bompiani: as a result of a real travel reportage in Sicily in the early Fifties, it shows a photographic complement made up of 188 shots, took for the most part by the photographer Luigi Crocenzi. In the process of revaluation that recently has involved the photo-text by Elio Vittorini, the ‘prequel’, the prehistory in which the text takes its origin, is an issue on which critics maybe has not yet focused enough. This article aims to reconstruct briefly which texts may have influenced Vittorini during the composition of the seventh edition of In Siciliy and how, between these texts, those belonging to the photo-textual genre of the American Documentary book may have played a key role.

 

Nel dicembre del 1953 esce in Italia la settima edizione di Conversazione in Sicilia pubblicata da Elio Vittorini per Bompiani: frutto di un vero e proprio viaggio di reportage nella Sicilia dei primi anni Cinquanta, essa presenta un corredo fotografico di 188 scatti, la maggior parte dei quali a firma del fotografo marchigiano Luigi Crocenzi.

A quest’edizione ormai celebre, in particolar modo negli ultimi anni, è stata dedicata particolare attenzione da parte della critica: attenzione che nel 2007 è culminata nella ripubblicazione dell’edizione anastatica, uscita presso Rizzoli per la cura di Maria Rizzarelli. La recente fortuna critica da una parte si può spiegare col fatto che Conversazione illustrata[1] rappresenta il primo vero esempio di photo-text che coinvolge un testo letterario a comparire in Italia nei primissimi anni Cinquanta: Un paese, di Zavattini e Strand, sarebbe comparso soltanto nell’aprile del ’54; Le feste religiose in Sicilia, di Sciascia e Scianna, risale al 1965 (per citare due esempi altrettanto celebri). Dall’altro lato ad attirare le riflessioni degli studiosi molto probabilmente è il carattere ambiguo del volume in cui è rappresentata in pieno quella lotta – che nel caso di Conversazione illustrata evolve addirittura in contesa legale –, quello struggle for territory tra testo e immagine teorizzato da Mitchell, e indicato da Cometa come una delle caratteristiche del genere fototestuale.[2]

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