Marazzi’s cinema is focused on the exploration of female subjectivity, which represents a sort of thematic and figurative ‘obsession’. His experimental research makes heterogeneous materials such as photos, family movies, archive records, letters, animated movies create a dense audiovisual chain, characterized by poetic cutting movements. In addition to a distinct visual freedom, Marazzi’s movies distinguish themselves for a special use of voice-overs, which lively counterbalance the images. This essay tries to highlight the principal instances of off sounds with reference to Un’ora sola ti vorrei and Tutto parla di te, two works in which the mise en son contributes to express a painful female landscape. The analysis of the voice system helps underlying the experimental nature of the Director’s style, completes the necessary references to the elegiac visual of his films, and introduces new nuances to the account of the fruitful relationship between mothers and daughters.

La tua morte caratterizza la mia vita. Voglio trovare l'amore di cui fummo privi ed esercitarlo in tuo nome.

Voglio divulgare i tuoi segreti. Voglio azzerare la distanza tra me e te.

Voglio darti vita.

J. Ellroy, I miei luoghi oscuri

«Quando il film non è un documento, è un sogno»: così annota Bergman in Lanterna magica, confessando poco più avanti la sua ammirazione per Tarkovskij («Il più grande di tutti. Lui si muove con assoluta sicurezza nello spazio dei sogni»).[1] Con le dovute cautele, si ritiene di poter dire che il cinema di Alina Marazzi contraddice l’assunto bergmaniano, poiché giunge all’elaborazione di una «scrittura affettiva»[2] in grado di trasformare, grazie alla forza espressiva del montaggio, materiali d’archivio in partiture ‘sensoriali’, in insolite ‘avventure’[3] della mente e dello sguardo. L’eccezionalità dello stile di Marazzi consiste nella capacità di far deragliare le immagini oltre la soglia del reale, per cui gli inserti documentaristici vengono proiettati dentro un flusso visuale che disegna «lo spazio crepuscolare»[4] dell’anima, regno di una temporalità ambigua, continuamente in bilico fra presente e passato, memoria e testimonianza.

Si deve ad Antonio Costa una delle intuizioni più interessanti sul percorso di ricerca della regista milanese:

Non c’è soluzione di continuità, dunque, tra documento e sogno, i suoi film viaggiano in direzione ostinata e contraria a ogni classificazione, pur inserendosi nel solco di quella «rifondazione del documentario italiano»[6] che ha segnato il cinema degli anni zero del cinema del nostro paese, liberando una serie di talenti interessanti, purtroppo ancora fuori circuito a causa di una miope politica di distribuzione. Per Adriano Aprà la novità che accomuna i nuovi autori di fine millennio è il distacco dalla tradizione, una sorta di euforica emancipazione dai modelli, per cui l’ormai abusata voce fuori campo onnisciente, che commenta immagini cieche, sopravvive solo nella televisione di massa, superata da un «moderno reticolo»[7] di piani e suoni. Si tratta di un contesto variegato, ricco di modi e forme del racconto, dominato da un convinto sperimentalismo, all’interno del quale è possibile isolare almeno tre categorie, utili a tracciare una mappa delle direzioni di ricerca:

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