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Il volume di Nicoletta Mainardi su Luzi e lo sguardo dell’arte (Edizioni ETS, 2020) propone uno studio inedito della figura di Mario Luzi critico d’arte e poeta. La passione figurativa del poeta non è sconosciuta, così come la sua attività di critico d’arte: i libri en artiste e le prove di poesia visiva sono stati oggetto di indagine da parte degli studiosi negli ultimi anni e già nel 1997 – vivo l’autore – sono stati raccolti gli scritti critici del poeta (Luzi critico d’arte, LoGisma Editore, 1997), con significativi saggi introduttivi. Mainardi apre tuttavia una nuova strada di ricerca, non descrivendo soltanto una vera e propria ‘galleria’ delle opere che Luzi prediligeva e teneva a mente nel suo personale processo di «creazione incessante», ma mettendo finalmente in luce le caratteristiche peculiari del rapporto di scambio reciproco che lega lo «sguardo sull’arte», la critica vera e propria e la produzione letteraria dell’autore. Lo studio tiene costantemente insieme questi tre elementi e rileva come il poeta guardasse all’arte figurativa con occhi plasmati dalla propria poetica, assorbendone d’altro canto immagini e linguaggio – restituiti poi nei testi. Lo stesso Luzi ha parlato di questa complementarità tra figurazione e lingua poetica («La pittura per me è come la parola» è la dichiarazione più celebre, qui a p. 5) in diverse occasioni, e un grande merito di questo libro sta nelle indagini sulla presenza – soprattutto lessicale – dei linguaggi delle arti visive nei componimenti in apparenza più lontani da questo ambito: la studiosa mette bene in evidenza, nei diversi capitoli, come Luzi abbia assorbito la lingua dell’arte e della critica artistica e la riproponga nei suoi testi prettamente poetici, mostrando una stretta correlazione tra i due campi.

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Se ci fosse bisogno di interrogarsi ancora sulla rilevanza internazionale acquisita nel tempo dall’opera di Luigi Pirandello, basterebbero i volumi editi per i tipi di Peter Lang a confermarla e per riconoscere nello scrittore e drammaturgo siciliano uno degli interpreti più acuti della modernità. Dopo aver affrontato il nodo narrazione, memoria e identità in un precedente volume allestito da Alessandra Sorrentino e Michael Rössner, l’indagine su ‘Pirandello in un mondo globalizzato’ procede ad esplorare il macrotesto dell’autore siciliano dalla specola della visualità con la raccolta di saggi curata da Bart Van den Bossche e da Bart Dreesen, intitolata Iconografie pirandelliane. Immagini e cultura visiva nell’opera di Luigi Pirandello (2020). I variegati contributi sono raggruppati in quattro sezioni, che scandiscono la ricerca con fitti e numerosi rilanci e rimandi interni. Dopo l’Introduzione dei curatori, la prima parte è dedicata alle coordinate generali del discorso. Le dinamiche di rivelazione e svelamento presenti non solo nella scrittura teatrale, ma anche nella narrativa, vengono individuate da Dominique Budor e Margherita Pastore e ricondotte a due eventi biografici risalenti all’infanzia – la vista dell’amplesso tra un uomo e una donna nella torre-morgue e la scoperta dell’adulterio del padre con la giovane nipote nel convento di Palermo – già raccontati nella biografia autorizzata di Nardelli, ma che qui vengono accortamente inseguiti e ricostruiti attraverso i processi di mascheramento, rimozione, palesamento. La persistente iconicità che permea l’opera pirandelliana viene rintracciata, in questo segmento del volume, in alcuni emblemi ricorrenti: l’immagine copernicana e pascaliana dell’uomo sospeso tra gli infiniti del tempo e dello spazio (Lia Fava Guzzetta), la costante metaforizzazione della teoresi, particolarmente evidente nel Fu Mattia Pascal e nell’Umorismo (Sara Lorenzetti).

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