Una delle obiezioni che si muovono a ricerche del genere [...] è di aver posto in opera un apparato culturale esagerato per parlare di cose di minima importanza, come un fumetto di Superman [...]. Ora, la somma di questi messaggi minimi che accompagnano la nostra vita quotidiana, costituisce il più vistoso fenomeno culturale della civiltà in cui siamo chiamati ad operare. Nel momento in cui si accetta di fare di questi messaggi oggetto di critica, non vi sarà strumento inadeguato, e si dovrà saggiarli come oggetti degni della massima considerazione.

Umberto Eco

 

L’idea di approfondire la ricezione dei poemi narrativi nella nona arte è nata partendo dallo studio della ricca e precocissima fortuna illustrativa dei romanzi cavallereschi, dalle xilografie delle prime edizioni a stampa fino alle opere degli artisti contemporanei. All’interno di questa fiorente tradizione, il ‘pensiero disegnato’ del fumetto si è inserito naturalmente, nei primi decenni del Novecento, sia sviluppando l’eleganza grafica e la capacità di ‘emblematizzazione’ raggiunte dagli illustratori, sia cogliendo a pieno e reificando due caratteristiche intrinseche della poesia narrativa: da un lato l’enargeia e la predisposizione alla creazione di immagini vivide, alla rappresentazione immediatamente visibile e memorabile delle azioni dei singoli personaggi per mezzo delle risorse della versificazione; dall’altro la prossimità ai generi letterari più vicini alla performatività. Attraverso differenti modalità di trasposizione, o travestimento, e persino di libera riscrittura in versione parodica, le ‘traduzioni’ fumettistiche di queste opere in versi si sono cimentate in un confronto con il dettato poetico originario volto non soltanto a dare concretamente corpo all’implicita componente iconica delle storie, ma anche a trasferire nel linguaggio del comic i meccanismi stessi della narrazione poetica, mettendo in scena la pervasiva dialogicità che la caratterizza e spesso riproponendo sul piano grafico talune metafore e allegorie del testo di partenza.

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L’esplosione della fortuna iconografica del Furioso affonda le sue radici in epoche lontane, innescata con una sorprendente rapidità da artisti e stampatori immediatamente dopo la sua genesi testuale anzi ancor prima che Ariosto trovasse per il suo poema la forma definitiva in 46 canti (1532). La felice onda d’urto di questo precoce e vastissimo successo visivo, superando anche le secche del più tassesco XVII secolo, ha investito tutta la storia del libro illustrato, attraversando ‘cinque secoli di stampa’ e disegnando un percorso senza eguali nel dialogo tra poesia e immagini. La galleria che qui presentiamo intende fotografare alcuni dei lampi più recenti di questa splendida deflagrazione, raggiungendo il secolo in cui lo «abominoso ordigno» gettato in mare da Orlando ha squassato il mondo intero e l’uomo, privo dell’aiuto di ippogrifi ed evangelisti, ha calpestato il deserto lunare senza trovarvi il suo senno perduto.

Attraverso questa esposizione virtuale e il commento di oggetti che gravitano nella galassia del libro (non solo edizioni figurate vere e proprie, dunque, ma anche cartelle d’artista, serie di incisioni, riduzioni illustrate e fumetti) si intende mostrare come l’immaginario ariostesco sia riuscito a sposarsi con le più disparate tendenze formali del Novecento: dai tratti più tradizionali nei volumi di inizio secolo (come quello illustrato da Giambattista Galizzi) agli esperimenti visuali di Enrico Baj, Arturo Carmassi, Luciano De Vita e altri, raccolti da Riccardo Bacchelli nel ’79; dal nostalgico figurativismo delle incisioni di Franco Gentilini all’astrattismo di quelle di Emilio Vedova; dai colori rutilanti dell’ex-futurista Aligi Sassu alle poche tinte acquerello del post-surrealista Fabrizio Clerici, autore di 180 tavole per il Furioso.

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Ludovico Ariosto, Orlando furioso, quarantasei tavole in tricromia, quarantasei tavole in rotocalco fuori testo e quarantasei disegni episodici di Giambattista Galizzi, Milano, Labor, 1945

Così un anonimo portavoce della “Labor” introduceva il lettore a un’edizione del capolavoro ariostesco evidentemente allestita ‘in funzione’ delle tavole del pittore bergamasco Giovan Battista Galizzi (1882-1963). Queste ultime, a propria volta, dovevano soddisfare pienamente il «culto del bello» di un pubblico piccolo o medio-borghese suscettibile di scandalizzarsi ancora (1945) per le ironiche oscenità del Furioso. Gli editori non esitarono infatti a sforbiciare con disinvoltura intere novellette, sottolineando nello stesso tempo solo il lato pio della considerevole opera illustrativa di Galizzi, che contava invece anche titoli come The life and death of John Falstaff, i Contes drôlatiques di Balzac, le Notti dello Straparola – oltre naturalmente al suo capolavoro, il Pinocchio per la Sei di Torino (1942). Galizzi, senz’altro uno dei più importanti illustratori della prima metà del secolo, era un noto e premiato pittore sacro, ricercatissimo per chiese e cappelle di città e campagna, ma anche notevole caricaturista e disegnatore satirico (in quest’ultima veste aveva messo, durante la Grande Guerra, la sua matita al servizio della propaganda anti-austriaca).

Un artista ‘laureato’, dunque, non mancante di nessuna unzione ufficiale, accademica o ecclesiastica; eppure, chi guarda oggi le sue tavole non può che venir preso da una netta sensazione di inquietudine. Questo Furioso, ad esempio. La prima impressione – purché molto distratta – può anche essere quella d’una vivacità fiabesca, un vignettismo raffinato e popolare insieme, spirante la grazia ingenua di quei vecchi libri illustrati per l’infanzia passati ‘da bambino a bambino’ per due o tre generazioni. Basta indugiarvi un poco, però, ed ecco apparire inverecondi affioramenti di inconscio e sarcasmi neri, in mezzo ai quali l’ingenuità e il candore permangono, ma nel modo in cui potrebbero essere simulati da un libertino.

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Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, a cura di Lanfranco Caretti, introduzione di Riccardo Bacchelli, illustrazioni di Fabrizio Clerici, Milano, Electa, 1967, 3 voll.

Trascelti tre vertici nella tradizione iconografica del poema (Doré, Fragonard e l’incisore guidato da Ruscelli per l’edizione cinquecentesca impressa da Valgrisi), Clerici si propose di offrire un Furioso ‘nuovo’, intenzionalmente «commento grafico» più che ‘illustrazione’, a partire da un inedito formato: 158 tavole autonome e 47 rapidi disegni nel volume col testo. Le litografie individuano molte zone del poema mai illustrate prima, indugiando sulla drammaticità delle scene spesso sottolineata da un andamento a spirale nella composizione, con corpi umani e animali tesi in espressive inarcature. Il segno aderisce volentieri al tono disomogeneo delle ottave, passando da liquidi paesaggi in stile orientale a virtuosismi analitici nella resa di chiome, abiti e criniere imparentati con la grafica di Arcimboldo e con la precisione del calligrafismo ottocentesco. Anche il colore, intervenendo sempre sulle già nette linee del disegno con poche ricorrenti tinte, risponde alle esigenze degli episodi: evidenzia la traiettoria di un incantesimo di Malagigi, il sangue della testa mozzata di Orrilo, la figurina di Bradamante nell’antro di Merlino. In due casi una larga campitura inquadra l’intera scena: la prima, rosso chiaro, fa invisibile Angelica, la seconda, dorata, distingue le arpie ‘vere’ di Senapo da quelle allegoriche che minacciano l’Italia accecata. Se per gran parte dei profili dei cavalieri, sottili e allungati, si è parlato delle influenze di El Greco e Scipione, i numerosissimi cavalli citano esplicitamente i taccuini leonardeschi, i cui bozzetti tornano anche nei motivi delle spade e delle scale. La memoria visuale di Clerici, tratto distintivo già in pittura, fa convergere su Ariosto le ispirazioni più disparate: così la follia di Orlando ricalca il teschio di un celebre autoritratto di Böcklin, navi e torri riprendono le tele di Brueghel, l’eremita del canto secondo risponde all’iconografia medievale di Balaam e i tratti esplosivi del Don Chisciotte illustrato da Dalì tornano, magari più giustificate, nella furia di Orlando contro gli eserciti di Alzirdo e Manilardo. Le architetture fantastiche evocano quelle ideali tra rinascimento e barocco (con letterali citazioni da Dietterlin), mentre l’insistente motivo della caduta di uomini e animali dialoga col Fetonte michelangiolesco, le cui naiadi sembrano aver suggerito all’artista la postura di Astolfo trasformato in mirto. Agli scontri impaginati alla maniera delle grandi mischie cinquecentesche (con il fantasma delle battaglie di Anghiari e di Cascina, e la loro fortuna, a suggerire più di un modulo compositivo) si contrappongono ritratti in primo piano dei personaggi, caricati di drammaticità o rivelati nella loro ambiguità da intrecci di segni e macchie di colore. Gli amori, meno indagati, non sono però assenti e vengono evocati nella loro più inesplorata intimità. I cavalieri messi in scena nel ciclo di tavole spesso sono stati considerati dalla critica troppo tragicamente sforzati per rispondere all’ironia e alla levità delle ottave, ma si alleggeriscono immediatamente se accettati come automi, burattini post-dechirichiani sulle assi di un mirabolante teatro barocco come al centro di un tribunale letterario che chiede al pubblico un giudizio immediato. Non a caso Clerici inviò a Ferrara per il centenario di Ariosto la tela Krak des Chevaliers – immediatamente successiva al suo Furioso e stilisticamente contigua – in cui gli stessi cavalieri figurano stremati, come dopo una lunga recita, intorno a un palco delimitato a sinistra da un piccolo cumulo di loro compagni ormai inanimati come giocattoli dismessi. All’operazione di assoluta godibilità costituita dalle tavole – cólta ma leggibile, con tanto di indicazione precisa dei versi illustrati – si accosta la più libera ed enigmatica serie dei disegni impaginati col testo, non sempre immediatamente riferibili ai canti che accompagnano. Alcuni degli stilizzati personaggi che vi compaiono sembrano estranei alla finzione, inseriti come pubblico intradiegetico di astanti settecenteschi à la Panini; altri trasfigurano in ibridi egizi con teste zoomorfe. Altri ancora, come un mostro somigliante a un’arpia con lunghe ali, ricorrono senza apparente riferimento al testo, invitando forse a una lettura a chiave delle immagini. Sia nell’ultima illustrazione che in quella che corona l’introduzione di Bacchelli, in ogni caso, sembra distinguibile una navicella prima attorniata da figure varie e infine condotta a un approdo abitato, che bene allineerebbe il personalissimo percorso di Clerici con il viaggio ariostesco «nel mar per tanta via».

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Emilio Vedova, Sei incisioni per l’Ariosto, con un testo di Giuseppe Marchiori, Venezia, Edizioni Grafica, 1970-1974

Con ogni probabilità un osservatore abituato non solo alle tradizionali edizioni illustrate ma anche alle figurazioni meno immediatamente leggibili fiorite nel Novecento intorno al testo del Furioso resterà comunque disorientato di fronte al lavoro di Emilio Vedova. Le Sei incisioni per l’Ariosto sono infatti le visualizzazioni più spiccatamente non-figurative tra quelle oggi rintracciabili nelle bibliografie e nei cataloghi. Si tratta del resto di lavori tipici della poetica dell’artista, che intrattiene con gli episodi scelti dal poema un dialogo condotto nell’idioletto tecnico e visivo dell’illustratore: bianco e nero, espressione affidata a un segnismo assoluto e trasmissione fedele del gesto originario sulla carta attraverso lastre lavorate direttamente. Le ispirazioni delle acqueforti sembrano selezionate proprio per consentire alla tecnica dell’artista di manifestarsi senza freni nella sua più peculiare autenticità: si tratta infatti di soggetti in cui il dinamismo frenetico delle forme vedoviane è giustificato dalla lettera delle ottave. Rodomonte e Orlando sono còlti all’apice delle rispettive follie, il primo bestialmente intento a far strage di cristiani e il secondo abbandonato ai più turpi eccessi; Ruggiero, invece, nell’atto di suonare il corno «per non udir più d’atti e di parole / dilazïon, ma far la lite corta» (OF, XXX, 44, 5-6) e lanciarsi all’assalto di Mandricardo. Tutte le immagini, realizzate attraverso l’espressionismo antirealistico ma non esclusivamente astratto di Vedova, interrogano direttamente l’osservatore aprendosi all’interpretazione delle loro linee dense e impetuose: in quella ispirata al canto xxiv sembra ad esempio di poter riconoscere la fisionomia scomposta dell’eroe impazzito, le cui braccia – individuate da un tratto grasso, rapido e profondamente inciso – sono sollevate contro l’intuibile sfondo di un villaggio, forse intente a stroncare il corpo del pastore, forse a brandirlo contro gli altri villani. Un’incisione è poi dedicata a Biserta, il teatro del formidabile assalto, che davvero somiglia a un «mar che per tempesta freme» (OF, XL, 29, 1); un’altra al Tempo, «che d’ogni cervio è più veloce assai» (OF, XXXV, 11, 4), il cui gesto forsennato di gettare nell’oblio i nomi degli uomini scomparsi – materializzati da Ariosto mediante l’allegoria delle piastrelle scaricate nel Lete e avvolte dalle sabbie – sembra replicato da quello violento e rapido dell’artista sulla lastra. A chiudere il breve ciclo una rappresentazione del senno di Orlando, l’unica in cui con tanta evidenza il bianco prevalga sul nero e l’unica in cui le campiture non sembrino seguire direttrici orientate ma richiamino piuttosto alla mente i fendenti del dripping, ammorbiditi dalla distanza tra la mano dell’artista e lo schermo che subisce l’impressione. La serie, tutta improntata alla matericità e al caos, è dunque coronata dall’immagine mercuriale e inafferrabile della sostanza che manca in tutti gli altri episodi citati e che in effetti è descritta dal poeta «come un liquor suttile e molle, / atto a esalar, se non si tien ben chiuso» (OF, XXXIV, 83, 1-2). La maestria di Vedova nella calcografia, sviluppata per decenni collaborando con stampatori mitologici come Renzo Romero e Corrado Albicocco, consente alle sei acqueforti di riprodurre in serie la spontanea azione che l’artista ha trasferito sulla matrice e di conservare, al contempo, la fisionomia propria della sua pittura, a quell’altezza già da tempo informale ma non per questo puramente lirica. Resta difficile capire l’occasione del ciclo che, sebbene sia stato esposto alla mostra ferrarese dedicata al centenario di Ariosto, è datato 1970-1974 presso la fondazione veneziana dedicata all’artista. Se davvero l’opera risalisse a prima del ’74, anno che ha innescato i lavori sul Furioso di diversi autori invitati a contribuire alla collettiva a Palazzo dei Diamanti, si tratterebbe dell’unica cartella d’artista del decennio ingenerata da un autonomo interesse per i soggetti ariosteschi.

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Aligi Sassu, Fantasie d’amore e di guerra dall’Orlando Furioso, quindici incisioni a colori di Aligi Sassu, introduzione di Vittorio Sereni, Milano, Edizioni dell’Orso, 1974

Nell’opera di Sassu, principalmente pittorica e caratterizzata da un’importante e peculiare serie di murales, non manca una ricca produzione grafica dedicata anche, con punte di appassionata insistenza, ai libri: più volte, fino a tempi recentissimi, la sua monumentale serie di acquerelli d’ispirazione manzoniana è stata stampata e ristampata come corredo iconografico di pregiate edizioni de I promessi sposi. Chiamato, assieme a molti altri pittori e scultori, a inviare un’opera a Palazzo dei Diamanti per una variegata collettiva ferrarese in omaggio all’Ariosto nel 1974, è stato tra i pochi a far coincidere con quell’esperienza un lavoro decisamente più ampio. Ha realizzato, infatti, una serie di incisioni che, nello stesso anno, sono state raccolte dalle Edizioni dell’Orso nella cartella autonoma di illustrazioni dedicate al Furioso più voluminosa mai prodotta: ben quindici tavole. La realizzazione della piccola tiratura (novanta esemplari numerati) ha visto protagonista anche un altro amante del poema, Vittorio Sereni che, aprendo il volumetto con un’agile e affettuosa introduzione, interpreta il lavoro di Sassu come «una lettura», un’opera di appropriazione simile a quella di un traduttore impegnato con la selezione e la versione di un’ampia opera poetica. Certamente i soggetti cavallereschi sembrano sposarsi naturalmente con lo stile tipico di Sassu, che rimane riconoscibilissimo: colori intensi, figure plastiche e definite, anatomie sotto sforzo di memoria futurista e, naturalmente, il ricorrere del motivo dei cavalli, inconfondibile cifra iconografica. Ciò che colpisce, come nota anche Sereni, è la capacità dell’artista di condensare in pochi episodi (in gran parte cavati dai primi canti) il profilo del poema intero con soluzioni allusive molto efficaci: una su tutte il ricorrente, metafisico pavimento a scacchi che sembra riproporre l’idea del Furioso come grande partita giocata sullo scacchiere del mondo. La scelta poi di sviluppare soggetti toccati solo di passaggio da Ariosto mostra la partecipazione con cui la traduzione in immagini è stata condotta da Sassu, che coglie dal canto xxxvii un rapido accenno alla terra d’origine di Ullania («Ullania che da l’Isola perduta / in Francia messaggera era venuta», OF, xxxvii, 28, 7-8) e decide di evocare proprio un’inquietante Islanda deserta, con alberi spogli tesi verso uno strano soffitto celeste istoriato e quadrettato, nella sua resa visiva. Il titolo scelto per l’opera, Fantasie d’amore e di guerra, inquadra bene i due basilari poli emotivi ricavati dall’incipit del poema e il ciclo di incisioni li trasla in immagine attraverso l’avvicendarsi di colori accesi e violenti con tinte intense e fredde, i primi esplosi intorno ai corpi tesi degli eroi e le seconde stese intorno alle figure femminili, nude e a riposo anche nei momenti di più intenso pathos. Fa eccezione, naturalmente, il profilo rosso cupo di Bradamante armata, che in una delle prime tavole si staglia su uno scabro paesaggio vuoto percorso dalla solita scacchiera; un’eccezione anche dal punto di vista dell’impaginazione visto che, salvo che per le due stanze trascritte insieme appetto dell’eroina, il resto del testo tratto dal poema nel volumetto dialoga con le figurazioni un’ottava alla volta, con l’indicazione precisa del numero e un titolo sintetico e referenziale per la tavola. L’interesse di questo particolare episodio della fortuna iconografica del Furioso nel Novecento sta proprio nel suo costituire, pur nella forma raffinata e assoluta della cartella d’incisioni sganciata dall’edizione del testo integrale, una prova di vera e propria illustrazione d’artista del poema, i cui brani sono stampati a specchio delle immagini e adoperati non come occasione o, sempre secondo Sereni, come «oggetto di metafora», ma come soggetto da ritrarre.

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Pino Zac, Orlando furioso di Ludovico Ariosto, Milano, Corno, 1975 (‘I cartoons in grande’, 3)

Oltre ad esser stato uno dei più importanti illustratori satirici italiani ed europei («Il Male», «Le Canard enchaîné», «Playtime», «Szpilki»), Giuseppe Zaccaria, in arte Pino Zac, fu anche autore di alcuni cortometraggi animati, fra i quali possiamo ricordare almeno una trasposizione a tecnica mista de Il cavaliere inesistente di Italo Calvino (1971) e una riduzione fumettistica de La secchia rapita di Alessandro Tassoni (1972). Negli stessi anni in cui realizzò questi cortometraggi, Zac compose anche una riscrittura a fumetti dell’Orlando Furioso. Ospitata tra il 1972 e il 1973 dalla rivista «Eureka», l’intera storia venne poi raccolta in volume nel 1975 (Editoriale Corno, Milano), presentandosi come una trasposizione visiva in cui l’intero poema ariostesco – recita il frontespizio – viene «ricantato liberamente a fumetti».

Il confronto col modello è totale. Zac fa esercizio di taglio e cucito sul testo ariostesco; qui cita con fedeltà, là parafrasa, altrove riassume, ovunque traspone visivamente ciò che è filtrato dalla sua personale lettura del poema. Conserva a grandi linee la macrostruttura originale, pur prendendosi la libertà di ridisegnarne l’articolazione (da 46 a 36 canti) e di riposizionare alcuni blocchi narrativi. La definizione che campeggia sul frontespizio rende con precisione il senso dell’opera(zione) di Zac e svela tutto il rapporto agonistico che l’illustratore instaura con Ariosto; un’auctoritas testuale quest’ultima verso cui la lente deformante della parodia per baloon di Zac non riesce a nascondere un comune sentire, un affine sguardo sul mondo, testimoniati anche (e sempre in sberleffo) dall’affiancamento, sulla soglia incipitaria, di una fototessera alquanto beffarda di Zac e del famoso ritratto pseudotizianesco di Ariosto. Rispetto e pernacchia, traduzione e tradimento convivono dunque in questo poema per immagini. Oltre all’autore (come già fa Ariosto), Zac mette però in scena anche il lettore. Vediamo ad esempio che l’intero canto XVI è occupato da un dialogo fra l’auctor Ariosto (che, ritratto questa volta in scena, reclama «i valori della poesia» insieme alla propria autonomia creativa), il pictor Zac (che, anch’esso in scena, si giustifica in quanto illustratore del testo, pur reclamando a sua volta la necessaria cura verso «i valori figurativi») e il lector, «quello che paga, quello che compra il giornale, che paga il biglietto, quello che ha il diritto di capirci qualcosa in questa assurda storia di cavalieri, di armi e di amori». Di fronte alle legittime «istanze» del lettore (e in impressionante sincronia, forse ironica, con le coeve teoriche reader oriented), il duo autoriale non può che capitolare e offrire (ognuno coi propri mezzi) un «reader-digest» dei personaggi, delle armi e delle magie dell’intero poema illustrato, una presentazione del racconto che – collocata com’è in un’anomala posizione mediana – funge al contempo da aide-mémoire degli eventi già letti e da bussola per le storie a venire. È comunque la compresenza di Ariosto e Zac sulla tavola a risultare di maggior interesse, in quanto drammatizza il corpo a corpo perseguito dall’illustratore rispetto al testo, la sua volontà di raccontare nuovamente le armi e gli amori, rendendo però giustizia anche al linguaggio delle immagini. Proprio in ragione di una tale implicita rivendicazione acquisisce maggior senso il costante ricorso del fumetto a soluzioni grafiche proprie di quel discorso per immagini che è il racconto cinematografico: inquadrature per controcampo, contrasti luministici, sostituzione del segno alfabetico con quello grafico, finti occhi di bue e improvvise zoomate che frantumano la figura in minimi dettagli; la frantumazione della tavola risponde spesso a una chiara volontà di intensificazione espressiva e lascia intravvedere anche la familiarità di Zac con maestri del fumetto come Guido Crepax: si veda almeno la rappresentazione dell’amplesso – tutto mentale – tra Ruggiero e Bradamante al canto III.

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Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, Illustrazioni ed interpretazione grafica con testo e firma autografa di Riccardo Bacchelli e incisioni originali di: Giuseppe Ajmone, Enrico Baj, Arturo Carmassi, Bruno Caruso, Bruno Cassinari, Luciano De Vita, Franco Gentilini, Giuseppe Guerreschi, Giuseppe Migneco, Luciano Minguzzi, Franco Rognoni, Aligi Sassu, Milano, La Spirale, 1979

Il cenacolo de «La Ronda» è stato certamente, dopo la prima Guerra, uno dei più vivaci focolai dell’amore novecentesco per il Furioso e Riccardo Bacchelli, in quegli anni ancora conteso tra la poesia, il teatro e la passione che sarà poi predominante per la narrativa, fu da allora tra i più fedeli seguaci di Ariosto nella contemporaneità letteraria italiana. Come notò Gadda, altro ‘ariostesco’ d’eccezione, il grandioso épos de Il mulino del Po deve molto alle ottave del capolavoro rinascimentale, e basta scorrere i titoli della sua saggistica, quasi tutta dedicata al «poeta della poesia», per confermare il legame di Bacchelli con Ariosto, omaggiato per l’anniversario del 1974 con un ulteriore tardo contributo apparso accanto a quelli di Borges e Calvino su «Italianistica». Uno degli episodi più interessanti di questa lunga passione è costituito da una cartella di incisioni originali dedicate al Furioso raccolte a Milano nel 1979 presso la galleria La Spirale, che affidò proprio a Bacchelli, la cui firma autografa è impressa su ogni esemplare, la cura del testo introduttivo. I dodici artisti coinvolti, ognuno impegnato con una tavola, appartengono a orientamenti visuali diversi a volte in netto contrasto: se, ad esempio, l’espressionismo figurativo di Giuseppe Migneco – in quegli anni già decisamente associato al realismo socialista – intaglia il corpo candido di una formosa Angelica sulle vesti nere dell’eremita pronto ad assalirla nel sonno, con il suo eclettico ‘antistile’ post-surrealista Enrico Baj immagina una rossissima Angelica buffa e nasuta, distinta dal suo Medoro anche lui monocromo (ma verde) nel forte stacco tra i colori primari. Non è chiaro quanto Bacchelli abbia contribuito alla selezione degli illustratori ma è certo che alcuni, come Gentilini e Sassu, avevano già tratto dal poema di Ariosto l’ispirazione per altri lavori. Il primo, proprio negli stessi mesi impegnato nella realizzazione di una rara cartella di incisioni sul canto xxviii, ricorre al suo classico motivo architettonico ispirato alle città e alle cattedrali dipinte nel tardo medioevo e nella prima modernità per disegnare un paradiso urbano cinto da mura alla cui soglia, armato e accompagnato dall’ippogrifo, si avvicina Ruggiero. Il secondo, che pochi anni prima aveva firmato quindici illustrazioni ariostesche, indulge nella sua ossessione figurativa per i cavalli scegliendo il canto xxxviii per poter realizzare, in linea col suo stile pittorico, la torma di cavalcature generate miracolosamente dai massi dell’Atlante. Altri artisti sono più agevolmente ascrivibili alla pittura milanese che a cavallo tra anni Settanta e anni Ottanta gravitava intorno a La Spirale: è il caso di Giuseppe Ajmone e Bruno Cassinari, attivi presso la galleria fin dagli esordi e riconoscibili, tra gli altri coinvolti nella cartella ariostesca, per la particolare inclinazione al disegno, nuda accumulazione di segni lineari che generano volumi umani nella tavola del primo e stilizzati cavalli alati in quella del secondo, dedicata a Bradamante e all’ippogrifo. Merita particolare attenzione lo splendido lavoro di Bruno Caruso, che immerge la classica immagine di Angelica in fuga in un’insolita atmosfera di sogno, spogliandola da ogni ansia e rapidità e aggiungendo una falce di luna appena colorata per congiungere la cavalcata dei primi canti al volo di Astolfo ancora da venire. Interessante poi, anche per la peculiarità del soggetto, il Ricciardetto vestito da donna di Arturo Carmassi, altro protagonista della scena milanese, che rende l’immagine del canto xxv in modo quasi informale, sovrapponendo sagome dal profilo essenziale in una sorta di gioco tonale di trasparenze.

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Ludovico Ariosto, Orlando furioso: canto ventesimottavo; con quattro incisioni di Franco Gentilini, Pesaro, Edizioni della Pergola 1979

In queste brevi e icastiche affermazioni risiede gran parte della fortuna di Franco Gentilini, artista nato a Faenza nell’agosto del 1909 e trasferitosi a Roma negli anni Trenta del Novecento, noto per i suoi rapporti con molti letterati e altrettanto famoso per i numerosi ritratti femminili che realizzò durante la sua carriera. Romano per scelta, per attrazione – potremmo dire; un’attrazione irresistibile esercitata – come egli stesso ha raccontato – da alcune illustrazioni realizzate da Scipione per la «Fiera Letteraria» e che portò il giovane artista faentino a frequentare e divenire membro dell’elitario circolo di artisti e scrittori che si riuniva nella saletta del famoso caffè Aragno. Lì divenne amico di protagonisti della vita intellettuale romana di quegli anni: da Emilio Cecchi ad Ardengo Soffici, da Giuseppe Ungaretti a Bruno Barilli.

Sin dalla sua formazione, Gentilini mostrò dunque la sua propensione per la grafica e per il fruttuoso sodalizio tra arti visive e scrittura, che segnò tutta la sua esistenza e gli procurò l’appellativo di «pittore prediletto dai letterati». Ma il suo incontro con la letteratura non si limitò esclusivamente al contemporaneo (come ad esempio un’acquaforte per Frammenti di una sconfitta di Vittorio Sereni o i sei disegni per La formica argentina di Italo Calvino); egli mise alla prova la propria arte confrontandosi anche con opere cronologicamente distanti e disparate: dalla Metamorfosi di Kafka (1953) alla Commedia dantesca (1959).

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